Venerdì, 06 Marzo 2015 00:00

Primo Marzo 2015, a Firenze, per i migranti

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Anche quest’anno è arrivato il primo marzo e come già da molti anni non è stato un primo marzo qualunque. Infatti in occasione della giornata internazionale del migrante, la rete Primo Marzo di Firenze, insieme al comitato antirazzista Firenze, all’Arci, alla CGIL Firenze, a MEDU, all’associazione L'Altro Diritto, al Centro Sociale Valdese di via Manzoni, ha organizzato proprio in una sala di quest’ultimo una serata all’insegna dell’antirazzismo e dell’accoglienza.

E oggi più che mai il tema dell’immigrazione deve essere sentito ancor più forte e necessario, dopo che recentemente abbiamo anche visto cancellare l’operazione Mare Nostrum a favore di Triton di Frontex, che punta al controllo delle frontiere. Dopo una ricchissima e prelibata cena con piatti preparati dai vari organizzatori e partecipanti, abbiamo assistito alla proiezione del docu-film – presentato anche alla Mostra del Cinema di Venezia e che alla sua uscita ha riscosso un incredibile successo di critica e pubblico – Io sto con la sposa, di Antonio Augugliaro, Gabriele del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry e Tareq Al Jabr, co-ideatore e co-protagonista del film che abbiamo avuto il piacere di incontrare proprio durante la serata di ieri. Il film, girato con pochissimi mezzi (una semplice telecamera) è una sorta di esperimento atto a mostrare come sarebbe tutto più facile se a rifugiati, persone che scappano da situazioni di crisi umanitaria, da guerre, miseria, soprusi fosse permessa la libertà di movimento tra i vari paesi. È un inno al sogno di un’Europa senza confini, atto a mostrare come questa potrebbe essere possibile se non fosse che questa libertà può essere ottenuta soltanto al prezzo di trasgredire le regole vigenti, ingiuste ed inique che impediscono a queste persone di muoversi liberamente e accedere ai paesi in cui desidererebbero ricostruire le loro vite spezzate, con la speranza di trovare quella pace, quella serenità, quella condizione di dignità lavorativa e umana che nei loro paesi d’origine, per un motivo o per un anno gli sono precluse o gli sono state strappate.

Eppure bisogna diventare illegali per ottenere una libertà che dovrebbe essere un diritto. Essere accolti quando si scappa da guerre o fame dovrebbe essere scontato e invece siriani, palestinesi, libici, libanesi ecc ecc., devono pagare 1.000 euro per un viaggio che molto spesso si rivela un biglietto di sola andata incontro alla morte, come dice un personaggio del film. Un viaggio in mezzo alle intemperie del mare, alle onde troppo spesso assassine che travolgono barconi della speranza, costipati di gente ammassata l’una sull’altra come dei sacchi. Uomini, donne, bambini, vecchi che se riescono a sopravvivere al freddo e alla forza impetuosa del mare, pronto ad inghiottirli senza pietà, approdano sulle nostre coste e finiscono dentro quel limbo infinito chiamato CIE, che assomiglia però più a un inferno. E tutto questo perché le autorità politiche, i governi nazionali e internazionali non hanno la volontà politica di utilizzare risorse che esistono e leggi che già ci sarebbero, per fornire un’accoglienza dignitosa a persone che fuggono da un altro inferno. Nessuno che sembri voler prendersi carico di vite umane, lasciate a sé stesse, abbandonate al loro destino di morte o isolamento, di prigionia dentro centri che di accoglienza hanno solo il nome, o rispedite nei paesi da cui scappano.

Il tema dell’immigrazione è purtroppo uno di quei temi su cui vige ignoranza e cattiva informazione o viene cavalcato dalla retorica strumentale di partiti xenofobi, razzisti, intolleranti per lanciare cifre e messaggi che incitino a diffidare dello straniero che salpa nei nostri lidi perché può essere un terrorista o perché può rubarci il lavoro, perché costringe lo Stato a spendere soldi nostri. Tutte nocive e ignobili falsità che andrebbero combattute non solo il primo marzo ma ogni giorno e anzi, ogni momento della nostra vita.

Tra l’altro molti non sanno che l’Italia è vista solo come un punto d’approdo per molte di queste persone che sognerebbero di andare in altri paesi in cui vivono norme di accoglienza migliori delle nostre, come ad esempio in Svezia.

“L’Italia è un paese di transito”, dice Virginia Signorini di MEDU – Medici per i Diritti Umani, che si occupa di chi, non essendo all’interno del programma di protezione vive disagi socio-abitativa e ha difficoltà ad accedere a diritti sacrosanti come la salute o la casa – “proprio perché qui non si ha la possibilità effettiva di esercitare i propri diritti, come il diritto ad avere un alloggio, un lavoro, la possibilità di curarsi”.

Il regolamento di Dublino, così come la convenzione di Schengen, sono andati a peggiorare situazioni già difficilissime e hanno fatto sì che, continua Virginia, “le persone vengano continuamente rimbalzate da un paese all’altro nell’incessante tentativo di arrivare in un territorio dove cominciare un percorso di reale inclusione.”

Inoltre è grave che operazioni come Mare Nostrum o i corridoi umanitari non siano stati ripristinati dall’Italia. “Questi ultimi”, aggiunge Eleonora Ghizzi, rappresentante de L’Altro Diritto, “esistono e ci sono strumenti giuridici per la loro implementazione ma manca la volontà politica di attuarli o perpetrarli. Oggi un richiedente di asilo può fare domanda d’asilo solo una volta che è entrato nel territorio in cui vuole fare quella domanda di protezione, ma è un paradosso sperare di avere un visto per ottenere il diritto alla protezione dato che la condizione è quella di essere già nel territorio!”

I canali costituivano la possibilità di un ingresso più sicuro nel paese di asilo: “ce ne sono di diversi tipi. Solitamente si pensa a quelle operazioni che comportano l’evacuazione di un gruppo di persone da parte di un paese per trasferirle in blocco ad un altro dove possano avere una protezione nazionale, come ci furono negli anni ’90 durante la guerra in Kosovo, quando anche l’Italia si prese la sua – seppur sempre risibile – quota di rifugiati. Quindi tali operazioni emergenziali riguardano una situazione di crisi umanitaria e la possibilità di trasferimento delle vittime di guerra e dei rifugiati in un paese d’asilo. Un’altra possibilità – continua l’attivista de L’Altro Diritto – è quella di spostarli nei paesi limitrofi ai loro paesi d’origine". L’80% dei rifugiati infatti non sono in Europa o negli Stati Uniti ma nei paesi limitrofi ai paesi di guerra o dove subiscono persecuzioni e violenze, come il Libano ad esempio o paesi dell’Africa. Un ulteriore sistema di protezione è il cosiddetto programma di Resettlement il quale prevede che quando ci si trova ad avere un certo numero di rifugiati nei paesi confinanti a quelli in cui persistono le crisi umanitarie, questi possano essere trasferiti sul territorio del paese in cui si richiede asilo. Altro specchietto per le allodole però, dato che la condizione necessaria è l’adesione a tale programma e nemmeno a dirsi, l’Europa aderisce solo in minima parte, cosicché quei pochi paesi che vi aderiscono si trovano isolati e incapaci di fronteggiare un affollamento di richieste alle loro ambasciate. I paesi che aderiscono sono Stati uniti, Nuova Zelanda, Australia e alcuni paesi dell’America Latina, ma si capisce bene che è molto più complicato raggiungere quei posti senza passare per l’Europa, che appunto, aderisce solo in minima parte.

Un altro problema è che i visti vengono rilasciati in totale discrezionalità dei paesi. Ulteriore procedura, forse la più auspicabile – anche rispetto alle operazioni umanitarie che comunque sono misure eccezionali e anche più dispendiose, se vogliamo parlare in termini economici – è quella degli ingressi protetti che consentono di fare ingresso sul territorio attraverso via legale: c’è la possibilità di richiedere all’ambasciata del paese in cui si vuole arrivare o a quella del paese d’origine o del paese ad esso limitrofo, di chiedere protezione e fare ingresso sul territorio senza rischiare la vita nel viaggio per mare su barconi fatiscenti, perché a quel punto si sarebbe tutelati dal diritto giuridico di protezione, essendo un’emanazione dell’autorità governativa/consolare a decidere chi può avere la protezione nazionale e quindi il permesso di soggiorno.

Di nuovo però manca la volontà politica di mettere effettivamente in pratica strumenti che già esisterebbero. Infatti gli unici paesi che avevano questi canali umanitari (Svizzera e Svezia) sono stati costretti a ritirarli, perché tutti gli altri non li hanno e quindi ancora una volta, non potevano fronteggiare l’ovvio accalcamento alle loro ambasciate. Così come un altro problema deriva dal fatto che spesso i servizi consolari dei paesi d’origine sono oggetto di corruzione, quindi può essere un notevole rischio delegare il rilascio di protezione a quella ambasciate. Unica soluzione, viene detto in conclusione, è che sia l’Europa a imporre l’apertura di questi corridoi umanitari attraverso una direttiva che riguardi tutti i paesi membri e non soltanto alcuni o pochissimi di loro. Ci vuole una presa di posizione concreta che imponga l’apertura simultanea di tali canali.

Prende poi la parola Tareq, originario di Damasco ma che vive a Milano da due anni e si sente un po’ “cittadino del mondo” – ha vissuto e lavorato in diversi paesi – che ci spiega come sia venuta fuori l’idea del film: “io, Gabriele, Khaled, ci siamo conosciuti a Milano ma siamo tutti un po’ internazionali. Un giorno, all’uscita dalla metro si sono trovati davanti un folto gruppo di siriani, soprattutto famiglie con bambini, che avevano una vita in centrale, e allora io e gli altri semplicemente ci siamo messi a parlare con loro, a mangiare, dormire, cantare, ballare con loro. Non facevamo nient’altro se non stare con loro. Li abbiamo conosciuti per come sono veramente e non secondo l’immagine che i media ci danno superficialmente e semplicisticamente, la televisione e i giornali si limitano a presentarci una loro fotografia che niente dice veramente dei loro cuori, dei loro sogni, delle loro storie, del loro carattere, delle loro vite.. Ebbene, l’idea del film è nata da qui e il lavoro è venuto da solo”.

Sì, perché per Tareq è strano chiamarlo film, dato che era nato proprio come qualcosa di un po’ improvvisato e di assai più “ristretto”. Il viaggio si è allungato, le persone aumentate, le macchine triplicate, tutto in maniera assolutamente spontanea e naturale non pianificata a tavolino. Per Tareq e gli altri ideatori del progetto l’importante era catturare qualcosa di quelle persone, delle loro storie, della loro vita e non prendere di essi una fugace fotografia e poi dimenticarli. Perché con loro si parla, si mangia, si balla, si ride, si piange. “Per me non sono altri” conclude Tareq, “per me sono Marta, Gabriele, Manar, Khaled… sono dei fratelli, degli amici, non mi verrebbe mai di considerarli degli anonimi altri”.

E così un tragitto che nelle intenzioni sembrava essere breve, diventa una lunga e appassionante odissea attraverso le frontiere e le strade europee, dall’Italia alla Svezia. Ecco allora che il giornalista Gabriele del Grande, il poeta palestinese siriano Khaled e il traduttore Tareq, telecamera alla mano, insieme ad altri amici italiani, escogiteranno un originale piano per riuscire a portare cinque siriani e palestinesi sbarcati a Lampedusa e arrivati a Milano, città dove vivono fino in Svezia, passando per Ventimiglia, Marsiglia, la Germania, Copenhagen in macchina inscenando un corteo nunziale (“perché chi fermerebbe mai un corteo di nozze?!”) per riuscire a sfuggire ai controlli alle frontiere. Durante l’appassionato viaggio ognuna di queste persone prenderà spessore e vita raccontando la propria storia, storie piene di dolore e sofferenza ma che non hanno fatto perdere loro la voglia di vivere, di ridere, di cantare o ballare.

Proprio in questo sta la forza del documentario, nella capacità, probabilmente involontaria, proprio perché si tratta di fatti e persone reali, senza sceneggiatura o canovacci, di alternare momenti di esilarante humor, di delicata tenerezza, di scanzonata leggerezza e spontanea vivacità a toni di intensa commozione, che inducono a una riflessione profonda e che ci strappano, per un momento, dalla cieca noncuranza con cui diamo per scontato il nostro vivere ordinario privo di traumi, di sofferenze, di pericoli che invece quelle persone hanno vissuto. Ogni tanto dovremmo essere grati per la fortuna che abbiamo a non esser nati in posti dove cadono bombe, a non dover affrontare viaggi incontro a una probabile morte, a non dover scappare per poi non sapere quale sarà il nostro destino. Tutto questo non è banale ma non ci pensiamo mai. È un privilegio dettato solo da una mera casualità, non da un merito.

Tutti i protagonisti del film, pur sopravvissuti a storie di estremo dolore e paura riescono a sfoderare una forza e un coraggio che dovrebbe sorprenderci, una forza straordinaria sputata fuori dalla rabbia dalle parole che nel film il giovanissimo MC Manar canta a suon di rap, così come emerge dal racconto della (finta) sposa siriana, che pur avendo un passaporto tedesco dice di aver preferito restare in Siria perché la presenza di una donna è importante, perché quella guerra è anche la guerra delle donne, perché chi combatteva anche per lei, che sotto le bombe, per non impazzire si metteva la musica a tutto volume nelle orecchie e cominciava a ballare: “C’è tanta morte, ma c’è anche tanta vita”, dice dal suo seggiolino della macchina, con lo sguardo perso nel paesaggio che le vola accanto.

Questa forza che non le bombe non hanno ucciso, che il mare non ha sommerso, che l’ingiustizia attuale delle leggi sull’immigrazione non ha trafitto è scalfita con il sasso con cui il (finto) sposo scrive: “se devi vivere vivi libero. Altrimenti muori come gli alberi immobili”. Nessuno di loro ha smesso di inseguire la libertà e il desiderio fitto e lancinante di una nuova vita senza però mai dimenticare, mai cancellare quella da cui provengono, libertà e vita che palpita sui loro volti, nelle loro risate, nei loro occhi..forse proprio perché come dice Gabriele “ami molto la vita quando c’è tanta morte”.

Da giorni prima di vederlo il mare era un odore 
Un sudore salato, ognuno immaginava di che forma .
 

Sarà una mezza luna coricata, sarà come il tappeto di preghiera,
 
sarà come i capelli di mia madre.
 

Beviamo sulla spiaggia il tè dei berberi,
 
cuciniamo le uova rubate a uccelli bianchi.
 

Pescatori ci offrono pesci luminosi,
 
succhiamo la polpa da scheletri di spine trasparenti.
 
L’anziano accanto al fuoco tratta con i mercanti
 
Il prezzo per salire sul mare di nessuno.
 
(…)
 

Notte di pazienza, il mare viaggia verso di noi,
 
all’alba l’orizzonte affonda nella tasca delle onde.
 

Nel mucchio nostro con le donne in mezzo
 
Un bambino muore in braccio alla madre.
 

Sia la migliore sorte, una fine da grembo,
 
lo calano alle onde, un canto a bassa voce.
 

Il mare avvolge in un rotolo di schiuma
 
La foglia caduta dall’albero degli uomini.
 

(Erri De Luca)

Ultima modifica il Venerdì, 06 Marzo 2015 09:24
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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