Sabato, 15 Giugno 2013 17:28

Ripensare il lavoro in Italia

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Premessa
La Prospettiva è stata una rivista online – affiancata da alcune pubblicazioni in cartaceo – che fra il 2011 e il 2012 ha rappresentato uno spazio aperto di discussione e di confronto costruttivo fra le diverse anime della sinistra, animato e voluto da compagne e compagni della Toscana provenienti dalle più diverse esperienze politiche a sinistra (dai partiti ai movimenti studenteschi, dal mondo dell'associazionismo al sindacato).

Seppure terminata formalmente nei mesi che hanno preceduto le ultime elezioni politiche – per lasciare comunque spazio a nuovi e anche più strutturati percorsi di ricerca di unità a sinistra – quell'esperienza ha lasciato, per noi che l'abbiamo animata, un fondamentale patrimonio di contributi e interventi che possono probabilmente dare ancora oggi un importante contributo al dibattito in corso sulla crisi e le proposte politiche da avanzarne per uscirne senza un ulteriore arretramento dei diritti e delle condizioni di vita di milioni di lavoratori.

E' con questo spirito che pubblichiamo – in due parti – questo documento, redatto nell'estate 2012 ma tutt'ora inedito, che vuole rappresentare una sintesi “in avanti” rispetto ad una serie di interventi sulle politiche economiche e del lavoro che La Prospettiva ha ospitato negli anni scorsi (molti dei quali si possono ancora leggere qui [link]), con contributi e interviste, fra gli altri, a Emiliano Brancaccio, Gianni Rinaldini, Alessio Gramolati ...

Un documento che, nel nostro piccolo, auspichiamo possa portare un contributo anche rispetto alle vicende della sinistra politiche che, in autunno, dovrà saper fronteggiare da una parte le condizioni sociali del Paese sempre più allarmanti e, dall'altra, fondamentali appuntamenti interni (quali saranno i congressi di Rifondazione Comunista, Sinistra Ecologia e Libertà e Partito Democratico).

LA DISGREGAZIONE DEL MONDO DEL LAVORO

Ripartire dalla centralità del lavoro vuol dire sottolineare, oltre alle evidenti e generali inadeguatezze della sinistra politica, anche le sfide, non sempre adeguatamente raccolte, che si stagliano di fronte al sindacato.
Nelle dinamiche della crisi, infatti, il sindacato non è stato capace di offrire risposte efficaci rispetto a quella scomposizione del mondo del lavoro che è arrivata a compimento dopo un processo lungo quasi 30 anni. Se oggi non esiste più un “modello” (il tradizionale operaio della catena di montaggio) su cui costruire rivendicazioni valide per tutto il movimento dei lavoratori e le classi sociali più deboli, la rappresentanza del lavoro non può che fare i conti con la coesistenza di “tipi” fordisti e post-fordisti con nuove figure “atipiche”.

E’ necessario avviare una riflessione per capire se è ancora il posto di lavoro l'unico luogo in cui costruire la rivendicazione dei diritti e, parallelamente a questo, approfondire il tema del reddito, e i diversi modi in cui questo viene declinato.
E' importante ricordare che l’ultimo sciopero generale della CGIL davvero riuscito con una partecipazione di massa superiore ad ogni più rosea previsione, è stato quello del 6 maggio 2011, l’unico capace di essere davvero “generale e generalizzato”.
L’urgenza di operare verso questa ricomposizione, inoltre, nasce anche dalla consapevolezza che “la nottata non passerà”, e la situazione, anzi, è destinata a peggiorare.

Considerando solo gli interventi del governo Monti, si vede come il processo di frammentazione sia stato rafforzato dalle contrapposizioni fra generazioni (basti pensare al tema della riforma delle pensioni), fra pubblico e privato, e al definitivo svuotamento sostanziale dell’articolo 18. Per di più, al di fuori dei luoghi di lavoro tradizionalmente sindacalizzati, la disgregazione è ancora più accentuata, come testimoniato ad esempio nel settore del commercio, dove il combinato disposto dell’abuso di forme deregolamentate di contratti precari e delle liberalizzazioni selvagge è uno sfruttamento dei lavoratori che rompe qualsiasi margine di solidarietà e va a gravare in particolare sulle dipendenti donne.

In questo senso due in particolare sono i campi da cui crediamo che si possa ripartire per ricercare questa auspicata ricomposizione: la democrazia (che si lega all’accesso ai diritti e agli spazi sindacali per i lavoratori precari così come alla battaglia per una legge sulla rappresentanza sindacale) e la capacità di superare i confini nazionali per costruire rivendicazioni europee, così come fu capace di fare la CGIL di Di Vittorio contro le gabbie salariali che negli anni ’50 dividevano l’Italia.

IL LAVORO PRIMA DI TUTTO: PER UNA CRESCITA SOSTENIBILE

Se riconosciamo all’origine della crisi del 2007-2008 le contraddizioni del sistema produttivo capitalista, per la sinistra diventa decisivo saper avanzare un progetto organico per la ripresa economica e la creazione di nuovi posti di lavoro.
Occorre, quindi, pensare a una politica capace di recuperare il primato sulla finanza e sul mercato, con interventi volti a delineare un diverso modello di sviluppo, capace di far tornare a crescere l’Italia e l’Europa e a farlo in modo sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Politica industriale: il ruolo dello Stato
Per invertire il segno negativo della recessione, non esiste oggi strada alternativa a quella di un deciso intervento pubblico che, sia attraverso politiche industriali che attraverso la spesa pubblica, sia veicolo di crescita.
Per un Paese come l’Italia, che è ancora oggi la seconda potenza industriale del continente, diventa prioritario l’impegno ad evitare una desertificazione industriale già avviata a partire dagli anni ’90, con le delocalizzazioni e attraverso la privatizzazione di settori strategici (pensiamo al gas, dove assistiamo oggi ad un peggioramento delle condizioni dei lavoratori e all’impossibilità per lo Stato di poter elaborare una propria strategia di crescita).
Costruire politiche industriali efficaci vuol dire però anche fare i conti con un indispensabile sforzo di profonda innovazione, che metta al centro del sistema produttivo i saperi, la conoscenza, le intelligenze. Nel solco del XXI secolo, la sinistra dovrà misurarsi progressivamente con la sfida di ripensare il lavoro, non solo e non più nel modello dell’alienante catena di montaggio, ma come ad un processo costante di apprendimento, capace di produrre ricchezza incidentalmente allo sviluppo delle intelligenze e delle conoscenze.
Un investimento reale nella scuola, nell’Università e nella ricerca potrebbe, quindi, essere l’unico strumento di crescita per il futuro del nostro Paese. Un investimento che non potrà che tradursi anche in un ingente stanziamento di risorse, recuperabili sia da parte dell’evasione fiscale che da un ruolo, decisivo in tutte le politiche espansive per la crescita, che potrebbe interpretare la Cassa Depositi e Prestiti.
In un Paese in cui già il costo del lavoro è inferiore alla media europea non si può pensare – come Marchionne – di comprimere ulteriormente salari e diritti; l’unica concorrenza possibile alle nuove potenze industriali è sul campo dell’innovazione e della qualità.

Definire da sinistra una nuova politica industriale vuol dire anche riappropriarsi di un’idea di pianificazione centrale (statale) che non può esaurirsi – anche come prospettiva politica – nella celebrazione di esperienze locali particolarmente avanzate, certo importanti ma non sufficienti.
Occorre affrontare il nodo della ridefinizione di aziende nazionali strategiche, capaci sia di essere di ostacolo all’offensiva di quella classe imprenditoriale che vorrebbe comprimere ancora i diritti del lavoro, sia di costruire nuove forme di pianificazione democratica.
E’ evidente, infatti, che una pianificazione economica statale, capace di rompere l'egemonia del mercato e di dare una prospettiva di crescita, dovrà vedere un ruolo attivo dei lavoratori (appunto la pianificazione democratica), sia per ripensare all’impresa come ad un agire collettivo che valorizzi il patrimonio di intelligenze e esperienze delle maestranze sia per evitare che la gestione pubblica di aziende strategiche porti a forme di lottizzazione fra poteri politici ed economici, come abbiamo visto anche recentemente nelle vicende di Finmeccanica.

Le Piccole e Medie Imprese
Una prerogativa del sistema produttivo italiano, inoltre, è l’altissimo numero di Piccole e Medie Imprese. Negli ultimi decenni l'idea del “piccolo è bello” ha portato ad un’estrema frammentazione del capitale che, complice l’assenza di una classe imprenditoriale nazionale interessata a far crescere il Paese e non solo i propri profitti, in molti casi si è dimostrato incapace di competere con i nuovi paesi emergenti.
Solo in Toscana, per fare un esempio, sono presenti oltre 19800 piccole aziende che impiegano complessivamente circa 94000 lavoratori: una media inferiore a 5 dipendenti per azienda.
In questo scenario non si può ovviamente non valorizzare quanto ancora il patrimonio di competenze del “made in Italy” può offrire nel settore manifatturiero (in particolare verso i nuovi mercati emergenti, che apprezzano l’unicità dei prodotti dell’artigianato nostrano), intervenendo sia sui ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione che su un sistema bancario che in una fase di grave recessione non offre adeguatamente credito alle imprese (e qui inserisce anche il tema, da approfondire, di proposta di un polo pubblico del credito).
Il tema della ricomposizione di questa estrema frammentazione, tuttavia, non può e non deve essere eluso.
In particolare, a differenza di quanto fatto fino ad oggi dai governi che si sono succeduti, la sinistra dovrebbe porre al centro del proprio programma la rivalorizzazione dei contratti nazionali di lavoro e lo stop dei finanziamenti a pioggia per le PMI, privilegiando investimenti mirati su programmi di sviluppo imperniati sulla messa in rete di medie, piccole e piccolissime aziende che operano nel medesimo settore, al fine di coordinare adeguati progetti di ricerca e di sviluppo.
Un simile intervento, per altro, permetterebbe anche di porre ragionevolmente il tema della reintroduzione dell'articolo 18 nella sua forma originale e della sua estensione a tutti i lavoratori, anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti.

Sostenibilità ambientale
La drammatica vicenda dell'ILVA è emblematica di un dato epocale che ci troviamo di fronte e che troppo spesso è stato volutamente dimenticato: non vi può essere lavoro senza sostenibilità ambientale, e non vi può essere tutela dell'ambiente senza lavoro. Se la prospettiva industriale del Paese non saprà coniugare lavoro e ambiente, vorrà dire che ad essere sconfitta sarà stata innanzitutto la sinistra, e la sua capacità di avere un profilo propositivo valido e di governo.
Un grande padre della sinistra toscana, Cesare Luporini, scrisse che “la ferita dell’uomo inferta all’ambiente può essere risolta solo dalla tecnologia e dalla scienza”; assumendo questo insegnamento occorre ripensare a cosa produrre e a come farlo.
Il conflitto capitale-natura evidenzia oggi le contraddizioni di un capitalismo che sta impattando con i limiti stessi del nostro pianeta (prospettando consumi che sarebbero sostenibili solo con le risorse di due Terre); in questo senso la via d'uscita, contro l’anarchia del capitale, è rintracciabile solo in un’altra crescita, dove una pianificazione che guardi a un lavoro e a una produzione di qualità superi una concezione tutta incentrata sulla ricerca di un sempre maggiore profitto.
Fermo restando la necessità di innovare e modernizzare settori strategici non delegabili a paesi stranieri (a partire, per stare all'attualità, dal siderurgico), una nuova politica industriale dovrebbe partire da tre elementi cardine: la grande occasione di una riconversione energetica del Paese (da una prevalenza di fonti fossili a una prevalenza di fonti rinnovabili, anche e soprattutto a partire dall'edilizia e dalla riqualificazione dell'esistente); una riconversione sostenibile della mobilità (e in questo caso la vicenda Irisbus ma anche la gestione complessiva del sistema ferroviario italiano sono paradigmatiche del fallimento delle politiche adottate fino ad oggi); un investimento massiccio, come già detto, nella ricerca e nell’innovazione, unici strumenti capaci di modificare la natura stessa della produzione: non basta dire che non si taglierà più – dopo anni di tagli lineari che hanno distrutto il sistema dell'istruzione pubblica – occorre impegnarsi a stanziare nuovi fondi.

Immagine tratta da: www.puntostampa.info

Mattia Nesti

Classe 1992, vivo a Pistoia dove faccio politica ormai da alcuni anni (prima nel movimento studentesco e poi in Rifondazione).
Passione per il giornalismo coltivata fin dai primi anni di liceo che mi ha portato a collaborare con NewNotizie.it e altri portali di informazione nazionale e locale.

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