Il capitale ha cercato di risolvere questa crisi di sovrapproduzione fondamentalmente con due strumenti: la finanziarizzazione e l'abbattimento del costo del lavoro. Pensiamo, ad esempio, all'abbattimento dei salari diretti che avviene attraverso l'introduzione di precariato (in Germania i “mini job”), all'abbattimento del salario differito (le pensioni), che è un obiettivo prioritario del capitale europeo o, ancora, al salario cosiddetto “indiretto” che viene erogato attraverso i servizi, come quelli sanitari.
Questa crisi è poi diventata crisi dell'Euro nel momento in cui il debito privato (che era servito a dare una spinta all'economia capitalistica in crisi), con il crollo della borsa e del mercato immobiliare diventa debito pubblico attraverso il salvataggio delle banche, come è accaduto in Spagna e Irlanda.
Inoltre, la costruzione dell'Euro impedisce di utilizzare politiche anticicliche, tra le quali la svalutazione della moneta nei paesi più deboli e gli investimenti pubblici volti a supplire alle difficoltà di investimento del privato. Infatti, le necessarie politiche espansive sono bloccate dal Fiscal compact (Trattato di stabilità), che impone vincoli di bilancio (il deficit al 3% e il dimezzamento del debito pubblico al 60%) ai singoli Paesi.
2) Per rimanere sul tema dell'Euro, e pensando anche alle elezioni europee previste per il prossimo anno, dal tuo punto di vista quali sono i punti nodali su cui dovrebbe basarsi un programma continentale della sinistra? E, soprattutto, ci sono le condizioni per ribaltare gli attuali rapporti di forza o, ancora, come valuti le posizioni politiche di chi propone l'uscita dall'Euro come tema da porre da sinistra?
Credo innanzitutto che il problema sia politico e non tecnico. Non possiamo oggi limitarci a dire che siamo contro le politiche restrittive o contro il taglio del “welfare state”, senza mettere in discussione tutta l'impalcatura su cui si regge l'Euro; il problema non è tanto e soltanto il modo in cui funziona la BCE (che non acquista direttamente sul mercato primario i titoli di stato), la quale, peraltro, nell'ultimo anno ha cercato di intervenire con qualche risultato sul livello dei tassi di interesse. Il problema è più generale, e cioè che l'Euro è stato pensato come strumento per sconfiggere i movimenti operai dei singoli paesi, grazie appunto ai vincoli imposti dai trattati sovranazionali.
Quindi, dobbiamo individuare nella struttura della costruzione dell'Euro il mezzo essenziale attraverso cui il capitale sta ristrutturando i rapporti di forza fra classe operaia e borghesia. Si tratta di un processo che cominciò con Reagan e la Thatcher e che sta arrivando al suo completamento attraverso l'indebolimento e la subalternità totale dei parlamenti alla Commissione Europea, alla BCE e a quegli organismi che sono controllati in modo più diretto dal capitale internazionale o transazionale a base europea.
Quindi prima di ragionare tecnicamente su quali siano gli strumenti migliori per andare avanti, per ripensare l'Europa, dobbiamo renderci contro che il nodo politico da sciogliere è l’abbattimento dell’attuale architettura dell’Europa.
In tutto questo i rapporti di forza sono chiaramente peggiorati, e per uscire da questa situazione dobbiamo individuare quali sono gli assi d'attacco principali della borghesia nei nostri confronti e su questi punti trovare modalità efficaci per contrattaccare.
Non ho fiducia in una soluzione a breve, perché lo scenario si è molto deteriorato, però credo che dovremo essere capaci di impostare correttamente la nostra azione, così da riuscire a recuperare terreno sul medio-lungo periodo.
Sicuramente nell'immediato dobbiamo dare risposte che si concentrino su un nuovo intervento dello Stato nell'economia, ma queste risposte saranno velleitarie se non vi sarà una messa in discussione del sistema dell'Euro e del complesso delle politiche regressive imposte dal capitalismo.
3) Il tuo ultimo libro sul “Club Bilderberg” sfida in qualche modo la retorica complottista e sui complottismi, al fine di dimostrare, con un'analisi seria e documentata, il ruolo svolto da vari organismi internazionali (pensiamo alla “Trilateral Commission”, frequentata da entrambi gli ultimi due premier, Mario Monti ed Enrico Letta) nell'evoluzione delle vicende economiche e politiche dell'occidente dagli anni '70 ad oggi. A quali conclusioni sei arrivato?
Nel libro ho provato a sviluppare un ragionamento sulla classe dominante a livello mondiale e sulle sue forme organizzative, individuando il livello apicale in quella classe capitalistica transnazionale che, per dirla con Marx, è “funzionario” del capitale transazionale, e che si è affermata a partire dagli anni '70.
Il capitale, infatti, non è più “multinazionale” – cioè capitale a base nazionale che è presente con investimenti diretti a livello multinazionale – ma il capitale stesso, le aziende, sono composte di capitali che provengono da varie aree geografiche. Questo elemento si può verificare osservando la composizione della proprietà di moltissime multinazionali ed è legato alle trasformazioni economiche avvenute dagli anni '50/'60 in poi, che hanno determinato l'aumento di investimenti all'estero, il permanere di profitti all'estero e, infine, il crearsi di mercati finanziari a livello mondiale che avevano il loro centro non solo a Wall Street ma anche a Londra.
Tutte queste trasformazioni hanno definito un assetto “transazionale” del modo di produzione del capitale.
La forma di organizzazione tipica di questa classe dei capitalisti transnazionali è quella del Club Bilderberg, della Trilateral Commission o dell'Aspen Institute, cioè di organizzazioni che si basano sul collegamento tra grandi manager e proprietari di multinazionali o di banche a livello mondiale che si riuniscono in modo più o meno continuo per definire delle linee guida da applicare poi a livello di singoli paesi oppure a livello di organismi sovranazionali / continentali.
Non si tratta di cupole di tipo mafioso che controllano la realtà ma di organizzazioni che elaborano delle linee guida che poi provvedono a implementare, a rendere egemoni nel significato gramsciano della parola.
La cosa più interessante da questo punto di vista è il fatto che questi tre organismi diventino importanti momenti di incontro fra i vertici economici e i vertici politici: all'interno dei meeting annuali del Bilderberg troviamo importanti esponenti del capitale multinazionale (Microsoft, Fiat, Eni, British Petroleum, Shell), delle banche mondiali (Goldman Sachs, Hsbc, Barclays, Mediobanca, Unicredit, Intesa-San Paolo) e uomini politici di primissimo livello (gli stessi Letta e Monti, Romano Prodi, Manuel Barroso, Christine Lagarde), primi ministri, monarchi e, soprattutto, ministri delle finanze e dell'economia e governatori o membri del consiglio di amministrazione delle banche centrali (l’ex presidente della Bce, Trichet, e lo stesso Mario Draghi, che frequentava in modo continuo queste assise, prima di presiedere la BCE).
È un dato oggettivo, peraltro, che la frequentazione del Bilderberg o della Trilateral Commission aiuti a “fare carriera”.
Il fatto da sottolineare è che, attraverso questi organismi, i livelli apicali della politica e dei governi entrano in diretta connessione con le classi dirigenti dell'economia: il capitale oggi applica e implementa le proprie linee guida in modo molto più diretto di prima, e questo permette loro di fare a meno di quei livelli di mediazione che invece esistevano fino a 10 o 20 anni fa.
Basta ricordare, d'altronde, che nel 1975 la Trilateral Commission pubblicò un documento di Crozier e Huntington che indicava come problematici gli “eccessi di democrazia” dei sistemi rappresentativi nei Paesi occidentali ed evidenziava la necessità di ridurne i margini di azione, proponendo fra gli strumenti per farlo in modo efficace – dal punto di vista del capitale transnazionale – anche il processo di unificazione europea. Il termine “governabilità”, divenuto il principio ispiratore dell’attività politica degli ultimi anni, è nato allora.
4) Un'ultima domanda, in virtù del quadro che abbiamo descritto fino ad ora, non può che essere su quali prospettive vedi all'orizzonte per il nostro paese e per il “mondo occidentale” e su quale ruolo dovrebbero avere in questo contesto i comunisti. Insomma “che fare”?
Credo che questa crisi sia per molti aspetti più grave di quella del '29, perché, se guardiamo al periodo tra 2007 e 2013, vediamo che l'economia dei paesi a capitalismo avanzato ha avuto un andamento peggiore rispetto allo stesso intervallo di tempo successivo allo scoppio della Grande crisi nel 1929.
Quello che si può dire è che la situazione attuale si evolverà probabilmente in un caos internazionale ancora più profondo, anche perché sembra abbastanza difficile che il capitale possa di nuovo ricorrere a una guerra generale per risolvere le sue contraddizioni, come aveva fatto nei cicli storici precedenti.
In questo contesto credo che noi, come comunisti, dovremmo avere la capacità di tornare a dire e a pensare che il socialismo sia l'unica soluzione possibile a queste contraddizioni e, al tempo stesso, individuare programmi tattici e intermedi che ci permettano di dare una risposta nell'immediato e di stare, qui e ora, all'interno della battaglia politica contro il capitale.
Per questo è importante riprendere oggi il ragionamento sull'intervento dello Stato in economia, motivandolo e definendolo più precisamente, e legandolo alla centralità della questione europea e all'urgenza di contrattaccare sulla architettura dell'Euro.
C'è poi un problema più vasto che riguarda la nostra capacità di ridefinire che cos'è, oggi, il socialismo; è abbastanza negativo il fatto che negli ultimi vent'anni, dopo la fine del PCI e la dissoluzione dell’URSS, non si sia riusciti a fare un ragionamento sensato sull'esperienza dei paesi socialisti, sia indagando i drammatici errori sia valorizzando gli aspetti positivi e gli obiettivi che sono stati raggiunti. Se non faremo i conti con quel pezzo della nostra storia (e anche con la storia del comunismo italiano) non riusciremo davvero a riattualizzare l'idea di “socialismo”, rendendola una prospettiva valida, efficace, forte... Adeguata alla situazione attuale e capace così di ridefinire anche il rapporto fra Stato, economia e classi sociali, fra Stato, partito e classe lavoratrice salariata e, in ultima analisi, in grado di offrire una nuova proposta di “democrazia operaia” che è, per noi, la forma più avanzata di democrazia.