Tsakalotos è anch’egli un accademico, meno spumeggiante di Varoufakis, ed è anche –a differenza di V.- un dirigente politico, da anni, di Syriza, ed in questo volume analizza gli eventi che hanno preceduto e accompagnato la disfatta del modello neoliberista in Grecia e l’ascesa della credibilità di una forza politica radicalmente antagonista ad esso, appunto Syriza. Alcune analogia fra alcune componenti della storia politica ed economica della Grecia e dell’Italia rendono ulteriormente interessante questo lavoro, che, ripetiamo, dà conto delle basi con cui Syriza si è affacciata al governo; ovviamente non ci illumina su tutte le dinamiche successive alla formazione del governo Tsipras, ma ci aiuta a comprenderne alcune dinamiche, il che è interessante (si sta parlando, dunque, di come un governo di sinistra potrebbe affrontare la crisi).
Il primo capitolo è volto a decostruire l’ideologia della modernizzazione e la sua proiezione sulla politica economica: i guai della Grecia, in questa ottica, sarebbero il portato di un “ritardo nella modernizzazione” (si noterà che le argomentazioni possono essere quasi ricalcate per l’Italia), i governi greci (del Pasok e del centro destra) avrebbero fatto troppo poco e troppo tardi per modernizzare il paese: troppe poche entrate fiscali, troppi dipendenti pubblici, troppo poche privatizzazioni, pensioni troppo alte, e tutta la serie di illazioni cui siamo ben abituati anche in Italia. Tsakalotos e Laskos riconoscono che la Grecia arriva alla svolta democratica del 1974 con una struttura economica arretrata, con fenomeni diffusi di clientelismo, etc,.ma affermano che la storia successiva è quella di un rapido e progressivo adeguamento ai diktat del modello neoliberista: l’entità e le dimensioni delle privatizzazioni, il taglio delle tasse sulle imprese, le fusioni nel sistema bancario, etc. sono campi in cui la Grecia si è adeguata, più velocemente della media dei paesi europei, alla tendenza neoliberista, nonostante le chiacchiere sull’arretratezza regolativa di stampo “sovietico”: certo, mantenendo strutture politiche clientelari e un welfare state zoppo (che fino agli anni Novanta aveva invece subito una espansione, soprattutto in campo sanitario), ma nell’ambito di una scelta decisa (soprattutto a partire da metà degli anni Novanta) in favore del modello neoliberale.
Il secondo capitolo si apre con una descrizione del boom greco 1995-2008, quando gli investimenti reali sono raddoppiati (contemporaneamente in Germania crescevano del 18%), con un significativo irrobustimento della struttura industriale. Semmai, questa fase di crescita ha riverberato i suoi successi su una parte dei ceti medi, lasciando indietro significative parti della società, le cui tutele sono lentamente scemate. Certo, affermano gli autori, gli anni pre-crisi non hanno risolto alcuni problemi strutturali dell’economia, ma soprattutto non hanno risposto ai deficit della democrazia e delle politiche sociali, non perché mancassero politiche neoliberali, ma proprio perché queste si sono allora affermate senza troppa resistenza: l’ipotesi di un “eccezionalismo” greco, fatto di arretratezza, è respinta. Si nota in generale la stretta complementarità fra sviluppo dei mercati e dei consumi del sud Europa e crescita delle capacità esportative germaniche, due elementi strettamente e imprescindibilmente connessi.
Il terzo capitolo ripercorre e reinterpreta gli anni della crisi, ma su questi, oggetto di molte altre pubblicazioni, possiamo sorvolare, se non per ricordare che Tsakalotos segnala l’intreccio profondo fra componenti finanziarie e reali dell’economia, che rende semplicistica qualsiasi sommaria colpevolizzazione della sola finanziarizzazione. La struttura istituzionale europea è stata un “brodo di coltura” per la strutturazione di gruppi dirigenti, nelle varie nazioni e a livello continentale, che hanno imposto la propria agenda politica. Gli autori però si soffermano sulla straordinaria inefficacia delle politiche europee di contrasto alla crisi (anche in comparazione con quelle americane) e formulano due ipotesi: quella della “incompetenza strutturale”, che deriva sia dalla rigidità della struttura istituzionale europea che dalla povertà di spirito dei suoi leaders, e quella dell’ “istinto di classe”; privilegiare la seconda visione (la crisi come occasione di ribadire e spostare i rapporti di forza fra classi sciali) significa anche avere una chiave per comprendere gli elementi di continuità fra il prima e il dopo della crisi. Ciò non significa che i leader europei non siano rimasti anche “prigionieri della propria retorica”, come dimostrano i precoci entusiasmi per “l’uscita dal tunnel” o il tardivo riconoscimento degli effetti de-moltiplicativi dell’austerità: ma fondamentalmente l’orientamento restrittivo dei circoli dirigenti dell’Europa è fatto risalire a meccanismi kaleckiani (che mirano in primo luogo a consolidare i rapporti di forza tramite il bastone della disoccupazione).
Lo specifico della crisi greca è affrontato nel quarto capitolo (“dalla crisi all’austerità permanente”). Viene qui ripercorsa la “cronaca infinita” dei negoziati della Grecia con le autorità monetarie internazionali (la “Trojka”), dei compromessi via via raggiunti e durati lo spazio di un mattino a fronte dell’aggravarsi della crisi, dell’affannoso rincorrersi fra i partiti di centro destra (“Nuova Democrazia”) e centro sinistra (PASOK) per addossarsi reciprocamente le responsabilità e porsi come interlocutori dei decisori europei, stendendo programmi che non avevano alcuna possibilità di realizzarsi. Un errore anche tattico dei negoziatori greci con la Trojka è fin dall’inizio stato quello di non addossare alcuna responsabilità ai partner economici e finanziari tedeschi, che così generosamente avevano finanziato lo sviluppo greco anche nei suoi aspetti più corrotti e discutibili. Vengono riportate le analisi (di Streeck) dei fattori retrostanti di questo scivolamento dell’economia greca (distribuzione della ricchezza di tipo latinamericano, esenzione dalle tassazioni dei redditi più alti, che prestano allo stato greco le ricchezze accumulate in nero all’estero) riportandole alla scelta politica, americana e nordeuropea, di evitare un “radicale rimodellamento” della società greca che, dopo la cacciata dei “colonnelli” nel 1974, avrebbe forse potuto seguire una linea “emiliano-eurocomunista”. Il raccontino di una razionalizzazione dinamica neoliberale “bloccata” dalle forze populiste nasconde la realtà di una politica neoliberale venuta a patti con le élites tradizionali, per non risolvere i problemi della crisi fiscale e della trasparenza delle “grandi opere”, e, più recentemente, che sta tentando attraverso la “svalutazione interna” di deprimere permanentemente il salario e la forza rivendicativa dei lavoratori.
Il quinto capitolo, “La vendetta dei perdenti”, è forse quello di maggiore interesse, in cui viene esaminata la costruzione di uno schieramento politico-sociale intorno a Syriza. La pesantezza della recessione imposta dalle politiche neoliberali ha suscitato, in vari ambiti, fiammate di protesta notevoli; quel che più interessa è però la relazione fra queste fiammate e la politica della sinistra. A partire dal 2008 e fino al 2011, e per quanto non direttamente connesse con la politica dell’austerità, tre conflitti locali sono scelti da Tsakalotos come emblematici di una rottura della prassi politica prevalente nella Grecia post-colonnelli e di una riarticolazione del campo della sinistra, ben al di là delle questioni poste in campo in ciascuna occasione: il movimento contro la repressione (partito dall’assassinio dello studente Grigoropoulos) e poi sviluppatosi come protesta contro l’arretrato sistema scolastico; le lotte di Keratea, sobborgo ateniese, contro la ristrutturazione di impianti di smaltimento di rifiuti; lo sciopero della fame dei migranti del centro detto Ipazia, presso Salonicco, contro il rimpatrio di migranti privi di documenti. Nei primi due casi non mancarono neanche scontri di grande violenza da parte di frange estremiste; in tutti e tre i casi però le mobilitazioni acquistarono una dimensione di massa, suscitando interesse e solidarietà attiva in componenti della società abitualmente “mute”. Verso questi movimenti si divise la società greca, e la stessa sinistra. Il partito comunista ortodosso, KKE, si tenne alla larga di movimenti che parevano egemonizzati da componenti estremiste (o, peggio, da una presunta intesa fra anarchici e Syriza), o comunque privi di agganci con una strategia di trasformazione socialista. Syriza stessa, che negli anni precedenti era stata tentata da un’evoluzione “nuovista”, con una più stretta integrazione nel sistema politico dato, non espresse da subito posizioni univoche. Prevalse però un caparbio tentativo di riportare le vicende specifiche alle implicazioni delle politiche austeritarie del governo, rifiutando di focalizzarsi sugli episodi di violenza, e cercando di contenerli. I movimenti riportarono alcuni successi inizialmente insperati, o almeno bloccarono temporaneamente le politiche cui si opponevano. La polarizzazione implicita in quegli episodi, canalizzata da Syriza nella dimensione della sfida della società al governo, implicò alla fine la marginalizzazione delle forze politiche, come il KKE, che se ne erano mantenute estranee (per la prima volta Syriza sovrastò organizzativamente il KKE). In seguito, a partire dal maggio 2010, si avviò una ondata di scioperi generali (una trentina entro la fine del 2012) proclamati dai sindacati contro le politiche restrittive sostenute dal governo e dalla Trojka. Il sindacato greco era fondamentalmente filo-Pasok, ma le circostanze obbligavano il suo gruppo dirigente a rispondere punto su punto alle sfide delle politiche restrittive, pur senza organizzare in modo coordinato la mobilitazione; il tono alle dimostrazioni cominciò ad essere dato da Syriza e da gruppi minori (il KKE costantemente organizzava proprie manifestazioni separate); sempre più il Pasok si qualificava come controparte, in quanto partito di governo. Una eco fu suscitata anche dalla concomitanza di iniziative e movimenti in altri paesi europei (sia pure senza un effettivo coordinamento – cfr. lo sciopero europeo del 14.11.2012).
Altre iniziative dal basso riguardarono singole campagne, poi coordinatesi nazionalmente, diciamo di “autoriduzione” delle tariffe autostradali o delle tasse sull’elettricità, o dei servizi sanitari, mobilitando di volontà in volta anche gli operatori del settore e ottenendo significativi ritorni indietro negli aumenti di volta in volta decisi sotto l’emblema dell’austerità. Di portata più generale fu il movimento di occupazione delle piazze degli aganktismenoi (2011), versione greca degli “indignados”: un movimento che sfidò le tentazioni repressive del governo e che attrasse settori di classi medie declassate. Questo movimento, disperso nella quotidianità di discussioni generali e relativamente inconcludenti, di volta in volta riuscì a saldarsi con i ripetuti scioperi generali. Il movimento di Piazza Syntagma riuscì anche a “scippare” al governo la tradizionale commemorazione del rigetto dell’ultimatum di Mussolini, abitualmente occasione per una esternazione di patriottismo conservatore, affermando la continuità fra guerra antifascista e movimento di resistenza all’austerità. Il movimento delle piazze, inizialmente anti-politico, vide una crescente partecipazione di Syriza e della sinistra extraparlamentare; secondo gli autori questa fu soprattutto per la sinistra (ma non per il KKE) l’occasione per “guardare di nuovo alla politica, ri-valutare i beni pubblici, cercare nuove forme di partecipazione politica, cercare di recuperare il terreno al livello dei valori di progresso”. Anche la crescente ostilità dei media dominanti verso Syriza, accusata di civettare con movimenti estremisti ed irragionevoli, ebbe l’involontario effetto di accreditarla come forza politica centrale dell’opposizione alla Trojka. Queste evoluzioni sono messe direttamente in relazione con la spettacolare scalata del voto di Syriza, che nelle due elezioni del 2012 passò dal 4,5% (2009) al 17% (maggio 2012) al 27% (giugno 2012); il volume è stato scritto prima delle vittorie di Syriza del 2015 (intorno al 36% in due elezioni), ma ne ricostruisce il retroterra. La tesi degli autori è che, in sostanza, la partecipazione ai movimenti (ma non la fusione in essi) del 2008-2011 rese improvvisamente credibile, come opposizione politica ma anche come possibile governo di sfida alle politiche dell’austerità, una formazione sino ad allora fortemente minoritaria, mentre l’ampiezza della crisi screditava obiettivamente le soluzioni proposte dai governi.
Il capitolo successivo, sulle prospettive della sinistra greca “fuori dalla palude” è ugualmente interessante, ma per certi versi meno convincente. A livello internazionale gli orientamenti dominanti dopo l’apice della crisi del 2009 possono essere riassunti dal motto “Plus ca change, plus c’est la meme chose”: nessuno degli itinerari di riforma del capitalismo finanziario, che sembravano così ben evidenti e descritti anche dallam letteratura economica, è stato realmente percorso, e in pochi mesi le politiche degli stati hanno inaspettatamente ricominciato a convergere sul modello neoliberale. L’abilità dei gruppi dominanti greci è consistita per un certo tempo nel nascondere sotto il manto dell’”eccezionalismo” greco, di mantenere privilegi e disuguaglianze insieme ad una svolta neoliberale e neoautoritaria, che per gli autori è stata una sorta di test per l’Europa intera. Ma con l’aggravarsi della crisi nel 2012, la posizione del PASOK si è rivelata debole verso il suo elettorato tradizionale, e la situazione greca è diventata un “crogiolo di resistenza” per l’intera sinistra europea. Molto spazio nel capitolo è dedicato alle strategie di exit dall’Euro, sostenute da parte della sinistra greca (Antarsya, ma anche una minoranza di Syriza), e da accademici in varie parti del mondo, criticate in quanto “via monetaria al socialismo”. In queste visioni (in particolare in quelle dell’economista greco di sinistra Lapavitsas) è illusorio pensare che i gruppi di potere attorno all’euro accettino strategie che finirebbero per sostenere i salari. Ma di questo, ribatte Tsakalotos, è ben cosciente tutta la sinistra greca, che appunto pensa che solo un cambiamento nei rapporti di forza possa imporre questa svolta. La strategie dell’exit accetta, secondo T., il ricatto di chi afferma che si devono accettare i dettami della Trojka, pena l’uscita dall’eurozona (e l’ingresso nel caos, aggiungono). L’alternativa è sfidare questa alternativa secca, mettere in discussione le due assunzioni ei sostenitori dell’austerity (che la Grecia non ha potere contrattuale e che non ci siano politiche alternative di stabilizzazione). Già il riconoscimento degli effetti del demoltiplicatore fiscale, così come la proposta di una conferenza internazionale sul debito greco (modellata sulla conferenza di Londra del 1953 sul debito tedesco) hanno dato credibilità alle politiche di Syriza. Queste ultime si differenziano dalle politiche della sinistra keynesiana perché individuano le necessità di una mobilitazione sociale basato sul “ritorno del demos”, sulla strategia delle piazze vista nel capitolo precedente. Gli autori attaccano l’elaborazione di Lapavitsas (i cui risultati sono leggibili anche in analisi pubblicate dalla Fondazione Rosa Luxemburg, della Linke tedesca) come poco marxista, privilegiando le relazioni centro-periferia rispetto alla centralità della lotta di classe: l’UE è certamente un supporto potente e autoritario alla difesa degli interessi capitalistici, conviene Tsakalotos, ma il suo scopo non è la difesa prioritaria delle economie del Nord, a parte il fatto che il caso britannico dimostra come la linea austeritaria può essere fatta propria anche senza il contorno delle regole dell’Eurozona. Il capitale greco non è fatto di poche grandi banche, come nel folclore delle teorizzazioni del capitalismo monopolistico di stato (che accampano una contraddizione fra capitale e “popolo”), ma ha creato un sistema di alleanze sociali attraverso una egemonia anche ideologica. Alla sinistra è richiesta una nuova politica egemonica verso le classi medie, che non consista nell’accettazione del loro tradizionale modus operandi (evasione fiscale+ sfruttamento degli immigrati) ma che ne cambi le pratiche e i modi di produrre e consumare. Seppure il patriottismo greco abbia una sfumatura di sinistra che non ha nei paesi del “centro”, affidarsi ad esso significa solo cercare di riposizionare la rabbia anti-austerity, col risultato di riprodurre l’egemonia della destra.
I fallimenti del Programma comune della sinistra francese, della Strategia Economica Alternativa della sinistra laburista e del Pasok negli anni Ottanta segnalano il deficit di soluzioni sovranazionali nella sinistra europea a fronte della finanza, delle multinazionali, della competizione fiscale. Una affermazione importante (foriera di conseguenze col senno del poi?) è che la rottura sociale insita nel programma di Syriza è tale che è inverosimile che un governo di sinistra possa vivere senza una manifestazione di solidarietà internazionale. Qui probabilmente (ripeto, col senno di poi) c’è una sottovalutazione della forza d’urto di un governo isolato di sinistra e della sua capacità di suscitare alleanze sovranazionali.
La svolta a sinistra del Synaspismos (predecessore di Syriza e sua componente egemone, ex PC “dell’interno”) dei primi anni 2000 è avvenuta sulla base della critica alla destra interna di concentrarsi su programma ed elezioni, ma non sul supporto a movimenti sociali che spostassero la bilancia del potere: autorganizzazione, autogestione, attivismo dal basso, social audit, commercio e banche etiche, tutti dati non necessariamente alternativi alla pianificazione democratica e alla politica industriale, ma loro necessario complemento. Dunque, partire dai bisogni sociali con “agenti di cambiamento” che cominciano a rispondere a questi stessi bisogni, questo il nocciolo della strategia individuata. Aspettarsi che lo stato sia il luogo del cambiamento, e non prevedere che esso stesso sia dall’inizio trasformato, questi i limiti che accomunano la “destra” interna ma anche i sostenitori del grexit. Gli autori valorizzano i movimenti di resistenza all’austerità anche perché hanno riproposto le questioni di cosa e perché produrre, ed hanno cominciato a costruire una economia sociale parallela: cliniche e farmacie sociali, negozi di alimentari sociali, cooperative, iniziative per semplificare la relazione fra produttori e consumatori… tutto ciò non solo comincia a dare risposte concrete ai bisogni sociali ma provvede anche strutture trasformative, più democratiche. Come far entrare queste nuove forme in uno stato gerarchico, inefficiente, clientelare e autoritario, democratizzandolo, è il compito cui Syriza deve dare risposte. E lo stato nazionale è il primo luogo di questa “resistenza costruttiva”, efficace in quanto il programma che si dà non preesiste ai movimenti.
Ricapitolando, il volume di Tsakalotos e Laskos, aggiornato al 2012, ci aiuta a capire i perché della vittoria di Syriza del 2015. Forse però anche, involontariamente, i motivi delle gravissime difficoltà, per molti versi presumibilmente inaspettate, che quell’esperienza di governo ha poi incontrato. Qualche anno più tardi, ci troviamo con un governo Tsipras che ha fatto una certa strada, molto più obbligata di quanto sembrasse all’inizio, secondo i suoi detrattori di sinistra essendosi sostanzialmente arreso alle circostanze del dominio della Trojka, secondo i suoi sostenitori avendo portato avanti elementi limitati ma essenziali del suo programma. In questo percorso le interpretazioni degli eventi del 2015 sono ancora aperta e non del tutto assestate: la vittoria elettorale, il duro scontro fra Varoufakis e la Germania, il referendum che respinse i termini degli ultimatum dell’UE, il successivo accordo/cedimento governativo; soprattutto bisognerebbe essere in grado di valutare il percorso dei due anni successivi, che evidentemente hanno visto continuare il braccio di ferro fra governo e trojka, senza grossi progressi, con qualche sacrificio in più, ma preservando alcuni punti importanti (ad es. nel campo della contrattazione) che la Trojka voleva cancellare, e infine un tenue processo di ripresa economica, che ci riporta al punto di partenza di qualche anno fa, senza un’ulteriore discesa agli inferi; Tsakalotos, ora ministro delle finanze, per quanto se ne legge sui giornali italiani, valorizza la tenuta greca nell’euro, profetizza (con qualche malaugurio per orecchie italiane) una luce in fondo al tunnel, non discetta più di distacco dal modello neoliberista.
Le riflessioni di un certo spessore sull’evoluzione greca che ci permettano di vedere “com’è andata a finire” la storia raccontata da Tsakalotos e Laskos sono sporadiche. Un articolo di Michele Revelli valorizza le politiche sociali di Syriza, non tanto quelle promosse dal governo, quanto quelle agite nella società: “il più grande successo di Syriza non è stato tanto far uscire la Grecia dalla recessione quanto l’esser riuscito a riumanizzare il popolo greco, riavvicinando i singoli cittadini alla propria comunità e riaccendendo così quella passione politica ormai sepolta sotto slogan”1, con gli “ambulatori sociali” e i “mercati senza intermediari”; contemporaneamente Syriza2 valorizza i numeri delle politiche del governo: “Reddito di Solidarietà a 750.000 persone, 11 milioni di pasti caldi gratuiti alle scuole,120 sportelli di assistenza per “prestiti rossi. Non saprei dire delle politiche industriali, di quelle per lo sviluppo tecnologico, delle politiche fiscali, se ci sono state, se hanno ottenuto qualche risultato nei campi che a me sembrano decisivi, ma terribilmente “di lungo periodo”. All’opposto un saggio di Souvlis e Fischer ritiene quello di Tsipras un “fallimento totale” e “un duro colpo alla credibilità della sinistra su scala internazionale”3, individuando non una stantia teoria del tradimento, ma una “debolezza strategica” nell’operare di Syriza. Lo stesso errore di valutazione di Varoufakis, che pensava che la Germania non avrebbe permesso un Grexit, o che comunque fosse disposta a pagare un prezzo per evitarlo, e il diniego di Tsipras a tentare la strada della “moneta fiscale parallela” proposta da Varoufakis vanno fatte risalire all’incapacità di Syriza di predisporre una rapida e credibile riforma delle istituzioni statali, oltre all’illusione di poter cooptare i leader di movimento nell’apparato di governo senza aver bisogno di proseguire le mobilitazioni (ma dal volume di T. questo sembra un punto che viceversa Syriza aveva bene in testa, almeno a livello teorico). L’articolo di Souvlis e Fischer individua due falle nell’operato governativo di Syriza, indipendenti dalla sua inesperienza: “la mancanza di democrazia interna, e la mancanza di radicamento nella classe operaia greca”. In un certo senso la critica di S. e F. (“Quello che Syriza non ha fatto è stato tentare di stabilizzare e trasportare questa dialettica nei luoghi di lavoro e nei quartieri, luoghi che avrebbero rappresentato un baluardo di resistenza”) è diametralmente contrapposto alla valorizzazione dell’operato di Syriza compiuta da Michele Revelli (“la solidarietà per il Pireo con il suo sostegno giornaliero alla comunità ha aiutato i lavoratori disoccupati molto più di quanto qualunque movimento d’opinione a difesa dell’articolo 18 avrebbe potuto fare in Italia”).
Nel saggio di Tsakalotos e Laskos il richiamo alla centralità delle contraddizioni di classe appare un po’ strumentale, in effetti, alla luce dell’evoluzione successiva, ed in particolare l’assenza, fra i movimenti citati dal volume, di un movimento operaio (al di là delle mobilitazioni anti-austerity) è inquietante. Rimettere in discussione il “cosa e come produrre” appare un esercizio molto limitato senza le gambe di un movimento anche nei luoghi del produrre, in assenza di un coinvolgimento appunto dei produttori: ma questo significa avere a che fare con le questioni della contrattazione sindacale decentrata, con la difesa dei salari, diretti e indiretti, della dotazione di strumenti di influenza sui consumi (le partecipazioni statali e il “piano” nell’accezione di Riccardo Lombardi); ora da questo punto di vista occorre riconoscere che la posizione di Syriza si presentava debole, non avendo una corrente sindacale di riferimento paragonabile a quelle non solo del Pasok, ma neanche dei comunisti del KKE e di Nuova Democrazia; o comunque essendo la composizione di classe greca non particolarmente favorevole, ed essendo la burocrazia statale impregnata di clientelismo e impreparata a gestire un intervento diretto nell’economia.
Il punto sembrerebbe: come continuare una mobilitazione sociale in presenza di un “governo amico”, che non può non attestarsi anche su compromessi dettati dai rapporti di forza, ma con rapporti di forza cedenti in assenza di una mobilitazione?
Per chi ha un’età un pochino avanzata, molte cose fra quelle descritte o promosse da Tsakalotos ricordano un periodo della storia della sinistra italiana, quello del “Pci di lotta e di governo” degli anni Settanta del secolo scorso, del resto evocato più o meno sotterraneamente nello stesso volume. Con le ovvie differenze, la più ovvia essendo che mai il Pci si trovò in posizione dominante in un governo della Repubblica; in una maggioranza parlamentare, però, sì4. In effetti il problema della difficoltà di mettere in risonanza, in maniera continuativa, l’iniziativa di movimenti organizzati dal basso con l’operato “dall’alto” di un partito dotato di consenso elettorale appare ora come allora al nocciolo della difficoltà di dare efficacia riformatrice ad un governo di sinistra.
1 http://www.listatsipras.eu/2017/10/09/la-solidarieta-del-pireo-resisto-quindi-siamo/
2 http://www.listatsipras.eu/2017/03/02/la-politica-sociale-di-syriza/
3 http://contropiano.org/documenti/2017/08/02/syriza-ovvero-imparato-non-preoccuparmi-ad-amare-lo-status-quo-094447. Nello specifico la valutazione ci appare un po’ ingenerosa: il trattamento molto più blando verso il governo di sinistra portoghese (certo, diretto dalla socialdemocrazia) da parte delle istituzioni europee e del governo tedesco in particolare pensiamo che sia dovuto alla volontà di non ripetere l’esperienza del negoziato con Tsipras e di non offrire alla Grecia un alleato operativo. Quell’esperienza, sconfitta, ha rappresentato un pericolo reale per gli equilibri capitalistici e ha sconsigliato la ripetizione della “linea dura” da parte di Schauble-Merkel-Draghi.
4 Emblematica di quella fase fu l’incapacità (o l’impossibilità?) di utilizzare a fini dello spostamento dei rapporti sociali di forza le mobilitazioni sindacali, in particolare quella dei metalmeccanici che si rispecchiò nel dibattito interno al Pci sullo sciopero del 2.12.1977