Martedì, 16 Luglio 2013 00:20

Lavoro e impresa: innovazione e diritti

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In Italia sono quasi 4 milioni le persone che possono essere classificate come lavoratori autonomi senza dipendenti. In media, su 1000 euro che vedono entrare, a loro ne restano 545 mentre il resto se ne va in tasse (ad un lavoratore dipendente, su 1000 euro, ne restano in media 811). Sono stati proprio questi lavoratori i protagonisti dell'iniziativa organizzata oggi in Camera del Lavoro a Firenze, “Lavoro e impresa: innovazione e diritti”. Uno dei grandi problemi di questo Paese risiede proprio nella sua difficoltà di prendere atto dei cambiamenti che hanno stravolto il mercato del lavoro.

La richiesta diflessibilità ha creato in Italia un mostro senza eguali in Europa: negli altri paesi la flessibilizzazione del mercato è servita a creare mobilità per quei lavori a basso contenuto di specializzazione mentre da noi è stata applicata anche a quei campi ad altissimo grado si specializzazione. In poche parole, la flessibilità è stata vista come un modo per risparmiare sul capitale umano. Questo processo di flessibilizzazione è andato a mettere in ginocchio sia i lavoratori dipendenti, che si son visti sottoporre una marea di tipologie contrattuali, una più lontana dell'altra da quella che assicura un impiego a tempo indeterminato, e allo stesso tempo ha creato una grande confusione anche nel mondo del lavoro autonomo. E' infatti innegabile che l'immagine che il senso comune aveva del lavoratore autonomo fino a venti anni fa non corrisponde più nemmeno minimamente a quello che è diventato oggi: non parliamo più di liberi professionisti che fatturano centinaia di milioni l'anno (le vecchie lire, ahinoi) e che non pagando le tasse possono permettersi macchine da far paura ma bensì di persone che hanno studiato una vita e non trovando un lavoro che permettesse loro di impiegare l'enorme bagaglio di conoscenze che si portano dietro hanno deciso di inventarsene uno. Al mondo delle false partite IVA, ovvero coloro che sono costretti a fingersi lavoratori autonomi per poter avere un impiego, schifoso solitamente, da dipendenti, si affiancano coloro che proprio non si vogliono rassegnare all'idea di passare la vita a fare qualcosa che non gli piace e non trovando nessuna azienda disposta a pagarli per mettere in atto ciò che sanno fare (e lo sanno fare molto bene) decidono di farlo da soli.

Come diceva Franco Bortolotti nel suo ultimo articolo, più che di lavoro indipendente nella maggior parte dei casi si può parlare di lavoro dipendente economicamente ma non giuridicamente: “lavoro in stretta connessione con un'impresa o datore di lavoro che etero-determina quel che faccio, anche se non sono in alcun modo dipendente”. Il punto centrale difatti è proprio questo: i lavoratori indipendenti di oggi non sono assimilabili a quelli di un tempo soprattutto per la sicurezza economica che possono ricavare dal loro lavoro. Come ha specificato Barbara Imbergamo, che ha scelto di intraprendere proprio questo percorso nella sua vita, uno studio condotto sui lavoratori autonomi della provincia di Roma ha rilevato che il 24% di questi guadagna all'anno meno di 20.000 euro di imponibile (da cui togliere le tasse e i vari contributi quindi) e che se consideriamo coloro che guadagnano fino a 40.000 euro arriviamo a contare il 50% della categoria. Alle difficoltà che incontrano nell'andare avanti con entrate così basse (facile intuire come la capacità di risparmio per fronteggiare i momenti più bui siano scarse) vanno affiancate quelle derivanti dal non avere nessuna misura di welfare a sostegno della loro condizione. E' questo il centro delle rivendicazioni che portano avanti le organizzazioni e le associazioni di lavoratori autonomi: perché il fatto di non avere “padroni” devi farli scivolare in fondo alle graduatorie degli asili nido, deve pregiudicare la possibilità di avere una qualsiasi forma di sostegno in caso di inattività e deve impedire loro di avere ferie e malattie come tutti gli altri lavoratori? Perché queste forme di welfare che lo Stato italiano ancora, con tutte le critiche del caso che possono essere fatte, non possono essere estese sulla base di criteri che prendono in considerazione il reddito dei lavoratori?

Queste rivendicazioni, per quanto giuste, hanno però bisogno di essere portate avanti da un collettivo organizzato. Dobbiamo infatti uscire dall'ottica, come ha precisato Michaela D'Astuto, Consulta delle Professioni Toscana, che la tutela non è una cosa che riguarda il singolo lavoratore ma è un qualcosa che riguarda tutto il territorio. I lavoratori autonomi sono infatti spesso portatori di un enorme bagaglio di conoscenze, come dicevamo, accresciuto in anni ed anni di specializzazione che può essere impiegato per promuovere grandi innovazioni. Queste competenze riescono a produrre il massimo nel momento in cui sono illustrate come collettivo: i lavoratori autonomi, da parte loro, devono entrare nell'ottica di superare le rivalità al loro interno e cominciare a vedere se stessi come una categoria che si organizza per portare avanti delle rivendicazioni. Solo in questo modo, creando un senso di comunità e solidarietà, c'è la possibilità di scalfire quell'immaginario comune che vede il lavoratore autonomo come quello forte, che non ha bisogno di niente e, allo stesso tempo, da qualche possibilità in più alla battaglia per l'allargamento del welafare.

La necessità di organizzarsi dei lavoratori autonomi e la spinta a farlo mette in risalto da una parte i due aspetti del lavoro da fare. Da una parte c'è quello della rivendicazione dei diritti e dall'altra la battaglia culturale da fare in un Paese come il nostro affinché si smetta di pensare che questi non siano che perditempo o persone che vivono con la testa per aria e non hanno idea di cosa sia il lavoro oggi. Una seria riflessione sul mondo del lavoro autonomo infatti si porta dietro quella sulla formazione e la specializzazione. L'Italia è il paese in Europa che meno riesce a sfruttare le competenze dei proprio laureati: non solo da noi sono pochi i ragazzi che si laureano ma, sempre in confronto con le medie del continente, questi non riescono a trovare un lavoro adatto alla loro formazione (dato significativo quello che vede il 55% dei manager italiani non laureati). Questo è da una parte un problema che sussiste storicamente dal momento che il tessuto produttivo italiano è formato in gran parte imprese di piccole e medie dimensioni che, anche a logica, hanno più difficoltà delle altre ad investire in ricerca, sviluppo e formazione. Dall'altro, è aggravato da una serie di fattori molto diversi tra loro: dallo smantellamento dell'istruzione pubblica e tagli ai fondi per lo studio al progressivo distacco tra scuola e mondo del lavoro al progressivo invecchiamento della classe imprenditoriale, sempre meno capace di cogliere le opportunità derivanti da investimenti in formazione.

La creazione di reti tra i lavoratori autonomi e la loro entrata nel sindacato, a fianco dei lavoratori "tradizioanali" potrebbe essere in grado di rendere visibili anche agli occhi più pigri e diffidenti le grandi potenzialità che risiedono in questa categoria magari riuscendo anche a stimolare gli interessi delle grandi imprese che sono rimaste sul territorio e che avrebbero i mezzi di fare investimenti seri in ricerca di innovazione.

Immagine tratta liberamente da: www.donnamoderna.com

Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

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