Tradizione di pensiero tutta Occidentale, l’orientalismo che ha trasformato in una disciplina istituzionalizzata ed erudita, scientifica ed autorevole, quello che V.G. Kiernan definiva “il sogno a occhi aperti collettivo dell’Europa sull’Oriente”.
Non vi è un campo simmetrico ad esso, non esiste alcun occidentalismo: sapere eccentrico dunque, sapere che è il prodotto di rapporti di forza squilibrati e che considera l’est incapace di definire se stesso: «loro non possono rappresentarsi, devono essere rappresentati».
L’oriente è un oggetto passivo e inerme a disposizione del soggetto occidentale che lo studia, lo analizza, lo viviseziona e lo interpreta. Ogni reciprocità o dialettica è esclusa. Edward Said ce lo ha spiegato su un saggio seminale, che non ha mai spesso di far parlare di sé ma che ora in un clima culturale di egemonia delle destre rischia di finire nel dimenticatoio.
“Orientalismo” usciva 40 anni fa contribuendo notevolmente a quella che ben presto sarebbe stata l’esplosione della critica postcoloniale, destinata per un certo periodo a contrastare culturalmente la dottrina egemonica, quell’orientalismo che aveva plasmato il modo in cui l’Occidente ha sempre guardato a ciò che ha voluto considerare come totale alterità e screditare profondamente: l’Est.
Dalle tragedie greche, passando per i diari di viaggio degli avventurieri settecenteschi, per i racconti d’avventura e le conquiste coloniali dell’Ottocento, fino alle istituzioni accademiche contemporanee in area studies, la narrazione orientalista si è alimentata di miti, leggende, studi, analisi, interpretazioni che hanno plasmato una immagine dell’Oriente sostanzialmente monolitica nei suoi elementi strutturali.
Cambiano le metodologie, gli approcci, le specializzazioni (orientalismo manifesto) ma tende a conservarsi un’ostinata e inflessibile visione screditata dell’Oriente (orientalismo latente). La polemica di Said non vuole essere una difesa dell’Oriente in quanto tale, ma una critica nei confronti di ogni forma di pensiero che vuole ridurre culture, etnie, nazioni, tradizioni ad un'unica categoria concettuale valida universalmente.
Said rifiuterà sempre di farsi paladino o portavoce dell’“oriente” proprio perché per lui non esiste alcun oriente (né alcun occidente).
Insistendo giustamente nell’affermare l’impossibilità di ridurre la complessità ed un insieme reificato di concezioni, Said denuncia che
«uno degli sviluppi importanti nell’orientalismo nel secolo scorso consistette nell’organizzare una serie di concetti essenziali intorno all’Oriente – la sensualità, la tendenza al dispotismo, uno stile di pensiero sempre impreciso e spesso illogico, il rifiuto del progresso – in una struttura coerente e autosufficiente. Da quel momento, per uno scrittore, era sufficiente l’uso del termine orientale per indicare al lettore uno specifico insieme di informazioni; tali informazioni sembravano moralmente neutrali e obiettivamente valide, sembravano possedere uno status epistemologico eguale a quello della cronologia storica o dei dati biografici».
Anche qualora gli studi non prendano una piega smaccatamente razzista, l’approccio resta sempre il medesimo: all’Oriente manca sempre qualcosa, sia essa la democrazia, la libertà, la tolleranza, la modernizzazione, lo spirito imprenditoriale.
L’Oriente è descritto in funzione di ciò che gli manca per essere come l’Occidente, di per sé migliore. Tutte caratteristiche molto spesso dedotte dai testi classici, come se per comprendere la cultura e la società europea usassimo unicamente la Bibbia o la Divina Commedia.
L’Oriente è così ridotto a un mero universo testuale che l’orientalista interpreta per poter determinare cosa è orientale una volta per tutte. Dell’Oriente si ammira il suo periodo classico al quale si vuole contrapporre il degrado del suo presente. L’intento è chiaro: l’Oriente ha bisogno dell’Occidente, della sua razionalità, della sua amministrazione, della sua cultura più progredita.
L’importanza della ricerca di Said sta nello spiegare in modo convincente l’impossibilità di separare l’Orientalismo dall’Imperialismo.
Lo studio dell’oriente non può essere concepito come un sapere oggettivo o come un interesse culturale puramente disinteressato.
Fortemente influenzato da Michel Foucault, Said vede l’Orientalismo come “discorso” che plasma l’Oriente a partire da specifici interessi politici ed economici: potere/sapere dunque, dato che nessuna pratica di egemonia politica ed economica può prendere piede senza uno studio che prepara il terreno all’impresa imperiale e colonizzatrice e che la giustifichi moralmente. L’Oriente incapace di innovazione, l’Oriente monolitico, l’Oriente arretrato è l’Oriente che ha bisogno del mondo occidentale per progredire. Quelle concezioni di fondo che hanno definito i contorni di uno dei grandi classici del pensiero orientalista, la celebre Description de l'Égypte, monumentale impresa che ha visto coinvolti circa 160 studiosi e nata sull’impulso delle conquista napoleonica dell’Egitto, sono le stesse che si ritrovano nei testi orientalisti contemporanei:
«ricondurre una regione dalla presente barbarie alla precedente, classica grandezza; insegnare (per il suo stesso bene) all’Oriente i metodi dell’Occidente progredito; subordinare, mettere in secondo piano la forza militare per mettere in risalto un grandioso progetto di conoscenza, da acquisire nel quadro del proprio predominio politico in Oriente; teorizzare l’Oriente, dargli forma, identità, definizione, col pieno riconoscimento del suo posto nella memoria storica, della sua importanza nella strategia imperiale, del suo “naturale” ruolo di appendice dell’Europa[…]; da ogni dettaglio osservabile trarre una generalizzazione e da ogni generalizzazione una legge immutabile sulla natura, il temperamento, la mentalità i costumi e i tratti costituzionali degli orientali; ma soprattutto tramutare la realtà viva in materia libresca, possedere o credere di possedere la realtà principalmente perché nulla in Oriente sembra potersi opporre efficacemente alla forza dell’Occidente: sono questi i tratti della proiezione orientalista compiutamente realizzati nella Description de l'Égypte».
C’è stato un momento, in cui sembrava che qualcosa potesse cambiare.
Said vedeva nelle opere di autori a lui contemporanei come l’antropologo Clifford Geertz o gli storici Abdel Malek e Roger Owen, un tentativo di rifiutare ogni compromesso con le istituzioni imperialiste e di liberarsi dagli impacci ideologici più asfissianti.
Del resto, proprio Orientalismo stava contribuendo sul finire degli anni settanta allo sviluppo della critica e degli studi postcoloniali, interessati a fornire un immagine molto diversa delle culture e dei popoli non occidentali. La crisi dell’Orientalismo tradizionale andò di pari passo con l’incapacità dei vecchi modelli di leggere la realtà storica.
I sommovimenti nel mondo islamico, la crescita dei movimenti di liberazione nazionale in molte ex colonie già dalla prima metà del Novecento, erano interpretati dal vecchio orientalismo come rigurgiti tradizionalisti o un ritorno a dogmatismi religiosi, senza comprendere le reali variabili economiche, socio-politiche e culturali che avevano nel frattempo sconvolto e profondamente mutato le società orientali, che per l’ortodossia orientalista rimanevano invece statiche e incapaci di evoluzione.
Il crollo dell’Unione Sovietica ha però aperto le strade a una nuova e massiccia offensiva neoimperialista statunitense nel mondo che richiedeva disperatamente una giustificazione ideologica.
Così, parallelamente allo strutturarsi di una globalizzazione sotto l’egemonia dell’Impero statunitense, il vecchio orientalismo, con un nuovo lifting e coadiuvato da specifiche istituzioni politiche e culturali è tornato rapidamente in auge, riprendendosi il suo ruolo egemonico nelle accademie.
Se è vero che esistono ancora oggi approcci critici che vengono dalla tradizione marxista e postcoloniale, si deve constatare la fortuna che il concetto di “scontro di civiltà” di Huntington o di “fine della storia” di Fukuyama hanno avuto nel giustificare l’espansione politica ed economica dell’occidente.
La “guerra al terrorismo”, sciocchezza enormemente meno raffinata dal punto di vista teorico di qualsiasi pseudo-teoria razzista ottocentesca, è stato il mantra con cui sono state condotte operazioni predatorie in varie aree del mondo.
Le nuove tecnologie informatiche, il sistema mass-mediatico e la nuova cultura consumistica, come già avvertiva profeticamente Said, avrebbero contribuito più a diffondere concezioni stereotipate e false piuttosto che ad accrescere la nostra consapevolezza della diversità: più l’Oriente è vicino, più è facile mistificarlo.
Basta uno sguardo distratto ai contenuti più epidermici del dibattito pubblico di qualsiasi paese occidentale per rendersi conto di quanto certi concetti abbiano fatto presa: identificando l’islam nel nemico, sono tornati in auge i vecchi stereotipi essenzialisti del vecchio orientalismo colonialista: l’est come minaccia, l’est irrazionale (fondamentalista), l’est intollerante e antidemocratico, l’est immutabile.
Ecco allora spiegata l’urgenza di riprendere in mano un saggio che svelando l’intreccio che esiste fra sapere e potere, fra sforzo interpretativo e interesse politico, fra conoscenza e dominazione, ci obbliga a fare un attento esercizio di messa in discussione delle categorie più consolidate.
In un epoca in cui la capacità di decentrare lo sguardo, di mettersi nei panni dell’altro e di comprensione della diversità sono sempre meno considerate importanti nella vita e utili per il sistema economico, riprendere in mano 40 anni dopo Orientalismo di Edward Said resta un antidoto necessario alle barbarie culturali dei nostri tempi.
Immagine di copertina liberamente ripresa da wikimedia.org, copertina del libro liberamente ripresa da www.feltrinellieditore.it