Giovedì, 10 Ottobre 2013 00:00

Non è tempo di lavorare. La discussione prosegue

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La presentazione del numero 2 (il terzo) del cartaceo Il Becco, è stata l'occasione per proseguire con la discussione su come è cambiato il mondo del lavoro in questo nuovo millennio. Sotto l'etichetta #nonètempodilavorare si sta infatti sviluppando un dibattito articolato, a partire da un'iniziativa del 25 giugno 2013.

In apertura Leonardo Croatto ha sottolineato come, “eliminata” quella parte dei lavoratori subordinati che è già tutelata dai sindacati – o in ogni caso dovrebbe esserlo –, rimangono fuori quei circa 2 milioni di soggetti che non hanno un contratto subordinato e che chiedono diritti di cui non godono e risposte, sia da parte del sindacato che da parte della politica. Questi soggetti sono “giovani” – ma come ha scritto Imbergamo, continuano ad esser appellati così anche quando hanno 50 anni - e ciò che prevalentemente li caratterizza è l’alta o l’altissima professionalità. Proprio per questo dovrebbero essere considerati come la risorsa più ricca, in tutti i sensi, dato che offrono, grazie alle loro capacità e ai loro studi, alla loro preparazione e formazione anche altamente tecnologica, un’elevata efficienza lavorativa che quindi farebbe crescere e fiorire il paese anche dal punto di vista “brutalmente” economico e produttivo, oltre che dal punto di vista culturale. Investire su questi cervelli significherebbe veramente tanto per un’Italia già così martoriata. Tanto per cominciare potrebbero senz’altro portare nei nostri settori produttivi quel grosso carico di innovazione, tecnologica ma anche a livello di nuovi contenuti e nuove interpretazioni del mondo del lavoro stesso e delle dinamiche sociali e produttive. Quello che infatti paralizza anche il ruolo di tutela del lavoro da parte del sindacato è soprattutto una difficoltà di interpretazione di questa “nuova” categoria. Ciò è la conseguenza di una rappresentazione del lavoro anacronistica, ormai scaduta di fronte a un mondo che si frammenta in categorie lavorative sempre più numerose, si ramifica come una ragnatela creando nuove tipologie di lavoratori, in camaleontici contratti –al limite del surreale – che spuntano come funghi, si snoda in una multiformità e varietà che non sono più riducibili alla schematica configurazione datore di lavoro – lavoratore dipendente (o subordinato), che poteva andar bene fino a un trentennio fa.

Bisogna riflettere su questo quadro contemporaneo così variegato e trovare nuovi strumenti e nuove analisi per poterlo interpretare, decifrare quasi, per poter poi agire su di esso in maniera efficace e concreta. Bisogna studiare quali sono le nuove condizioni di lavoratori che non sono collocabili in nessuna delle classiche e tradizionali categorie, capire come si formino questi nuovi soggetti, come poterli “allevare”, farli crescere, analizzare i loro rapporti sociali, ascoltare i loro diritti e le loro richieste, proteggerli, garantirgli la possibilità di esprimere a pieno tutta la loro competenza, permetter loro di sviluppare quelle che il Nobel per l’economia Amartya Sen e Martha Nussbaum avrebbero chiamato “capabilities”che rappresenterebbero per loro la “libertà individuale di acquisire lo star bene” a tutti i livelli.

Davvero il lavoro dipendente/subordinato può essere l’unica forma di lavoro tutelabile, perché da sempre, quando in effetti c’era solo quello ad aver maggiormente bisogno di esser protetto nei suoi diritti, è stato l’unico ad esser preso in considerazione? Con questo ovviamente non vogliamo dire che non sia giusto che rimanga tutelato. Deve essere tutelato, sempre e comunque, ma vogliamo metter sul piatto della bilancia anche - e sottolineiamo l’anche – altre forme di lavoro, altri soggetti che comunque subiscono uno sfruttamento che, sebbene non sia quello del” padrone” sull’operaio è comunque subdolo, sottile, strisciante, umiliante e frustrante.

Osserva infatti Sara Nocentini che a suo avviso c'è un pregiudizio culturale, un difetto di analisi da parte del sindacato e della politica in generale. In entrambi gli ambiti si tende a ritenere che l’unica forma di sfruttamento sia quella “tradizionale”, probabilmente più evidente e palese, da parte del datore di lavoro sul lavoratore subordinato: il lavoratore assunto che non godeva di determinati diritti ha lottato per conquistarli e ottenerli, e oggi sappiamo quali sono i diritti di cui deve poter usufruire il lavoratore dipendente (contratto di lavoro, tredicesima, diritto alle ferie, ecc ecc..), sebbene spesso tutto ciò rimanga pura teoria. Infatti è ancora vero che a molti lavoratori assunti tali diritti, che dovrebbe aver “diritto di pretendere”, vengono negati oppure, purtroppo, spesso può venir messo in condizioni (ricatti, condizioni di vita talmente misere da dover accettare qualsiasi compromesso, ecc ecc..) di non poter godere di essi, nonostante gli spetterebbero di diritto (scusate il gioco di parole).

Oggi però il lavoratore dipendente non è l’unico “soggetto debole”, come lo era una volta, anzi ormai almeno il “diritto ad avere diritti” sappiamo che lo ha o comunque sappiamo che dovrebbe averle e giustamente ci indigniamo quando questo, per vari motivi, rischia di non venire rispettato. E tutti i “nuovi lavoratori” non hanno forse diritto a pretendere gli stessi diritti? La loro acquisizione o la lotta per tale acquisizione ormai non dovrebbe riguardare più soltanto il dipendente, proprio per il fatto che esistono altre tipologie di lavoro e di conseguenza altre forme di possibile sfruttamento , forse più sottile, meno lampante ma ugualmente meschino, così come appunto esistono altri soggetti “deboli”, i quali, sebbene non integrabili nella categoria del lavoro subordinato, vedono negarsi quei diritti che invece, per lo meno de jure ma non sempre de facto a questo spettano.

Spesso il lavoratore autonomo è, come scrive Barbara Imbergamo, un “falso autonomo” e quindi subirà le “stesse sfighe e gli stessi miseri diritti”(cit.) che toccano al precario – niente tredicesima, niente ferie (nonostante il numero di ore di lavoro sia tendenzialmente uguale a quello del lavoratore dipendente), niente tfr, niente mobilità né cassa integrazione (per non entrare a parlare dell’immensa questione della pensione!) - , oppure può trattarsi anche di un “vero autonomo”, ma anche in questo caso il valore della parola verità risulta un po’ambiguo e sfumato. Può lavorare sì, da solo a partita iva o organizzandosi in cooperativa, ma, apparte la difficoltà di “partire da zero”, trovarsi da soli i propri cliente, trovarne ma avere incarichi saltuari, anche questo lavoratore “veramente” autonomo, non ha il diritto alla tredicesima, né a ferie, né tfr ecc ecc.. Dunque si tratta di una brutale modalità di sfruttamento il fatto che una persona altamente preparata sia impossibilitata ad esprimere la propria formazione e a mettere in pratica le proprie competenze professionali. È una vile realtà di sfruttamento il fatto che questi professionisti debbano affrontare una gavetta frustrante prima di poter fare ciò per cui hanno studiato e su cui si sono specializzati, che debbano passare ad esempio dallo scalino del nell’analisi di un mondo call center. I problemi derivano quindi, continua Nocentini, sia da una mancata lucidità e capacità di interpretazione della complessa cornice in cui si inserisce il cambiamento del mondo del lavoro che è già avvenuto e verso cui stiamo continuando ad andare a velocità supersonica, sia da un pregiudizio culturale che ottura la visione di questo quadro così variegato e ci impedisce di comprenderne le sfaccettature, lasciandoci imprigionati di una visione molto netta, dicotomica – esistono solo datori e dipendenti e diritti di cui questi devono godere – che però oggi rimane imparziale, anacronistica in quanto non tiene conto della trasformazione, dei cambiamenti, della molteplicità e della complessità addirittura confusionale, da capogiro,che oggi (s)travolgono la sfera del – o meglio dei – lavoro/i. Finché non usciremo da questa cecità mentale, questa gabbia concettuale che ci induce a demarcare una linea di confine netta tra lavoratore autonomo e lavoratore dipendente, tra padrone sfruttatore e operaio sfruttato non prenderemo mai in seria considerazione la necessità e l’esigenza di diritti e di tutela che provengono da altri lavoratori, che siano precari o falsamente o veramente autonomi.

Anche Andrea Malpezzi è d’accordo sul cominciare seriamente a porre l’accento sui termini, sulle parole – “le parole sono importanti!”, cita Moretti – riporre la nostra attenzioni sul significato di certune di esse, come appunto quella di “sfruttati”. Chi sono oggi i soggetti sfruttati? Non è sfruttato un giovane che lavora più o meno tutti i giorni e il cui reddito annuale medio, come ricorda Barbara Imbergamo sul suo articolo, pare sia di circa 8500 euro? L’altra questione che secondo Malpezzi è importante sottolineare è, oltre a quella culturale, anche quella generazionale. Negli anni novanta l’idea era che il lavoratore autonomo fosse il lavoratore ufficiale per eccellenza. Oggi la realtà non è questa. L’analisi interpretativa deve cambiare ma non può farlo facilmente se chi decide è gente che è rimasta legata ad una visione vecchia, che poteva andar bene per la loro contemporaneità ma che non può più adattarsi piattamente alla nostra contemporaneità. Un’ottica che rimane ancorata a quella dei tempi passati non può adeguarsi al presente, soprattutto quando questo schizza a velocità impazzite tanto che ogni giorno sembra già morire nelle fauci del futuro, tanto repentini sono i cambiamenti.

Se manca la capacità di analisi l’azione viene mutilata di conseguenza. Inevitabilmente. Come anche la voglia di agire perché ciò su cui si dovrebbe agire – ad esempio questa varietà e complessità delle tipologie lavorative – semplicemente non esiste, non lo vedo o ne do un giudizio semplificato etichettandolo in un certo modo già noto o inserendolo in una delle caselle o categorie che esistono da sempre e che nella mia visione ovattata non si sono né proliferate né modificate.

Come aggiunge Francesco Draghi, trent’anni fa il lavoratore autonomo era un lavoratore dipendente che a un certo punto, stufatosi di essere alle dipendenze sceglie, decide di mettersi in proprio. Vent’anni fa il quadro era già diverso: il datore di lavoro non poteva più tenere quel dipendente ma gli dava la partita iva affinché potesse comunque lavorare “ a domicilio”. Oggi non si tratta nemmeno più di una scelta, chi non lavora in una fabbrica o in’azienda o simili, chi si è specializzato in un campo è costretto a diventare autonomo, ma allo stesso tempo non gode dei vantaggi di questa indipendenza. Bisogna perciò porsi anche il problema di quanto e come sia cambiata la modalità del “mettersi per conto proprio” e chi veramente possa usufruire, nelle condizioni lavorative attuali, di questa autonomia. Tante questioni, tanti problemi da porsi per iniziare per lo meno a volerli risolvere o a metterli sul “banco degli imputati”, a cominciare dal problema dell’unità del mondo dei lavori, laddove c’è una frammentarietà caleidoscopica dentro di esso, sia nelle tipologie di lavoro che in quelle dei lavoratori: è possibile, utile, giusto trovare dei punti in comune tra di essi? Bisogna allora partire proprio da certi punti in comune, dei fili comuni che possano ricucire un universo così spezzettato.

Possibili punti di riallaccio che riguardano tutti i soggetti che fanno parte del mondo del lavoro potrebbero essere quelli sotto elencati.

  • - Il problema di cosa sia il lavoro, che tipo di relazioni sociali genera, quali sono le sue condizioni materiali e il ruolo dei lavoratori.
  • - Il problema politico: un partito che si dica di sinistra dovrebbe lavorare su questo, superando la semplicistica visione del lavoratore salariato e del suo datore di lavoro.
  • - Il problema della rappresentanza.
  • - Il problema di cosa si intenda per difesa del lavoro: se il lavoro dipendente sia solo l’unica forma possibile di lavoro tutelato.
  • - La questione di come si costruisce il tessuto lavorativo, di come si formi il lavoratore, come lo si possa far crescere, quali sono le sue effettive condizioni di lavoro, le sue possibilità di sviluppare le proprie competenze, quali sono le sue relazioni all’interno della società, come possa inserirsi ed esprimere il suo lavoro e la sua persona entro ad essa ecc..
  • - Cosa sono i lavori oggi? Non ci sono più solo tre figure chiave come una volta (che Draghi riassume in “bottegai – artigiani – professionisti” ), ma esistono molte più differenze. Tanto per cominciare. Ma la discussione e le possibili domande da porsi rimangono aperte. A tutto ciò si dovrebbe aggiungere anche un recupero della storia. Non solo della storia “di come è cambiato il lavoro, dei passaggi influenti che lo hanno segnato o modificato nelle sue vicende principali, ma anche un recupero più approfondito della storia sindacale - si guardi ad esempio come la proposta del mutualismo sia simile alle pratiche sindacali del novecento - in modo che politica e sindacato stesso possano riuscire a dare risposte più concrete e ad agire più consapevolmente su questi problemi.

Andrea Brunetti, responsabile dell’ufficio politico giovanile della CGIL interviene dicendo che il dibattito esiste (sebbene sia arrivato un po’ in ritardo) anche all’interno della CGIL e che la Camusso ha messo la faccia su un documento di indirizzo sul lavoro professionale, emesso il secondo giorno di Consulta delle professioni a livello Nazionale. Anche a detta di Brunetti il sindacato deve rappresentare tutto il mondo del lavoro, anche quello dei professionisti. Su questo, continua, a livello toscano sono già stati fatti dei passi in avanti, come appunto la creazione entro la CGIL della Consulta delle professioni, che fino a due anni fa ancora non c’era. Uno dei problemi principali che forse può “discolpare” il ritardo dell’attenzione da parte del sindacato su questo tema del lavoro professionale o “autonomo”, secondo Brunetti è il fatto che le risorse di elaborazione per affrontarlo andrebbero tolte dalle risorse di elaborazione che riguardano le tipologie “classiche”, tradizionali dei lavoratori.

A mio avviso però, nonostante questo progressivo sgretolamento del mondo lavorativo, e le differenze che si ramificano all’interno di questo, bisognerebbe davvero tenere ferma una possibile omogeneità o per lo meno similarità di diritti di cui possano usufruire tutti, lavoratori variegati, sì, ma uniti dal fatto di far parte di uno stesso universo, nel quale le diversità, anziché separare, dovrebbero riconciliarsi nel valore della parola lavoro, con cui si apre la nostra Costituzione. E quella parola riguarda tutti e per tutti deve esser degna di poter esser chiamata con tale nome.

Immagine tratta da ugolini.blogspot.it

Ultima modifica il Giovedì, 10 Ottobre 2013 11:05
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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