Iovino ricorda come fino al 2011 non esisteva il reato di caporalato. Oggi invece ci sono numerose inchieste che denunciano tali situazioni di sfruttamento. Nel 2012 più di 425 persone sono state arrestate per riduzione in schiavitù e si parla di un paese, l’Italia, che tutti sappiamo esportatore di prodotti agricoli di eccellenza, come l’“oro rosso”dei pomodori o delle angurie leccesi, rosso che però è tinto del sangue e del sudore di quei 136.000 lavoratori stranieri del settore agro alimentare. Nell’inchiesta di Lecce emerge il caso di sei caporali-imprenditori che si sono macchiati di reati quali la tratta (degli stranieri), lo sfruttamento, la riduzione in schiavitù e persino lo sfruttamento della prostituzione nei confronti delle donne. Oggi la legge 603/bis punisce l’intermediazione illecita, mentre la direttiva 52 introduce un obiettivo premiale: coloro che si espongono a denunciare il proprio caporale ottengono il permesso di soggiorno. Iovino sottolinea anche come il problema del caporalato oltre ad essere ignobile da un punto di vista umano, lo è anche da un punto di vista economico, in quanto sottrae più di 420.000 euro l’anno a causa dell’evasione produttiva (i lavoratori sono tutti a nero ovviamente). Un’altra cosa impressionante è la macabra scientificità dell’organizzazione del sistema: tutto quello che può servire ai lavoratori (acqua, abbigliamento, cibo, passaggi, ecc..) deve passare dai caporali, è da questi che deve essere acquistato, così che i primi vedono la propria paga, già estremamente infima, ridursi del 50%. La cosa aberrante è che istituzioni e imprenditoria sono a conoscenza di tutto ma si voltano da un’altra parte e fingono di non vedere, affermando, una volta interpellati (come nel caso di un sindaco di Foggia), che quegli stranieri lavorano su terreni privati e che non portano voti. Ecco così che carne, ossa, voce, sguardi, sudori, sofferenze, gioie, rabbia, paure sono ridotti a numeri e liquidati a segni sulle schede elettorali. Questa è omertà. Questa è un’implicita confessione di legame con il potentato degli imprenditori-caporali. Questa è complicità, meno diretta ma ugualmente colpevole. Per Iovino i punti da rivendicare sono soprattutto due: 1) rilanciare l’idea di mercato del lavoro PUBBLICO, che bandisca il lavoro in nero, lo sfruttamento o la riduzione in schiavitù. 2) sperimentare i cosiddetti“alberghi diffusi”: il patrimonio pubblico deve essere investito anche per dare dimora ai lavoratori, affinché siano sottratti ai fenomeni di caporalato che li costringe a stare in ghetti fatiscenti. E allo stesso modo, tutti quei beni confiscati alle organizzazioni mafiose dovrebbero esser riconvertiti e utilizzati come strutture di alloggio dignitoso. In un tale momento di crisi, precarietà, incertezza, non solo economiche, c’è bisogno di sollevare questi temi, che rischiano di passare sotto silenzio, di venire insabbiati o nascosti sotto un tappeto, mentre, per dirla con le parole di Iovino “questa è la carne viva del nostro paese, sono questi i problemi veri”.
Dopo Iovino interviene Andrea Cagioni, Ricercatore e operatore sociale che riprende il discorso dello sfruttamento lavorativo. Cagioni denuncia anche la posizione dei sindacati, i quali, ad eccezione della CGL si sono dimostrati molto in ritardo nell’affrontare questo fenomeno. Esso si riconduce a tre categorie: lo sfruttamento diffuso (tipo il lavoro nero); la precarietà contrattuale e lavorativa del lavoratore migrante; la riconduzione a organizzazioni ed economie criminali (agro-mafie, associazioni mafiose nel settore edilizio, piccoli reti criminali …); infine la tratta con scopo di sfruttamento lavorativo. Cagioni passa poi a raccontare la vicenda di Adrian, cittadino rumeno di 45 anni arrivato tra il 2005 e il 2006 costretto dopo diversi lavori servili a lavorare con una media di 12 ore al giorno e con una paga di un euro. Un altro caso raccontato dal ricercatore è quello di un gruppo di otto ragazzi indiani che dopo aver ottenuto un contratto di lavoro da un’associazione di intermediazione indiana, una volta giunti in Italia vengono prelevati dalle organizzazioni criminali e gettati in una fabbrica dell’Aquila, dove lavorano 13 ore al giorno percependo una paga di 200 euro mensili, anziché gli 800 pattuiti dal contratto, oltre a dover subire il dramma di vivere in condizioni disumane. Purtroppo anche l’impatto della crisi globale aggrava situazioni del genere, trascinando questi soggetti verso condizioni di maggior invisibilità e ricattabilità sociali. Per fortuna, soprattutto negli ultimi mesi, ci sono state numerose vertenze e lotte importanti, abbiamo assistito a mobilitazioni di decine di migliaia di lavoratori migranti che si sono auto organizzati e con l’appoggio di alcuni sindacati sono riusciti ad ottenere preziosi obiettivi.
A prendere la parola è poi Gianfranco Schiavone, direttore dell’ASL, che punta il dito contro la direttiva sull’immigrazione (andata peggiorando sempre di più ma che già nell’impianto originario mostrava tratti di chiusura e arretratezza estremi), accusata di impedire ingressi regolari, di ostacolare la stabilità del soggiorno, di favorire la precarietà e di produrre un numero ipertrofico di espulsioni. La direttiva 52 sullo sfruttamento lavorativo, secondo Schiavone, è scritta molto male e non garantisce l’eversione da tale sfruttamento. Infatti la decisione di denuncia de caporale da parte del lavoratore che desidera uscire dalle condizioni di schiavitù in cui imperversa produce un esito totalmente aleatorio, dato che non sono sufficienti, se non addirittura non previsti, programmi assistenziali adeguati che possano tutelarlo. Il discorso di Schivone si flette poi sul problema del diritto di Asilo, in particolare sull’emergenza del Nord Africa. Anche qui si tratta di una situazione contraddittoria: Molte persone giunte dal Nord Africa è vero che hanno avuto asilo politico e quindi in questo caso, in prima facie, l’Italia appare come una balia materna, generosa e accogliente. Ma in realtà è più simile a una matrigna malvagia, che dietro un apparente sorriso cela le insidie velenose di una vera e propria trappola. Questi profughi, durante il lungo periodo di procedura della richiesta d’asilo vengono abbandonati a sé stessi, lasciati soli senza un’adeguata assistenza, parcheggiati in strutture simili a terre di nessuno, in totale isolamento, non servite da mezzi pubblici. In Italia non esiste un programma, un piano per creare strutture di accoglienza e di inserimento “a lungo termine” o percorsi di integrazione e inclusione sociale, producendo perciò soggetti che “godono” del riconoscimento giuridico di asilo ma destinati alla strada. Così questi rifugiati si ritrovano in mano un titolo di soggiorno che porta, “pirandellianamente” un indirizzo indicante il campo di provenienza, il quale è ben lontano dall’essere l’indirizzo di casa. Vagano come homeless, figli di una terra che non si dimostra madre, avrebbero diritto a ogni luogo ma di fatto non ne hanno nessuno. La proposta della ASL è allora quella di favorire un programma di riforme normative che si prendano a carico i destini di questi uomini, donne e bambini che scappano dai loro paesi speranzosi di trovare braccia pronte ad accoglierli e a permettergli di ricostruirsi una nuova vita. Una vita che sia vita e non un mero vagare senza luogo né meta.
Avviandoci alla conclusione della lunga giornata di conferenza prende posto Hongyu Lin, Assessore per i rapporti con la comunità cinese di Campi Bisenzio dal 2008. Parlando della sua esperienza Lin racconta come la decisione di assumersi questo incarico sia derivata dalla volontà di dare un segnale politico forte in tema di immigrazione e parità di diritti. A Campi Bisenzio, continua l’Assessore, vivono circa 8000 migranti, in un comune che conta 45.000 abitanti. La sua nomina si è vestita di un forte valore simbolico ed è stata un monito per offrire alla comunità di cinesi (che sono quasi la metà dei cittadini stranieri che lavorano sul territorio) la possibilità e la voglia di abbattere la barriera, la “grande muraglia”di astensione dalla partecipazione politica. Durante il suo incarico sono state create associazioni di imprese per lo sviluppo del loro lavoro, o reti di partecipazione alla vita sociale, associazioni per la tutela delle donne cinesi, ponendo l’accento non solo sull’ambito lavorativo ma anche sociale e soprattutto culturale, come emerge anche dalla collaborazione che il comune ha fatto con le scuole affinché venga insegnata all’interno dell’orario didattico, fin dai primi anni, la lingua cinese. Lin tiene anche a ricordare che durante le primarie, molti dei cittadini cinesi hanno sentito il bisogno e il dovere di andare a votare, manifestando una ferrea volontà di impegno e partecipazione politica attiva. L’Assessore conclude dicendo che la società e la cultura devono fare un profondo lavoro su sé stesse per abbattere l’ignoranza, i pregiudizi e il razzismo, a partire dall’istruzione e dal ruolo della scuola, che hanno a che fare con quel momento così delicato in cui è fondamentale che la crescita dei nostri futuri adulti e cittadini del mondo venga influenzata da ideali di accoglienza, rispetto e riconoscimento dell’altrui umanità e dignità.
Il penultimo intervento viene fatto da Diana Kapo, la giovane segretaria Provinciale dei Giovani Democratici di Firenze, di origine albanese che vive in Italia da vent’anni (e che ha dovuto subire, come tanti altri, la trafila mortificante delle procedure burocratiche), la quale esordisce dicendo che la domanda da fare a chi lascia un paese straniero per venire nel nostro non deve essere solo quella che indaga la sua identità o la sua provenienza, ma deve rivolgersi anche alla sua storia, al suo passato, che non è stato cancellato da una traversata per mare. Solo in questo modo possiamo raccogliere ricami di storie da intessere e intrecciare nella trama dei nostri fili, annodarli ad essi e arricchirci di vissuti. E sognare un futuro in cui sia sempre il Primo Marzo, in cui esso sia inciso nei cuori, nei giorni e nelle relazioni di e tra ognuno di noi. Niente è insormontabile, afferma fiduciosa Diana, se ci dimostriamo pronti a impegnarci attivamente, contro quelle leggi inique e assurde, scritte da gente ignorante che nulla conosce in merito all’immigrazione.
L’intervento conclusivo è di Sonia Spacchini, Assessore Immigrazione di Firenze, che ricorda quel primo marzo del 2010, quando l’enorme sciopero di lavoratori stranieri portò all’attenzione dei media tutti i temi legati all’immigrazione, alla cittadinanza, al rifugio politico ecc.. Di contro, invece, in campagna elettorale abbiamo visto calarsi di nuovo il sipario su queste tematiche. Secondo Spacchini sono soprattutto i media e la stampa locale e nazionale che devono raccontarle, parlarne in maniera che non sia stereotipata, facendo emergere la complessità e la varietà delle situazioni, contribuendo così a dare voce a chi non osa gridare, a dare occhi a chi li tiene bassi, a dare orecchie a chi si dimentica di ascoltare. Queste persone non sono invisibili, esistono e sono parte di quel “noi” in cui tanto crediamo, parte della comunità. Le loro vite e le loro vicende devono essere illuminate, non relegate in un angolo remoto della nostra società e del nostro cervello. Il governo deve riuscire a prendersi a cuore tutto questo, perché sono le esistenze umane di tutti i cittadini del Mondo a rendere una società veramente civile, progredita e soprattutto ricca. In tutti i sensi.