Vincere con la politica contro la “tecnica”, quindi, è per la sinistra la sfida decisiva per vincere quel sentimento di antipolitica che nasce dalla “privatizzazione della politica”, dal fatto che l’economia possa apparire come non regolamentabile.
D'altronde quando un trattato europeo approvato sotto silenzio – il Fiscal Compact – assume una valenza superiore a quella delle stesse costituzioni nazionali, siamo di fronte ad una trasformazione profonda che chiude gli spazi politici per l’agire minimo di una forza della sinistra che si ponga l’orizzonte della trasformazione della società e dell’economia.
Rompere il recinto dell'austerità
L’austerità, così come è declinata oggi dai tecnici e dalle destre europee, è incompatibile con la democrazia.
Perché l'austerità, nei fatti, impedisce qualsiasi ripresa economica, unica via che potrà salvare la costruzione europea da derive autoritarie - che già oggi muovono passi importanti, nel silenzio generale, nei paesi dell'Est, a partire dall'Ungheria - in cui i peggiori populismi sarebbero facilmente in grado di incanalare le paure e la rabbia di popoli oppressi da criminali politiche antisociali.
I dogmi dei “tecnici”, infatti, comportano una compressione ulteriore dei salari come presunto strumento di crescita (ipotesi smentita nei fatti dai fallimenti degli ultimi anni), mentre per portare le economie europee fuori dalla secca diventano indispensabili politiche economiche che facciano leva su innovazione, estensione dei diritti e aumento dei salari.
Se, infatti, l’austerità comporta oggi l’arricchimento – ancora in crescita – di una fetta ristretta di popolazione (l’1% di “#Occupy”), l’aumento del potere contrattuale e del potere d'acquisto dei lavoratori potrebbe essere l’unico volano per la crescita dell'Italia e dell'Europa.
In questo senso, per tutto il continente, sarà decisivo anche l’evolversi dell’esperienza presidenziale di Hollande in Francia, capace di suscitare grandi speranze di rottura con i dogmi di Merkel e Sarkozy e che, alla prova dei fatti, dovrà dimostrare di riuscire davvero a mettere in campo politiche per la crescita all’altezza delle sfide.
La “battaglia delle idee” sul debito pubblico
Negli ultimi mesi anche in Italia si è voluto far apparire la malattia come cura, in nome di un crociata ideologica che, di fronte all’esplodere delle contraddizioni di un modello economico, ha voluto costituzionalizzare i dogmi di quello stesso modella (in Italia attraverso la modifica dell’articolo 81 della Costituzione e l’introduzione del pareggio di bilancio).
Quel reaganiano “State is the problem” diviene così, in un perfetto paradosso, legge prima dello Stato, proprio quando – come abbiamo scritto – si comincia a rintracciare nella stagione della “restaurazione” di Reagan e della Tatcher l'origine della crisi odierna.
Per questa ragione, pur facendo i conti con le sensibilità dell’opinione pubblica, la sinistra non può rinunciare a una “battaglia delle idee” che affermi che il debito pubblico non è il male assoluto.
Lo stesso debito pubblico di grandi proporzioni dell'Italia, per altro, non ha rappresentato un problema irrisolvibile (anche per lo spread) fino all'approvazione del Six Pack (nel marzo 2011) che ha poi aperto le porte all'agosto economicamente torrido delle manovre Tremonti e al precipitare della condizione economica italiana.
Ricordiamo anche che secondo numerosi economisti l'ingente debito italiano sarebbe sostenibile con un buon avanzo primario e un tasso di crescita annuo dell'1/2%; al contrario la situazione del debito è destinata a peggiore se perdurerà la recessione alimentata dall'austerity.
Urge affermare che è la spesa pubblica – che non è una parolaccia – a permettere politiche per la crescita e a garantire il miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini, attraverso quei servizi pubblici che, a partire dal referendum dello scorso anno per la ripubblicizzazione dell'acqua, sono stati inseriti nella categori di 'beni comuni'.
In questo senso compito delle forze della sinistra sarà anche quello di farsi portatrici di un'importante operazione di verità: l'esplosione del debito pubblico italiano non è imputabile alla spesa sociale.
Di più: di fronte alla crisi odierna è essenziale che la spesa sociale aumenti ed è possibile che ciò avvenga senza creare nuovo debito se si elaboreranno politiche realmente efficaci (al di là degli 'spot' mediatici) contro l'evasione e la corruzione (coltivata per decenni come mezzo di accumulazione del consenso) e si metterà in campo una riforma fiscale che riparta dal principio costituzionale della progressività (in primo luogo aumentando gli scaglioni IRPEF ed elevando il tasso di prelievo sui redditi più elevati).
"Degermanizzare" l'Unione Europea per salvare l'Europa
Di fronte alle difficoltà di questa costruzione europea, non può essere la soluzione auspicata una regressione alla dimensione nazionale o, peggio, il 'ripudio del debito' e, quindi, il default. Per la natura del debito italiano, per altro, sarebbero i risparmiatori del nostro Paese i primi a pagare il prezzo di un simile scenario: il 30% del debito italiano è detenuto, infatti, da risparmiatori e banche del nostro Paese che, fallendo, porterebbero nel baratro i risparmi di una vita di milioni di lavoratori.
All'indomani di un'ipotetica bancarotta e conseguente uscita dall'Euro, inoltre, sarebbe impossibile per il nostro Paese rifinanziare il debito, non disponendo nemmeno, ad esempio, di ingenti quantità di materie prime che già ha permesso all'Argentina di superare - a inizio millennio – la fase più difficile del dopo default grazie alle proprie esportazioni.
Tutta altra importanza ha, tuttavia, una necessaria discussione su come affrontare una lotta per il rovesciamento del dominio tecnocratico in Europa partendo da rapporti di forza sicuramente a vantaggio degli avversari.
Occorre, quindi, che sia sul piano politico che sindacale si compiano decisivi passi in avanti sul piano del coordinamento europeo per quanto concerne l'analisi della crisi, la definizione di un'idea di 'altra Europa' e la programmazione di rivendicazioni e mobilitazioni.
Sia nei singoli stati nazionali che su scala continentale, costruire la massima unità è condizione necessaria a dar forza ad una massa critica utile a incalzare i soggetti più avanzati della socialdemocrazia europea o ad assumere un profilo di credibile alternativa, rendendo così efficace l'azione politica della sinistra, anche per disinnescare quel pericoloso senso di frustrazione che, in parte, ha contributo ad esempio a far crescere esponenzialmente i violenti scontri di piazza il 15 ottobre 2011 a Roma, cosi come in tante manifestazioni greche in Piazza Syntagma.
Dovremo essere poi in grado di mettere in campo strumenti utili a rompere i ricatti della Merkel e della BCE; in questo senso la proposta di una maggiore collaborazione (di un “fronte”) fra i paesi europei vittime dell'austerity per chiedere che una BCE 'degermanizzata' intervenga per anticipare e combattere la speculazione deve entrare nell'agenda politica della sinistra.
Di fronte all'ostinata e suicida contrapposizione della Germania, inoltre, non si può più eludere la proposizione di contrappesi che rompano gli attuali equilibri: se l'imposizione delle attuali politiche suicide dovesse persistere, i paesi periferici dell'Euro dovrebbero dirsi pronti a contrattare, in caso di necessità, la richiesta di aiuti economici con soggetti esterni alla troika (UE-BCE-FMI).
Per alcuni importanti economisti (pensiamo in particolare a Emiliano Brancaccio) questo livello di scontro dovrebbe essere portato anche alla “minaccia” di riattiva alcuni vincoli alla libera circolazione dei capitali e delle merci all'interno dell'area Euro.
Atti politici che, evidentemente, sarebbero assunti con il fine di alzare il livello di un conflitto indispensabile a rompere quella costruzione antidemocratica e antisociale che rischia di porre una pietra tombale sull'Europa stessa.
Un'altra Europa
Crediamo, quindi, che di Europa ci sia estremo bisogno.
In primo luogo sul piano internazionale: alla crisi economica e all'emergere di nuove potenze, infatti, si accompagna una crisi di egemonia degli Stati Uniti (non più in grado di vantare il predominio sul mondo immaginato dopo l'89), che rischia di portare all'esplosione di nuovi e sempre più drammatici conflitti (come ha dimostrato la vicenda libica e come si vede ancora in questi mesi nello scenario mediorientale).
In questo contesto un'Europa autonoma dagli USA e, in particolare, dalla NATO (che oggi controlla indirettamente la stessa politica estera di importanti paesi dell'Unione) complessivamente democratica e progressista potrebbe svolgere un ruolo decisivo nell'affermare i principi del diritto internazionale, dell'autodeterminazione dei popoli e della pace.
La stessa crisi economica, inoltre, ha dimostrato come a livello globale – dopo la sospensione nel 1971 della convertibilità del dollaro in oro sancita trent'anni prima dagli accordi di Bretton Woods - sia del tutto ingiustificato, oltreché dannoso, il ruolo dominante tutt'ora assunto dal dollaro.
Per questa ragione un'Europa forte, capace di interloquire autonomamente con le nuove potenze emergenti (a partire dai cosiddetti BRICS), potrebbe essere la leva decisiva per costruire un nuovo assetto monetario, dove il dollaro e gli USA non abbiano più una posizione di assoluto predominio.
E' indispensabile, quindi, aprire un percorso di trasformazione e ricostituzione che dia vita ad un'Europa dei popoli, del lavoro e dei diritti.
Un percorso progressivo ed estremamente difficile ma che, oggi, appare come l'unico possibile.
Nell'immediato, per far fronte agli squilibri esistenti nell'area Euro, sarebbe senz'altro importante che la Germania si impegnasse ad aumentare i propri salari (fra i più alti d'Europa, ma fermi ormai da anni), stimolando così la domanda interna ed evitando di continuare a basare la crescita del Paese in larga parte sulle esportazioni verso i paesi del sud Europa.
Tuttavia a prescindere da questo obiettivo, che appare oggi lontano ma che dovrebbe essere posto a livello continentale ai partiti della sinistra tedesca (Linke e SPD), accenniamo alcuni punti che sono stati condivisi da molti degli interventi raccolti e che possono rappresentare a nostro giudizio l'intelaiatura di un progetto di 'altra Europa' possibile.
In primo luogo la crescita. Se, come detto, l'austerità teorizzata (e praticata) dalla troika e la crescita sono incompatibili, non si può prescindere dalla cancellazione o da una radicale revisione del trattato “Fiscal Compact”.
Sara' fondamentale, poi, lanciare un piano europeo per il lavoro, imperniato su due punti cardine: la progressiva istituzione in tutta l'area Euro di standard salariali comuni (per superare le odierne “gabbie salariali”) e un massiccio intervento degli stati - coordinato a livello continentale da organismi democratici - per finanziare progetti di innovazione, ricerca e industrializzazione.
Sempre sul fronte dei diritti sociali, una riflessione su come introdurre forme europee di sostegno (transitorio) al reddito, in particolare per i giovani precari o in cerca di un primo lavoro, dovrebbe assumere rilevanza ben maggiore a quella odierna.
Un ultimo punto, infine, non può che investire il tema dei beni comuni. La ripubblicizzazione dell'acqua, ad esempio, deve divenire – anche a partire dalla recente ICE – una battaglia europea, per cui il nostro Paese può, per una volta, essere assunto ad esempio positivo.
Coerentemente a questo, infine, la costruzione europea che abbiamo in mente non può che passare da un'idea di tutela e di gestione democratica delle risorse (a partire dall'energia, dal territorio e dal paesaggio) che superi il predominio oggi assunto dalle lobby economiche (spesso parti integranti degli organismi ademocratici europei) e dalle grandi multinazionali: la riqualificazione e riconversione energetica del patrimonio produttivo e edilizio di tutto il continente può rappresentare un'occasione unica per creare buona occupazione.
Immagine liberamente tratta da: www.ecf.com