1. L’inarrestabile, lento aumento della disoccupazione - Apparentemente il tasso di disoccupazione è in regresso (nei primi tre trimestri dell’anno passa da 8,3% a 7,7% a 7,3%), in realtà ognuno di questi valori è maggiore di almeno un punto e mezzo ai corrispondenti tassi del 2011. Fra le donne, nel secondo trimestre si è sfiorato un tasso di disoccupazione del 10%, dato che non veniva toccato da una decina di anni. Anche il tasso di disoccupazione maschile (5,7%), al netto degli andamenti stagionali, non ha alcun riscontro nell’ultimo ventennio. Le previsioni nazionali dell’Istat indicano un inasprimento della disoccupazione nei prossimi mesi, con il cumularsi degli effetti della stagnazione europea e della maturazione di crisi aziendali assai difficili; inoltre quando arriverà la ripresa economica, passeranno parecchi mesi prima che le imprese riprendano ad assumere veramente.
2. Il “disoccupato aggiuntivo” - Il livello degli occupati non presenta però lo stesso aspetto drammatico delle cifre della disoccupazione, ed appare anzi singolarmente statico. Il fatto è che la riforma delle pensioni ha bruscamente fatto contrarre il flusso delle persone che escono dal mercato del lavoro (i nuovi pensionati), mentre i nuovi afflussi (i giovani che escono dal sistema scolastico e universitario) si trovano bloccati dall’assenza non solo di nuovi investimenti, ma anche semplicemente dalla possibilità di subentrare ad una leva di mancati pensionandi. Inoltre la caduta del potere di acquisto delle famiglie fa sì che, per rincorrere le pur minime e parziali possibilità di lavoro, altri disoccupati latenti si manifestino. Fino a qualche anno fa si parlava del “lavoratore scoraggiato”, che non vedendo possibilità si ritirava dalla ricerca del lavoro; oggi questa figura è invece sostituita dal “disoccupato aggiuntivo”, che cerca lavoro per quanto sia improbabile trovarlo.
3. Il cambiamento strutturale dell’occupazione - L’economia regionale continua ad offrire occasioni di lavoro, che però sono sempre più precarie e sostitutive di posti di lavoro più strutturati. Confrontiamo i dati del secondo trimestre 2012 (ultimo dato disponibile) con quelli del secondo trimestre 2011, relativi agli “avviamenti”. Gli avviamenti sono stati nel 2° trimestre 2012, 192mila, apparentemente un numero elevato per una economia da un milione e mezzo di occupati, più o meno. Solo 17.700 di questi, però, sono “a tempo indeterminato”, quasi tremila in meno dello stesso periodo dell’anno precedente. Anche i posti di lavoro a tempo determinato offerti sono diminuiti, di quasi 7mila unità, come sono diminuiti i contratti di apprendistato (di circa 2mila) e perfino le “missioni” di lavoro in somministrazione (di 3mila unità), oltre che i contratti di lavoro a progetto (2mila in meno). A parte la stabilità del lavoro domestico, vi sono quasi 6mila avviamenti in più di “lavoro intermittente” (ossia di una forma più precaria di altre forme precarie di lavoro). Fino a qualche anno fa, anche durante la crisi, gli avviamenti di lavoratori extracomunitari, anche a tempo indeterminato, tenevano i livelli precedenti. Oggi non è più così, anche posti di lavoro ritenuti poco appetibili (e per i quali le imprese erano costrette quindi a offrire contratti a tempo indeterminato) vengono attivati con forme precarie. Un riflesso di questo si ha nella diminuzione della quota degli avviamenti di stranieri e nel riaffacciarsi di italiani (soprattutto donne) in alcuni comparti come il lavoro domestico e quello di cura dei servizi alla persona, che fino a pochi mesi fa sembravano sempre più destinati a stranieri. In parallelo ci sono anche segni di una riduzione della numerosità di collettività immigrate da paesi, come la Cina, la Romania, la Polonia, che hanno tassi di sviluppo ormai stabilmente superiori ai nostri, paesi in cui si creano posti di lavoro certo a livelli retributivi inferiori a quelli italiani, ma crescenti e relativamente stabili.
4. Il lavoro autonomo - E’ evidente, dai dati prima citati, che è in corso un processo di degrado delle condizioni del lavoro dipendente. Tuttavia le cose non vanno meglio per il lavoro autonomo. La propaganda sull’ “essere imprenditori di sé stessi” non può mascherare la riduzione, fra il 2007 e il 2012, di ben 25mila unità di lavoro autonomo (media dei primi tre trimestri dell’anno), mentre corrispondentemente il lavoro dipendente è cresciuto di 13mila unità (in posizioni, come si è visto, sempre più precarie). Una politica solidamente e continuativamente favorevole ai gruppi monopolistici continuerà presumibilmente a intaccare la quota occupazionale del lavoro indipendente.
5. Cassintegrati: i soliti 30mila - Nei primi nove mesi dell’anno l’Inps ha integrato 36,7 milioni di ore (erano 34,7 nello stesso periodo dell’anno scorso e 40,2 nel 2010); negli anni fino al 2008 la cassa integrazione oscillava intorno ai 7 milioni di ore l’anno (sempre considerando i primi nove mesi, per facilità di confronto). Sta crescendo la cassa integrazione un po’ in tutti i settori: metalmeccanico (+1,3 milioni di ore), edilizia (+700mila), commercio (+800mila), carta-editoria (+400mila), con l’eccezione del tessile-abbigliamento-calzature, grazie soprattutto al contributo della pelletteria, in cui si sono registrate 500mila ore in meno rispetto al corrispondente periodo del 2012. Con un calcolo approssimativo, questo volume di ore equivale a 30mila posti di lavoro; alla fine del 2011 i posti di lavoro equivalenti messi in discussione dalla cassa integrazione sembravano diminuire, ma la tendenza negli ultimi mesi è stata sfavorevole. Del resto sono note le difficoltà in cui si dibattono molte grandi e medie imprese, che a volte vedono scadere il periodo massimo ottenibile di Cig; il peso maggiore dei cassintegrati sul lavoro dipendente si ha nelle province di Pistoia, Arezzo e Livorno (dove è comunque piuttosto inferiore a quello che si ha in una provincia confinante come quella di Terni).
6. La caduta della produzione - L’aggravarsi del mercato del lavoro rimanda alla caduta dei livelli di produzione, che ha interrotto una lentissima ripresa (dopo la più grave caduta di fine 2008-prima metà del 2009) che si era dispiegata soprattutto nel 2010. L'unico settore in controtendenza, che ha aumentato i livelli produttivi, è il pellettiero/conciario, che continua a crescere del 3,4% rispetto allo stesso trimestre 2011. I settori tradizionali perdono però, nel complesso, il 6,6% dell’indice della produzione sullo scorso anno (con un picco del -11,6% per il tessile e del -11% per il legno); non molto meglio vanno i settori “moderni”, in regresso del 5,4% dal II trimestre 2011, inclusi i comparti dell’industria meccanica (-4,3%) e farmaceutica (-10,6%).
7. La bilancia estera tiene - Possiamo concludere con l’unico elemento positivo del quadro congiunturale, relativo alla tenuta e miglioramento dei conti con l’estero. In questa tenuta c’è il dato negativo delle conseguenze della crisi del potere d’acquisto delle famiglie (minori importazioni di beni di consumo) e dei mancati investimenti delle imprese (che si traducono anche in mancate importazioni di macchinario). Comunque significa anche che continua a permanere un potenziale di crescita industriale che le politiche recessive tengono artificiosamente compresso. Le esportazioni regionali nel loro complesso sono passate (fra il primo semestre 2011 e io primo semestre 2012) da 14,35 miliardi a quasi 16 miliardi. Poiché nel frattempo le importazioni sono rimaste quasi stabili, crescendo di circa 400 milioni di euro (crescita tutta dovuta al comparto energetico), l’avanzo della bilancia commerciale regionale sale da circa 3,5 miliardi a oltre 4,6. Se anche lasciamo da parte il contributo delle esportazioni orafe aretine (pesantemente inquinate da fenomeni di riciclaggio di oro e di svendita dei patrimoni aurei delle famiglie, attraverso i “compro oro”, su cui sta facendo luce la Magistratura), l’incremento dell’export regionale, del 4,8%, è superiore a quello nazionale, grazie alle performances di due settori di esportazione. La già citata pelletteria e la costruzione di macchinario e impianti. Infine una osservazione ai limiti della curiosità può servirci a comprendere meglio i caratteri strutturali della situazione. Nel corso del primo semestre la Toscana ha aumentato circa di 250 milioni di euro ogni mese (rispetto a un anno prima) le esportazioni. La Grecia, sottoposta ad una “terapia d’urto”, ha migliorato le sue esportazioni circa di 300 milioni ogni mese; tuttavia la bilancia commerciale della Toscana è positiva per 4,6 miliardi (primi sei mesi del 2012), mentre quella greca ha ancora un passivo di 7 miliardi (primi 5 mesi 2012), e ai ritmi attuali (difficili da mantenere) ci vorranno ancora un paio d’anni per riportarla in equilibrio. Anche la bilancia commerciale italiana ha un surplus di 20 miliardi circa, ciò che è tutt’altro che secondario, nel malaugurato caso di una esplosione del sistema valutario europeo (eviterebbe il blocco delle importazioni, che naturalmente dovrebbero però essere pagate ad un prezzo molto più elevato dell’attuale).
8. Una crisi inutile? - C’è qualcosa di poco comprensibile nello svolgimento della attuale crisi economica e finanziaria internazionale. Almeno alcune delle ricette per uscire da essa sono ormai condivise ampiamente; perfino il fondo monetario internazionale, già bastione dell’ortodossia neoclassica, sostiene la necessità di un rifinanziamento meno rigido dell’economia (easy funding), è chiaro che la Germania dovrebbe accrescere la spesa interna e che una prospettiva per l’euro può essere ottenuta solo con una politica espansiva, senza la quale, prima o poi, le economia greca, portoghese, spagnola, italiana, e probabilmente francese, sono destinate a cadere come birilli, travolgendo tutta la costruzione europea. Perché allora non si procede con un riaggiustamento espansivo? Placare le ansie per l’inflazione dei tedeschi e ristabilire la credibilità in merito alla solvibilità delle istituzioni finanziarie sono obiettivi anch’essi più facilmente raggiungibili in un contesto espansivo. Piuttosto ci sembra che in questa fase si manifestino gli effetti di quei “limiti alla piena occupazione” nelle economie capitalistiche di cui parlava uno dei maggiori economisti del novecento, Michail Kalecki, che sono serviti da bussola alla restaurazione neoliberale degli anni Ottanta e Novanta; se assumiamo che (contrariamente a quanto viene detto) evitare anche solo la prospettiva della piena occupazione sia l’obiettivo principale delle politiche di regolazione macroeconomica internazionale, molte questioni cominciano a tornare al loro posto. Ma questo è un argomento che meriterebbe una riflessione a parte.