Lunedì, 25 Novembre 2013 00:00

Il Quinto Stato è la precondizione

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Intervista a Roberto Ciccarelli pubblicata all'interno del numero cartaceo 3 de Il Becco (clicca qui per scaricare il pdf).

Ciccarelli è autore del libro Il Quinto Stato (clicca qui) e La furia dei cervelli

1) In un contesto socio economico profondamente mutato rispetto alla cornice novecentesca secondo quali elementi possiamo definire oggi un lavoratore/una lavoratrice?

Noi lo definiamo come il soggetto che compie un'attività operosa. Oggi più che mai il lavoratore non è più identificabile nella persona giuridica che detiene uno status, un contratto. Il lavoratore non è quindi

solo chi eroga una prestazione con partita Iva o è assunto come dipendente. Lavoratore è colui o colei che svolge un'attività operosa, mettendo in gioco tutto se stesso o se stessa nello svolgimento di questa attività. Il lavoro conosciuto tra '800 e '900 era mediato da un contratto, da una mediazione giuridica e istituzionale. Entrambe sono saltate oggi, sia per una trasformazione strutturale del paese che per il processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia.

2) Perché in un paese che è teoricamente una potenza industriale i portatori di innovazione sono fuori dai cicli produttivi classici, e sono messi dal legislatore in condizione di non sopravvivere? Il sapere sembra non dover avere un ruolo nel sistema economico italiano.

Possiamo parlare di una guerra di classe dall'alto verso il basso da parte dei detentori del potere burocratico e finanziario contro chi vive e svolge attività operose nella propria esistenza. Non sono certo che l'Italia abbia espulso i saperi dai cicli produttivi. Forse c'è un processo che parte almeno dagli inizi degli anni '90, che ridefinisce e riarticola il rapporto tra saperi e potere. La società della conoscenza di massa è stata rifondata: una minima parte, ultraspecializzata e ultragarantita, a cui sarà concesso l'accesso ai diritti, alle risorse e alle tutele, mentre una grande massa verrà progressivamente espulsa. Tutto questo è il risultato della liquidazione dello stato sociale, a cui non attribuiscono il valore di un paradiso. Anzi, è stato uno strumento imperfetto e spesso discriminatorio, ma che comunque ha rappresentato soprattutto nella seconda parte del Novecento un avanzamento.

3) Al centro di questo processo, mi sembra evidente che ci sia un conflitto sul ruolo e il valore dei saperi. Come spieghi il susseguirsi delle riforme dell’istruzione, ad esempio, in Italia?

Con il ministro Ruberti, all'inizio degli anni '90, si è avuta una sbagliata interpretazione dell'autonomia universitaria e del suo rapporto con il mercato del lavoro. In Italia è esplosa una bolla formativa: si voleva costruire un blocco anche numeroso di laureati specializzati, formati per praticare saperi usa e getta, acritici e altamente degradabili, che avessero una rispondenza immediata con la domanda sul mercato dei servizi all'impresa, del precariato di massa per il pubblico e privato. Il mercato per tante ragioni non ha mai conosciuto una decisiva svolta verso il terziario avanzato: per la debolezza del postfordismo in Italia, per la crisi della manifattura tecnologica avanzata, oltre che della piccola e media impresa e dei distretti industriali.
C’è anche da considerare un altro elemento in Italia. Dalla metà degli anni '70 è esplosa la disoccupazione giovanile e intellettuale, la prima crisi del sistema di istruzione di massa. A questa crisi, che ha avuto un’evoluzione, nessuno è riuscito a trovare una soluzione. Le riforme dell’istruzione, come del resto quelle del lavoro, hanno cercato affannosamente di rispondere a questo problema, ma inutilmente. Le classi dirigenti hanno compreso questo colossale fallimento e tra il 2007 e il 2008, con Gelmini come ministro dell'istruzione, hanno inaugurato un’altra strategia. Hanno preso una decisione drastica, contro la quale nessuna forza politica, sindacale, culturale ad oggi è riuscita a rispondere. Compresi i ceti che possiedono e dirigono l'università che oggi si lamentano anche se nessuno deve dimenticare la loro connivenza con Gelmini e Tremonti mentre tagliavano 10 miliardi, c’erano milioni di persone in piazza con l’Onda nel 2008 e poi nel 2010, e loro facevano i pesci in barile. Sono tutti responsabili della cancellazione dell’università pubblica di massa così come l'abbiamo conosciuta dal dopoguerra in poi.
L’Italia è l'unico paese in ambito Ocse ad aver fatto una scelta simile.
La decisione è stata lucida e programmata: razionalmente si stanno distruggendo le basi stesse dell'economia del terziario avanzato e in generale della società moderna.
Da paese produttore di saperi, conoscenze e servizi, l'Italia sta passando ad essere consumatrice. Così cambia la posizione del paese dentro l'economia globale. Ci si affida alle capacità di risparmio e della rendita, che è riservata ad una piccola parte del ceto medio e delle élite, che sostengono lo scheletro dell'ormai marcescente economia italiana. Il progetto è doppiamente suicida, perché la crisi va a incidere esattamente sulla rendita, su cui invece il ceto dominante sta basando le sue risposte. Il processo di proletarizzazione del ceto medio, contemporaneo a quello di schiavizzazione e esclusione dei ceti popolari, è la controprova che questa strategia è già fallita. Eppure perseguono.
Da qui alla prossima generazione vivremo in un'Italia dove si riduce il livello di produttività, senza infrastrutture cognitive, tutele, con un paese desertificato sia a livello industriale che di produzione di conoscenze. Torneremo al Medioevo.

4) I nostri riferimenti culturali sono ancora ancorati al '900. Per toccare il tema della rappresentanza, il sindacato deve tutelare solo chi ha un rapporto di lavoro dipendente?

Oggi il sindacato rappresenta chi ha un datore di lavoro, non solo in Italia. Nonostante ci siano iniziative interessanti, anche in ambito Cgil, il mondo del lavoro indipendente resta slegato da questa forma di rappresentanza e per la prima volta prova lentamente, faticosamente, ad auto-organizzarsi. Il problema del quinto stato è comprendere la propria eterogeneità, farne una virtù, e non solo subirla passivamente. Si può iniziare con battaglie di idee e di opinione, su questioni sostanziali. Può essere il reddito minimo, oppure la battaglia delle partite IVA contro l'aumento dell'aliquota INPS per gli iscritti alla gestione separata. Attualmente sta avendo un riscontri interessante, tra i sindacati, il Pd (che ha votato la riforma Fornero sulle pensioni e adesso viene costretto dal quinto stato a tornare indietro, almeno su questo punto). Vedremo se tutto questo rientrerà nella legge di stabilità. E se in prospettiva sarà cambiata la riforma Fornero che penalizza pesantemente con l'aumento dei contributi le pensioni di autonomi e parasubordinati. Tutto questo sembra molto tecnico ma ti assicuro che riguarda la vita delle persone e il loro reddito. Insomma oggi ci sono le possibilità almeno per porre la questione dell'auto-organizzazione di alcuni segmenti del quinto stato.
Il sindacato, come si vede anche dalle discussioni sulla cassa integrazione in deroga e più in generale sulla questione degli ammortizzatori sociali, non mi pare abbia percepito né la trasformazione strategica che ha investito il lavoro, né la crisi fatale della rappresentanza del lavoro, né la trasformazione degli strumenti della contrattazione per i diritti dei lavoratori e dei cittadini. Per il momento il quinto stato è totalmente escluso dal discorso sulle tutele sociali.
La mia è solo la considerazione banale del “sindacato dei pensionati”, che però tocca un dato di fatto. In generale è venuta meno l'idea del “sindacato dei servizi”, che è poi quello attuale. Ma anche quella che funzionava come cinghia di trasmissione con il partito o con la sfera istituzionale. Il modello tedesco, gerarchizzato e verticale, è definitivamente in crisi. Questo non da oggi, come abbiamo scritto anche nel libro “Il Quinto Stato”.
Per tornare a vivere, tornando i concetti di Pino Ferraris, il sindacato deve comprendere fenomeni che dagli Stati Uniti all'Europa si pongono come consorzi di cittadinanza, sindacalismo territoriale e metropolitano, l'associazionismo civico che coinvolge ceti e classi diverse, di nazionalità diverse, a difesa dei diritti fondamentali delle persone, dei beni comuni, a difesa del territorio, di un teatro, della creazione di economie alternative. Questa era l'idea del “sindacato delle origini”. Che organizzava nelle camere del lavoro, nelle società di mutuo soccorso, nelle case del popolo queste vaste masse eterogenee di lavoratori indipendenti, artigiani, professionisti, proletari e borghesi, la maestra di scuola, l'operaio, il prete, l'avvocato. Ecco io credo che chi fa sindacato oggi dovrebbe vivere in un cowork, in un'industria recuperata, in un teatro occupato come il Valle o in un atelier come l'Angelo Mai a Roma.

5) Che cos'è oggi il conflitto?

Il conflitto non va costruito solo nel luogo di lavoro, impresa sempre più ardua in una produzione delocalizzata, precarizzata, con appalti e subappalti. È fondamentale ricostruire legami tra le cittadinanze in una società fluida, eterogenea, risentita. Una base sociale così segmentata e plurale era già presente alla fine dell'800 e l'inizio del '900. Allora si trovò il modo di reagire e creare un piano diverso, una società alternativa, critica, dov'era possibile condurre una forma di vita diversa da quella dominante. Si mettevano insieme tutte le forme di attività operose attraverso la risposta ai bisogni. Non era quindi aggregazione solo per ideologia, ma era la risposta pragmatica alla necessità di costruire un altro tipo di società, che sostituisce il legame irenico del siamo tutti uguali con il riconoscimento che il conflitto è utile per ottenere migliori condizioni di vita.

6) Continuando sulla rappresenta, ma venendo a quella politica: se si destruttura il sistema produttivo e si riconfigura la società, non è necessario un adeguamento della sinistra, che invece pare continuare a cercare di “abbattere il padrone” o “conquistare il palazzo” (quando va bene)?

In Italia non esiste una sinistra politica, e non esisterà almeno per la prossima generazione. In compenso esistono dei rottami culturali che si riflettono nei comportamenti e nell'immaginario. L'assalto alla zona rossa, o al palazzo, ne è una delle controprove. La credenza nell'evento che porterà al riscatto dell'umanità. È un'immaginario sovranista. L'idea che esiste un mostro leviatanico ne è il corollario, che sia lo stato o la classe borghese, o anche la casta dei politici, che il populismo di sinistra (Il Fatto, Santoro e i suoi figliocci tv, Stella e Rizzo) usano per nascondere il vero problema: qui c'è una guerra dei dominanti contro i dominati. L'alternativa? Creare una forza. Senza forza puoi stare certo che continueranno a prendersela contro quei fannulloni dei politici. Hai presente 1984 di Orwell? Ogni giorno al popolo viene riservata un'ora di odio contro il nemico del momento. Tutti a urlare buuuu e poi tornano a fare i cani alla catena. Ecco la casta serve a questo. Cani alla catena.
Penso che chi viene suggestionato da questi rottami culturali non andrà molto lontano. E resterà nella depressione, nella rabbia del cane alla catena, che è poi in fondo odio contro gli altri. Credo che il primo obiettivo delle lotte del conflitto sociale e politico debba essere quello di costruirsi come parte. Per farlo, in un conflitto, c'è bisogno di legami, di relazioni, di passioni, di cultura, di costruire in maniera strategica attenta e anche affettiva una forza. Questa forza di cui parlo non è la violenza. Basta con queste idiozie. Leggiamo Simone Weil. Non ci si deve contrapporre alla figura mitologica del nemico, ma volgere lo sguardo a chi è più vicino. A quell'intimo, a quel corpo, a quel mistico della forza che nasce dall'incontro, dall'amore, dal conflitto. Oggi si rischia invece di confondere chi è più prossimo col nemico.
La logica del rottame culturale, per citare De Martino, viene anche dal neoliberismo che tutto legge come competizione. Oggi però si compete per il nulla, non per il denaro, non per lo status: non c'è niente da conquistare. C'è una sindrome che porta a considerare vivo ciò che è morto, mentre non si vuole capire cosa vive intorno a noi. È un problema di sguardo: per costruirsi come parte in un conflitto bisogna cambiare questo.

7) Tu parlavi delle forme di mutualismo ed autorganizzazione dei lavoratori, che però in questo contesto rischiano di essere travolte dalla crisi, con le misure di austerità che riducono progressivamente sempre più diritti. Non c'è necessità di tenere aperta la questione del ruolo dello stato e quindi del welfare?

Parto da una questione fondamentale: non credo che abbia senso parlare dello stato in sé.in un momento come questo emergono fra l'altro la crisi assoluta di sovranità e autorità da parte di quest'ultimo. Il punto è l'universalità del welfare, da riformare, e della vita da vivere.
Il conflitto che c'è oggi, in politica, è sull'universalità delle prestazioni sociali, assicurative, preventive, che garantiscano e tutelino chi produce, chi non produce e chi non intende produrre. Il conflitto e sulla riproduzione della vita e la creazione di nuovi modi di condotta in una società di indebitati, disoccupati e di lavoratori indipendenti.
Se riuscissimo ad arrivare alla proposta di forme concrete che rispondano a questa esigenza, avremmo un'alternativa con cui contrastare le politiche di austerità. Il punto è riuscire ad essere all'altezza di questa sfida.

8) Come definisci la categoria di "quinto stato"? Come si fa a marcarne la differenza rispetto agli altri stati? Ad oggi pare esserci il rischio di renderla un calderone in cui mettere un po' tutto, un'indistinta nebulosa.

Il quinto stato è la condizione di chi vive da apolide tra lavori e non lavori, tra l'appartenenza a uno stato e la mancanza di riconoscimento dei diritti sociali. Nel quinto stato c'è chi vive la condizione di chi non ha la cittadinanza, pur avendone una. E deve rispettare le regole dello stato, con i contributi da versare senza diritto a un reddito o una pensione. E così per i migranti. Non avere diritti riconosciuti, ma doveri da rispettare: questa è l'esperienza maggioritaria che si andrà a consolidare nell'Unione Europea e negli Stati Uniti.
Il quinto stato è un movimento, libera e fluida aggregazione tra ceti e classi, che non possono essere ridotte a ceto medio, né a una categoria del lavoro salariato, né al possesso della partita Iva. Il quinto stato è la precondizione con la quale si può parlare di uno stato, un ceto o una classe, ma non corrisponde a nessuno di questi tre elementi, che costituiscono il senso della vita sociale oggi.
Il quinto stato deve essere quel movimento che permette di riconoscersi come soggetti che svolgono attività operose in diverse categorie giuridiche del lavoro e in diverse posizioni sociali.
Al di là delle definizioni l'esperienza moderna e contemporanea del lavoro, così come della cittadinanza, si dà in una pluralità di appartenenze, con diversi ruoli e compiti spesso vengono svolti contemporaneamente dallo stesso soggetto.
La rappresentanza politica, per non parlare di quella sindacale, continua invece ad essere monodimensionale: oggi è più che mai evidente che questo non funziona e che si è raggiunto un punto di non ritorno.

Immagine tratta da: www.internetfestival.it

Ultima modifica il Lunedì, 25 Novembre 2013 09:46
Beccai

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