Domenica, 03 Marzo 2013 00:00

Da migranti a liberi cittadini #1

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“Da migranti a Liberi cittadini del Mondo”, questo è il titolo che ha preso il convegno svoltosi il 1 marzo al Palazzo Medici Riccardi di Firenze, in occasione della ricorrenza di quel primo marzo 2010 che vide il primo grande sciopero organizzato dai cittadini stranieri che ha segnato un passo importante per la lotta contro la discriminazione e l’iniquità, contro l’ingiustizia e il razzismo e in nome di una società multietnica e multiculturale e del riconoscimento di una totale dignità umana e giuridica a tutti i cittadini stranieri, che vengono o nascono nel nostro paese e che tengono stretto il sogno di una paese che li accolga e che li tratti col rispetto che chiunque ha diritto di ricevere, perché possano sentirsi veramente cittadini liberi e integrati.

La sala era piena e colorata, e molteplici sono stati gli interventi. Dopo il saluto inaugurale di Andrea Barducci, presidente della Provincia di Firenze, a introdurre e coordinare era Sergio Bontempelli, dell’associazione “Africa Insieme” di Pisa, associazione libera nata nel 1987, che si batte per i diritti dei migranti e per il riconoscimento di una piena e universale cittadinanza. Bontempelli ricorda come la prima legge sull’immigrazione fu stipulata nel 1990 (il decreto Martelli), ed essa già si dimostrava di una grettezza e di una chiusura feroci. Sicuramente i provvedimenti sui diritti dei migranti non sono andati a migliorare, fino ad arrivare alla legge Bossi-Fini, “fucina di clandestinità, ricatti e oppressione” – come si legge nei “depliant” del convegno -  che si è incancrenita nella società fomentando razzismo ed episodi di sfruttamento, umiliazione, violenza fisica e psicologica e discriminazione. Inoltre Bontempelli sottolinea la ricchezza non solo umana e  culturale che gli stranieri apportano al paese ma anche e soprattutto (dal punto di vista del “sistema”) economica. Secondo i dati della Caritas, continua il responsabile di Africa Insieme, i permessi di soggiorno sono calati del 20%  dal 2010 al 2011 e un 1/5 degli immigrati non ha visto rinnovarsi il suo permesso. Questi dati sono strettamente legati con la crisi economica ed è anche per questo, conclude Bontempelli, che vi è la cocente necessità di costruire degli “anticorpi” per fermare situazioni che mettono al bando gli stranieri, mutilando non solo i loro diritti, la loro possibilità di vivere in condizioni umane e dignitose e di poter ottenere  una totale libertà di circolazione nel nostro paese – come recita l’articolo 16 della nostra Costituzione –  ma mutilando anche il nostro PIL, che, sempre secondo altri dati, senza la manodopera straniera avrebbe un calo di almeno il 10%.

Dopo le parole del responsabile di Africa Insieme e a dare inizio alla manifestazione sono state le toccanti immagini del video realizzato dalla Rete Primo Marzo, dal titolo: “la legge non è uguale per tutti”. E sembra proprio che non lo sia ascoltando le toccanti testimonianze dei protagonisti del video. Non si può rimanere indifferenti di fronte alla dolce forza di Kindi, ragazza proveniente dalla Repubblica democratica del Congo, trasferitasi a Modena dal 1989,che ha dovuto lottare contro la norma indetta nel 1999 (e attiva dal 2001) che impedisce agli studenti stranieri di partecipare alle scuole di specializzazione, a meno che non siano loro a pagarsele, semplicemente perché non godono di uno ius sanguiniis, perché hanno un diverso colore della pelle. È soprattutto grazie alla determinazione e al coraggio di questa ragazza dagli occhi abissalmente scuri ma luminosi e all’aiuto dei media e del centro oncologico modenese che le si sono stretti attorno (aiutandola a pagare la borda di studio), che nel 2004 la legge cambia: qualsiasi studente di origine non italiana che desideri specializzarsi o studiare in Italia può accedere alla parità e agli stessi diritti degli altri studenti italiani e contribuire così con il proprio talento e la propria intelligenza a rendere il paese più ricco e più maturo. Un’altra commovente vicenda riguarda Andrea e Senad, due fratelli nati e cresciuti in Italia, ma non da essa riconosciuti come cittadini italiani, perché di origine bosniaca. Ma di fatto i due fratelli non sono neanche bosniaci dato che  non sono mai stati censiti dall’Ambasciata bosniaca. È il caso di due soggetti“apolidi” che adesso sono costretti a sostare nel limbo del CIE (centri di identificazione ed espulsione), nell’estenuante  e purtroppo vana attesa di un provvedimento che li riconosca italiani, come a buon diritto si sentono, che non verrà mai eseguito.

Finito il documentario, ha preso la parola Cécile Kyenge Kashedu, consigliere provinciale del PD nella commissione Welfare e politiche sociali, oltre ad esser parte della Rete Primo Marzo. La sua attenzione si sposta sui CIE, descritti come vere e proprie carceri, lager disumani in cui mancano le minime condizioni igieniche e sanitarie, oltre che etiche e civili. È assurdo, continua Cécile, trattenere questi cittadini stranieri per 18 mesi in strutture come quelle dei CIE, i quali oltretutto hanno costi notevoli che vengono pagati dai contribuenti e che possono suddividersi in: costi di costruzione e ristrutturazione (si spendono circa 78.000 euro di posti letto); costi di gestione (pasti, abbigliamento..che all’incirca ammontano a 35 euro al giorno, il che  significa 30.000.000 di euro all’anno); e infine i costi di rimpatrio (biglietti aerei, guardie accompagnatrici..e anche qui parliamo di decine di milioni di euro). Insomma facendo una stima totale i costi dei CIE superano i 200.000.000 euro l’anno. Un paese che voglia dirsi moderno e avanzato si autolimita se si impedisce di arricchirsi di visioni, culture, voci che provengono da persone che hanno alle spalle mondi e storie diverse. Tale diversità dovrebbe trasformarsi in un valore, per tutti noi e per la crescita del nostro “bel paese” e non guardate con gli occhi della paura, del disprezzo, dell’odio e dell’ottuso senso di superiorità. Un paese  recide il proprio sviluppo culturale se non è capace di riconoscersi terra di nomadismo, se non è in grado di diventare crocevia di vite e di sogni,  patria universale di scambi e incastri di culture che possono implementarsi a vicenda, babele di mondi diversi ma ugualmente preziosi, così come lo fu la Biblioteca di Alessandria. Si penalizza se rimane ovattato nel proprio egocentrico nazionalismo e nella propria sprezzante cecità. I punti principali di cui Cécile si fa portavoce sono quattro: l’emergenza del Nord Africa affinché tutti i profughi abbiano concluso l’iter per la richiesta d’asilo e monitorando l’attivazione di un serio percorso per l’inserimento sociale; la chiusura di tutti i CIE; il diritto di cittadinanza per tutti i figli di migranti nati e cresciuti in Italia con la conseguente revisione della legge del ’92 e la trasformazione dello ius sanguiniis in ius soli; infine, ma non ultimo, una nuova legge sull’immigrazione e quindi l’abrogazione della legge Bossi-Fini e i decreti sicurezza, cancellando il contratto di soggiorno e riconoscendo effettivi diritti e dignità ai migranti. 

Dopo l’intervento di Cécile parla Marco Zanchetta, dell’organizzazione MEDU (medici per i diritti umani) onlus, il quale riprende il discorso sui CIE e parla della sua esperienza durante il monitoraggio di 13 di questi centri. La loro politica e la loro organizzazione è fondata sulla paura e il loro obiettivo è l’espulsione. Secondo i dati del Ministero degli Interni abbiamo visto un aumento del rimpatrio del 2% nel 2011 e nel 2012 , 4000 dei 7944 cittadini stranieri reclusi in questi centri sono stati espulsi. Zanchetta riprende poi il problema dei costi e delle ingenti cifre dei centri e  per il loro “ripensamento” in termini di sicurezza, sempre più rigida e settaria (si pensi solo alla divisione tra uomini e donne) , oltre ai costi per la presenza massiccia delle forze dell’ordine, esercito, carabinieri, guardie di finanza. Anche Zanchetta si sofferma poi sulla fatiscenza di tali strutture: si tratta di una sorta di “non luoghi”, di “no man’s land” nelle quali i letti sono materassi adagiati su blocchi di cemento, c’è un solo bagno per stanza senza porte e quindi senza alcun diritto alla privacy e spesso un solo rotolo di carta igienica, le docce non funzionano o solo ad acqua fredda, le finestre e le porte sono blindate perché aleggia un clima di sospetto. Ai reclusi viene inoltre vietata la detenzione di qualsiasi effetto personale (fazzoletti, lenzuoli, cinture, stringhe, cellulari..) e viene loro negato qualsiasi spazio di attività ricreativa.  Dentro questi centri vi sono persone provenienti dal carcere, che quindi si trovano lì a dover scontare una seconda pena, forse anche peggiore della prima; persone senza fissa dimora, transessuali, che vedono anche interrotte le loro cure ormonali (così che i centri finiscono per diventare una sorta di “pattumiera sociale”che raccoglie gli emarginati sociali)  persone straniere che hanno famiglia e figli a casa e che devono subire una vigliacca violenza psicologica, in un’atmosfera tesa in cui i rapporti, sia tra gli enti gestori e i detenuti, sia tra questi e il personale sanitario sono tinti di sospetto e pregiudizio. Inoltre tutte le decisioni, sia sui servizi, sia sulla possibilità di accesso alla richiesta di asilo, sia sulla compatibilità o meno del trattenimento sono a discrezione degli enti gestori, marionette crudeli che reggono i fili di migliaia di vite in sospeso e in attesa del “Giudizio finale”. 

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’Uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Così recita l’articolo 2 che risuona nella voce calda di Pape Diaw, presidente dell’Associazione dei Senegalesi di Firenze e Circondario, il quale insiste sulla necessità che questi diritti vengano applicati e non solo scritti formalmente in una carta. Tutte le convenzioni mondiali sul diritto umano sono enunciate sulla carta – come quella di Nizza o di Lisbona – ma non vengono di fatto applicate. Bisogna cambiare, non basta parlarne. La politica per prima deve esser costretta a cambiare e rendersi conto anche della ricchezza che viene portata dai migranti, i quali impinguano le casse dello stato di più di 7 miliardi (solo in Toscana infatti l’80% dei lavoratori è di origine straniera). Dobbiamo sconfiggere il razzismo; dobbiamo cancellare la legge Bossi-Fini, madre di tutti i mali, che ha incrementato il razzismo radicandolo sempre di più nella mentalità delle persone. Dobbiamo riuscire a coinvolgere tutti, in modo che il diritto umano entri a far parte del vissuto quotidiano di ciascuno di noi. Il Primo Marzo dobbiamo fermarci, simbolicamente ma anche concretamente. Fermarci e capire che la nostra barca non si arena perché soffre del “peso” degli stranieri, ma si blocca se non li fa salire su di essa: la nostra barca è anche la loro e  soltanto grazie alla loro forza può andare avanti in questo grande mare, che appartiene a tutti noi. E noi, siamo anche loro.

Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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