Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.
L’ultimo intervento della giornata dedicata ai paesaggi, in particolare nel Dittico dei Duchi di Pier della Francesca e nella Gioconda di Leonardo da Vinci, organizzata all’Istituto francese, è provenuto da due ricercatrici, Rosetta Borchia, artista e naturalista e Olivia Nesci, Professore di Geomorfologia, presso il Dipartimento di Scienze Pure e Applicate Sezione "Geobiologia, Patrimonio Culturale e Analisi del Paesaggio", dell'Università di Urbino. Costoro si autodefiniscono, al di là dei rispettivi titoli, “delle cacciatrici di paesaggi”. Il loro lavoro è durato dieci anni e l’intento di questo progetto era cercare prove materiali della realisticità, della topografia e della fisicità dei paesaggi che appunto adornano le suddette opere. Si tratta cioè di paesaggi fisici, reali, riconoscibili in un determinato territorio. Tale individuazione è iniziata, raccontano
L’associazione Soropstimist International, “organizzazione per donne di oggi impegnate in attività professionali e manageriali” allo scopo di attuare il “potenziale individuale e collettivo” delle donne aiutandole a realizzare le loro aspirazioni e avere pari opportunità, insieme con l’Associazione Filosofica Italiana, che intende “promuovere la ricerca e la diffusione della cultura filosofica, anche attraverso il confronto con altri saperi” hanno realizzato, venerdì 15 aprile, un’interessante giornata di studi presso la Sala Ferri del Gabinetto Viessiuex, resa possibile anche grazie al patrocinio del Comune di Firenze. Il titolo del convegno era “Nel nome di Gaia. Il pensiero femminile per
Il semiologo Paolo Fabbri esordisce delucidando la possibile etimologia della parola francese paysage, da cui proviene il nostro italiano paesaggio. Il primo uso del termine paesaggio si ritrova in una lettera di Tiziano a Filippo II di Spagna, nel 1552.
Secondo un’ipotesi, paysage risulterebbe dalla coniugazione di pays e image. Indipendentemente dal fatto che questa ipotesi colga nel segno o meno, l’assemblaggio dei due termini sembrerebbe adeguato, dato che il paesaggio sarebbe l’unione di paese (da intendere probabilmente come spazio in senso lato) e di immagine. Se ciò fosse vero, dovremmo allora porci anche il problema della parola visage (viso), che a questo punto potrebbe essere l’“assemblaggio” di vis e image (immagine del viso), oppure anche di vis e paysage (paesaggio del viso), riscontrando così una stretta vicinanza tra visage e paysage, a differenza degli italiani viso e paesaggio, linguisticamente distanti.
L’Istituto francese di Firenze continua a stupirci con le sue molteplici, interessanti iniziative. Ieri, 11 aprile si è parlato di paesaggi, in particolare nel dittico di Urbino (1465-1472 circa) di Piero della Francesca, che ritrae il Duca Federico da Montefeltro e la consorte Battista Sforza e della memorabile Gioconda di Leonardo da Vinci. Il titolo della conferenza, curata da Isabelle Melliez, direttrice dell’Institut français di Firenze e da Maria Cristina Turchi, responsabile della promozione culturale all’estero della Regione Emilia Romagna, era infatti “Paesaggi di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci. Alla ricerca dei paesaggi di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci”. Il presupposto di partenza è il seguente: si tratta di paesaggi immaginari, non riconoscibili o sono paesaggi fisici, realmente esistenti o esisti? Possono cioè essere individuati topograficamente? Questo è stato l’esperimento di Rosetta Borchia e Olivia Nesci, la prima studiosa di arte e naturalista e la seconda professoressa di geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze pure e Applicate dell’Università degli Studi di Urbino, che dopo dieci anni di dettagliata e minuziosa ricerca sono riuscite a rintracciare i misteriosi paesaggi che svettano sullo sfondo delle figure ritratte dei due quadri succitati.
Prima di ascoltare la spiegazione del lungo progetto delle due ricercatrici, sono intervenuti Neville Rowley, esperto di Piero della Francesca, e il semiologo Paolo Fabbri. Il primo insegna al Louvre e presto sarà nominato Conservateur pour l’art italien des XIV e XV siècles al Gemäldegalerie e al Bode Museum di Berlino. Il secondo insegna Semiotica della Marca presso l’Istituto di Comunicazione dello IULM (Istituto Universitario di Lingue Moderne) a Milano e Semiotica presso la Facoltà di Scienze Politiche della LUISS di Roma.
Neville parte dalla radicale affermazione pronunciata (anche se ancora l’attribuzione non è certa) nel 1839 da Hyppolite Delaroche la prima volta che vide un dagherrotipo, intorno agli anni ’30 dell’’800: “aujourd’hui la peinture est morte”. Un’affermazione molto forte, drastica, che profetizza la morte dell’arte in quanto, secondo il pittore francese, di lì a breve essa avrebbe ceduto il posto alla fotografia che l’avrebbe completamente soppiantata. Infatti la fotografia è capace di una captazione esatta del reale che alla pittura, per quanto possa avvicinarsi alla realtà, mancherà sempre, non potendo rappresentare in maniera perfettamente fedele la realtà allo stesso modo della fotografia. Fortunatamente le cose sono andate diversamente rispetto alla previsione di Delaroche, che di fronte a quel primo dagherrotipo che rappresentava una città urbana, sosteneva che nessun pittore avrebbe potuto catturare quei dettagli, quel gran boulevard du Temple (prima dell’intervento urbano di Huysman che trasformò radicalmente la struttura cittadina di Parigi), quelle finestre delle case, quella strada, etc. Il dagherrotipo in questione porta la “firma” di uno degli inventori della fotografia, Louis Daguerre (da qui il nome dagherrotipo) ed è significativo anche per un’altra particolarità: per la prima volta nella storia della fotografia fa capolino una presenza umana. Si tratta della minuscola figura di un uomo intento a farsi lustrare le scarpe, del tutto inconsapevole di diventare la prima persona vivente ad essere immortalata in una fotografia. L’immagine fu scattata tenendo un tempo di circa sette minuti e fu quasi un piccolo miracolo che quell’uomo avesse tenuto la posa per un abbastanza ampio lasso di tempo, mentre intorno a lui tutto scorreva veloce. Da lì in poi diversi fotografi si lanciarono in ritratti e autoritratti, come Hyppolite Bayard, che si riteneva il vero inventore della fotografia, ma la cui fama fu oscurata dal più noto Daguerre.
Negli anni seguenti però i fotografi cominciano a interessarsi maggiormente ai paesaggi, benché ritenuti più difficili in quanto fluidi, dinamici, cromaticamente cangianti a causa della variazione della luce. Per quanto la fotografia abbia apportato un notevole cambiamento circa la visione e la presa del reale, la pittura non ha smesso di incantarci o di apparire altrettanto vera. Non è infatti raro che certi paesaggi dipinti possano esser considerati come dei veri e propri paesaggi topografici. L’ “Impression du soleil levant” di Claude Monet (dipinto che ha dato il nome al movimento di cui l’artista faceva parte, l’impressionismo) è stato ad esempio oggetto di un interessante studio degli ultimi anni. Nonostante l’impressionismo (e anche il quadro in questione) rappresentino il contrario rispetto alla pittura realista, essendo una rappresentazione più intima e soggettiva del reale, reso attraverso colori e pennellate che riflettono lo stato d’animo dell’artista, uno studioso americano, grazie a dei particolari studi (soprattutto della luce) è riuscito a trovare la data, la veduta e persino l’ora esatta in cui Monet avrebbe dipinto quel paesaggio nella città de “Le Havre”, in Normandia. Secondo lo studioso, Monet avrebbe dipinto il quadro il 13 novembre del 1872 e precisamente alle 7.22 del mattino. Questo simpatico esperimento, indipendentemente dal fatto se lo studioso ci abbia azzeccato o meno, ci insegna a comprendere come anche quei quadri considerati maggiormente “immaginari”, poco veristi, catturino comunque la realtà, immobilizzandola in un momento irripetibile, unico, quasi come una fotografia. Tra l’altro non è da dimenticare quanto Monet fosse minuziosamente attento a ogni infinitesimale cambio di luce, tanto da rappresentare spesso lo stesso soggetto ma in momenti diversi della giornata.
Facciamo qualche passo indietro nel tempo. Nella cappella degli Scrovegni (detta anche “dell’Arena” o “dell’Annunciata”) di Giotto, a Padova, vediamo due finte cappelle, a sinistra e a destra dell’altare, che sono due straordinari esempi di trompe l’oeil che spalancano lo spazio: è una pittura del vuoto, quasi esistenzialista o metafisica per un occhio moderno. In realtà Giotto non ha indagato molto il paesaggio topografico, sono stati più i suoi seguaci a interessarsi a quest’ultimo. Uno di questi è Ambrogio Lorenzetti, pittore trecentesco tra i maestri della scuola senese. I suoi colli senesi, che si affacciano nei dipinti della Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena,, sono un esempio sorprendente di quasi paesaggio topografico. Si nota un ricercato e voluto effetto di corrispondenza tra il reale e il paesaggio dipinto, per quanto resti vero che i colli non siano ben riconoscibili, dato che il paesaggio è comunque molto idealizzato.
A dir la verità è molto difficile trovare il primo vero esempio di paesaggio topografico nella storia dell’arte.
Uno di questi lo si potrebbe riscontrare,cento anni dopo rispetto ai colli di Lorenzetti, in una pala del Beato Angelico, la famosa Annunciazione di Cortona, dipinta intorno al 1430 e che si trova nel Museo Diocesano dell’omonima città toscana, in provincia di Arezzo. Nella scena della visitazione (nella pala sotto l’Annunciazione) vi è un’ampia apertura di paesaggio, che a tutta prima appare sospesa in un’atmosfera sognante ma che è ben ravvicinabile alla reale veduta di Cortona che si può avere non appena usciti dal Museo Diocesano. Il paragone viene molto istintivo, anche se non si può parlare, per questo splendido dipinto, di una sorta di pre-fotografia. L’intento dell’Angelico era quello di rappresentare una storia santa introducendola in un paesaggio quotidiano, così che il fedele potesse riconoscere la terra santa in una terra di tutti i giorni.
Veniamo ai protagonisti della conferenza. Piero della Francesca e Leonardo Da Vinci. Il paesaggio che si staglia alle spalle delle due grandi figure di profilo (Montefeltro e consorte) è un paesaggio molto realistico, così come quello che campeggia alle spalle della Gioconda. Si tratta di due ritratti non due scene sacre e sicuramente vi è uno strettissimo legame, un parallelismo, tra le figure rappresentate e i paesaggi al loro sfondo.
Un altro esempio di paesaggio molto realistico lo si ritrova nel Tondo dell’Adorazione dei Magi di Domenico Veneziano, commissionato da Piero de’Medici nel 1438. Veneziano fu maestro di Piero della Francesca che lavorò con questi intorno al 1449. Secondo uno studioso dell’arte, Fiocco, nel quadro di Veneziano si intravederebbe il lago di Garda. Ciò per dire come molti paesaggi dipinti diano vita ad accurate indagini per trovare il corrispettivo reale di quegli stessi paesaggi.
Un altro quadro che Rowley prende in considerazione è una pala di Piero del Pollaiolo, fratello del più famoso Antonio. Si tratta di un’annunciazione, ubicata a Berlino dal 1800 e che presenta una fuga prospettica molto ampia. I dubbi su questa pala sono molti perché non se ne conoscono né le fonti né la committenza né l’originaria destinazione, ma il paesaggio che si vede è anch’esso molto realistico.
Uno dei quadri più interessanti dal punto di vista del paesaggio è “la madonna del cancelliere Rolin” di Jan Van Eyck, databile intorno al 1435 e sito al Museo del Louvre di Parigi. Si tratta di uno straordinario quadro fiammingo: il ritratto dell’uomo (il cancelliere Rolin) è molto fedele e il paesaggio alle spalle dei due personaggi è ricco di minuziosi dettagli. A destra compare una città moderna, gotica, mentre a sinistra una città più medievale. La catena di montagne sul fondo sembra quella delle Alpi. Van Eyck probabilmente si recò in Italia diverse volte. Il pittore, dice Rowley era come un fotografo perché nessuno a quell’epoca sapeva dipingere in maniera così realistica e ricca di dettagli. Uno studioso olandese, Hugo Van Der Velden, ha riconosciuto un paesaggio topografico,fisicamente esistente, in una miniatura sempre di Van Eyck, non però nella scena principale, bensì in quella che compare al di sotto, dove sono presenti tre chiese. Secondo lo studioso esse rispecchierebbero perfettamente un insieme di chiese che si trova a Delft, nella provincia dell’Olanda meridionale. Tutto ciò fa comprendere come la frontiera tra pittura o miniatura o fotografia non sia così netta. Non si può confinare la pittura nel solo mondo dell’immaginario, considerandola come mero frutto della mente umana e del genio artistico (per quanto sia anche questo), ed elevare la fotografia a unica arte capace di captare perfettamente il reale. Sicuramente la differenza tra le due è forte, ma la dicotomia non deve essere così stringente, dato che, come abbiamo visto, si trova un’ampia fetta di realismo anche nella pittura, prima ancora della nascita della fotografia. Così come è vero che al contempo, molte fotografie che appaiono come perfette prese o captazioni della realtà, risultano poi essere dei fotomontaggi. Dunque il confine tra ciò che è realistico e ciò che è immaginario, tanto in pittura quanto in fotografia, si fa più labile e sfumato rispetto a quanto possiamo esser portati a ritenere.
La nominata città di Delft è protagonista anche di un altro bellissimo dipinto: “La veduta di Delft” di Jan Vermeer, che sembra davvero una fotografia, tanto appare reale e fitta di particolari, grazie alla sapiente maestria dell’uso del colore e dello studio della luce da parte dell’artista olandese. Questo quadro è famoso anche per il fatto che Proust lo ha pienamente esaltato in un volume della sua monumentale Recherche, “La prigioniera”. Si tratta di un episodio molto struggente, fortemente commovente, emozionante. Lo scrittore Bergotte si reca a una mostra di quadri che lo annoia profondamente fin quando non si imbatte nel dipinto di Vermeer, “il più bel quadro del mondo”. Di fronte a quel dipinto e in particolare “al piccolo lembo di muro giallo” tutto gli appare chiaro, trasparente, cristallino. Tutto torna ad avere un senso: “Passò davanti a parecchi quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e inutilità di una pittura così artificiosa, che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia o di una semplice casa in riva al mare. Alla fine, fu davanti al Vermeer, che ricordava più smagliante, più diverso da tutto quanto conoscesse, ma nel quale, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, e che la sabbia era rosa, e – infine – la preziosa materia del minuscolo lembo di muro giallo”. Più tardi Bergotte, uscito dalla msotra, si siederà su una panchina, e lì vi morirà.
Spesso, conclude Rowley, i pittori tendono a mettere nei propri quadri dei personaggi che sembrano quasi una transizione di noi stessi, e conferiscono una dimensione umana, o umanistica, ai paesaggi che dipingono.
Esempio emblematico è “il viandante sul mare di nebbia” di Caspar Friedrich, dipinto che esprime per eccellenza il sentimento del sublime di matrice kantiana. Anche qui si tratta di un paesaggio topografico: le montagne svettanti sono infatti individuabili. Il personaggio di spalle che si erge con i capelli mossi dal vento, maestoso e imponente dinnanzi all’occhio dello spettatore non funge da sola barriera tra noi e il paesaggio davanti a lui, ma diventa anche una finestra verso quel paesaggio, come fosse quasi uno specchio che ci riflette la potenza e il realismo sconvolgente di quello scenario impetuoso, di quello spazio glaciale e roccioso avvolto dai fumi di nebbia, che sembra davvero un mare pieno di scogli.
Sempre nell’ambito del convegno “Magia dell’arte, arte nella magia” [vedi articolo precedente], presso l’Istituto Francese di Firenze, il professor Fulvio Cervini, che insegna storia dell’arte medievale presso l’Università degli Studi di Firenze (dip. SAGAS), si è concentrato sulle leggende edilizie di epoca medievale – rielaborate in gran parte verso l’ottocento – intitolando la propria relazione “Edifici incantati e costruttori diabolici. Tracce medievali per un’antropologia dell’architettura”.
Molti sono i casi di sepolture all’interno di edifici, chiese, ponti etc., in modo che l’incorporazione del defunto entro una parte dell’edificio potesse garantirne la stabilità e la durata eterna, quasi ne diventasse il protettore o il custode soprannaturale.
Nell’ambito del suggestivo convegno “La magia dell’arte, l’arte nella magia nel Medioevo e Rinascimento”, organizzato dall’Istituto francese in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine, con il SAGAS (dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo) dell’Università degli Studi di Firenze, con il Centre d’Études Supérieures de la Renaissance (CESR) e l’Université Fançois Rabelais de Tours, molto si è parlato di magia, di alchimia, di amuleti, gemme magiche, stregoneria, influenze astrali , “signa”, macchine sonore e tanto altro ancora.
Il convegno, inaugurato giovedì 31 marzo dalla lectio Magistralis di Attilio Mastrocinque sul fascino e l’origine di amuleti e gemme gnostiche, e conclusosi sabato 2 aprile, ha visto susseguirsi interventi da parte di docenti, ricercatori, e dottorandi italiani e francesi esperti e appassionati di magia, esoterismo, iconografia alchimia, misteri isiaci e altro ancora.
Uno degli interventi, di Mino Gabriele, professore di iconografia e iconologia e di Scienza e filologia delle immagini presso l’Università degli Studi di Udine, si è concentrato sulla “Magia e alchimia nei simboli della Porta Ermetica di Roma”.
Secondo l’esperto di iconografia, la Porta Ermetica è la sintesi perfetta di quelle forze ed energie spirituali, esoteriche, alchemiche, ricorrenti dall’antichità fino ai tempi moderni. Gabriele tende a sottolineare come oggi la nostra conoscenza e la nostra mentalità, più scientifiche, selettive, parcellizzate o persino “frantumate” abbiano perso quella visione, che dall’antichità fin verso il Rinascimento, teneva insieme saperi diversi e, per noi moderni, opposti tra di loro. Irrazionale (come chiameremo noi tutto ciò che è attinente alla magia, alla stregoneria, alla necromanzia, all’alchimia o all’astrologia) e razionale andavano a braccetto. Filosofi, scienziati, matematici, astronomi erano quasi sempre interessati o esperti di influenze astrali, di simboli alchemici, di magia ed esoterismo. Nel “De Architettura” di Vitruvio ad esempio, si legge che l’architetto deve essere anche un astrologo, un geologo, un archeologo, a rimostranza che esisteva una visione unitaria e chiasmatica delle varie discipline. Porfirio, ad esempio, nonostante sia stato uno dei più importanti logici dell’antichità, riusciva a combinare perfettamente la propria visione matematica e logica del mondo con l’interesse per i simulacri e le pratiche alchemiche. Persino i personaggi più insospettabili, o che noi conosciamo grazie alle loro scoperte matematiche, astronomiche, geometriche, scientifiche in generale, erano in realtà molto legati ai saperi magici e pure un po’superstiziosi. L’alchimia, l’astrologia, la magia, erano considerati saperi di portata scientifica.
Gabriele esordisce raccontandoci l’episodio dell’Obelisco egiziano (secondo Plinio originario della città di Heliopolis) portato a Roma, da Alessandria d’Egitto, da Caligola nel 40 d.C. e collocato sulla spina del Circo di Nerone. Quando, verso la metà del ‘500, grazie a Papa Sisto V (che realizzò il progetto che già era di Papa Nicolò V – 1450 circa), esso fu trasferito in Piazza San Pietro, fu indetta un’immensa processione organizzatissima e accompagnata da un rito di esorcismo con preghiere caratterizzate dal sanare l’obelisco da eventuali demoni pagani che avrebbero potuto possederlo. L’obelisco che, come ci insegna Plinio, era simbolo dei raggi solari, diventa ora simbolo cristico, tanto che sul dado che lo sostiene vi è incisa un’iscrizione in cui si legge: “l’obelisco dedicato dagli antichi ad empio culti, e purgato da impura superstizione, ora più giustamente e più felicemente viene dedicato da Sisto alla Croce Invitta”.
Anche ai nostri giorni restano comunque residui di pratiche apotropaiche. C’è tutto un mondo che per quanto possiamo oggi confinare nell’irrazionale o viverlo in maniera quasi atarassica, indifferente, continua a pullulare, sotto o in parallelo alla nostra razionalità scientifica e selettiva. Moro stesso, ad esempio praticava sedute spiritiche a Roma. Insomma, la lunga tradizione magica, esoterica, e misterica è una tradizione ininterrotta e forse mai del tutto destinata a scomparire, sebbene vissuta e interpretata in maniera molto diversa.
Ma veniamo alla nostra Porta magica. Siamo a Roma nel 1600. Anche il papa di allora, Clemente VII, era un noto praticante di alchimia. L’alchimia era una sorta di proto-chimica. Ovviamente non c’erano ancora le basi matematiche e prettamente scientifiche sviluppatesi più tardi, ma essa riguardava lo studio della trasformazione dei metalli, degli elementi vegetali e della costruzione delle armi. Evento di radicale importanza, in questo periodo, fu l’arrivo di Cristina di Svezia a Roma, regina protestante che però si convertì al cattolicesimo, cosa che rappresentava un evento straordinario e mirabile per i cattolici dell’epoca. Così, quando costei arrivò a Roma, Papa e vescovi l’accolsero con estrema devozione. Cristina era tra l’altro una donna dotata di un’intelligenza sorprendente, oltre ad essere dottissima e coltissima. Era anche una donna molto libera dal punto di vista della sessualità e soprattutto con un tenore di vita dispendiosissimo. La regina amava circondarsi dei chimici, scienziati, filosofi, astronomi, artisti e musicisti più noti dell’epoca, che invitava nei laboratori sparsi nelle proprie tenute e di cui finanziava numerosi progetti, tra cui l’edizione greca e latina (pubblicata a Roma nel 1630) del grecista Holstenius della porfirea Vita di Pitagora, di cui lei era molto appassionata. In particolare si dedicava molto all’alchimia, mossa soprattutto dal desiderio quasi ossessivo di scoprire il modo per trasformare i metalli in oro. Con una portata di intelligenza, cultura e libertà tali, fu piuttosto scontato che intorno a lei si formasse anche a Roma una corte di matematici, filosofi, artisti, scienziati. Tra questi, alla corte di Cristina, c’era anche Massimiliano Palombara, marchese di Pietraforte e noto a Roma per la sua passione per l’esoterismo e le pratiche magiche, nonostante anch’egli fosse comunque poeta e studioso dei maggiori trattati scientifici dell’epoca. Costui fece edificare nella sua residenza – villa Palombara – presso la campagna orientale romana, sul colle Esquilino, la succitata Porta Alchemica, tutt’oggi collocata in Piazza Vittorio, e che è l’unica porta sopravvissuta delle cinque che contornavano la villa, anch’essa piena di epigrafi alchemiche e scritte simboliche di Palombara, a testimonianza dei suoi interessi esoterici. La villa venne distrutta in epoca ottocentesca, insieme a molte altre, in seguito alla realizzazione di progetti urbanistici volti alla trasformazione di Roma in una grande capitale moderna. Sull’area in cui sorgeva la villa vennero però rinvenuti importanti reperti, tra cui il famoso discobolo. Tornando alla Porta Magica. Ancora oggi la porta, essendo andato perduto ciò che racchiudeva, è di difficile, se non impossibile, decifrazione e de-criptazione, ricca com’è di simboli alchemici. Poco o nulla si sa di essa, se non che era aperta – priva cioè di ante – e che era sita nel giardino della Villa, sebbene non si sappia precisamente dove. Si potrebbe supporre, data l’ammirazione di Cristina verso Pitagora, il quale insegnava ai suoi iniziati attraverso un velo, che anche in mezzo alla porta ci fosse una sorta di velo, a simboleggiare che dietro di esso si celasse l’accesso ai saperi universali e alla conoscenza misterica. Ma anche questa è solo un’ipotesi.
Uno dei testi di riferimento per tutti gli appassionati dell’alchimia dell’epoca, tra cui appunto lo stesso Palombara, era “L’anfiteatro della sapienza eterna”, da cui provenivano le maggiori conoscenze di alchimia mistica e cabalistica, ma collegate con la rivelazione divina, con chiare evocazioni del Mistero Cristiano. L’autore dell’opera, Heinrich Khunrath, era stimatissimo da Palombara e dai seguaci seicenteschi della setta dei Rosacroce ed è (anche) da questo testo che probabilmente provengono molte simbologie della porta ermetica. Occorre ricordare che nel 1558 la Chiesa Cattolica stilò l’Index dei libri proibiti, terribile strumento demandato alla Santa Inquisizione, nelle cui grinfie censorie finirono molti testi non conformi ai canoni cattolici e che quindi venivano condannati e/o bruciati. Tra di essi anche molti testi magici o alchemici. In alcune biblioteche o archivi storici potrebbe capitare di vedere sulla costola di libri antichi una, due, o tre croci: esse indicavano la progressiva gravità eretica del testo, laddove ovviamente le tre croci marchiavano i libri maggiormente pericolosi, considerati come vere e proprie opere del demonio. Siamo dunque in un periodo di controllo intellettuale e culturale pesantissimo e anche altri testi del Khunrath, contenenti simbologie alchemiche e cabalistiche avversate dalla Chiesa cattolica come residui pagani, non poterono sfuggire alla censura e alla distruzione.
Insistente, sulla porta, è la presenza e la simbologia di mercurio, metallo che, se volatizzato ad alta temperatura, diventa oro. Forti sono gli accostamenti tra questo metallo e Cristo. Sui montanti degli stipiti sono raffigurati i simboli dei pianeti, a ciascuno dei quali corrisponde un metallo. Questi simboli sono dei “signa” di cui non facile è la decifrazione. Essi si ritrovano anche su diverse gemme gnostiche, di origine egizia, e che circolavano nel medioevo (e poi nel Rinascimento), soprattutto quando, verso il 1200 si diffuse la cosiddetta ars notoria. Questa arte, che si riteneva esser stata rivelata da un angelo del Signore a Salomone, conteneva una raccolta di preghiere, mescolate con parole cabalistiche e mistiche, che, se opportunamente recitate avevano il poter di far discendere un angelo dal cielo che avrebbe insegnato al mortale qualunque disciplina egli avesse voluto conoscere. Anche se l’ars notoria era considerata dai suoi praticanti come una magia bianca, cristiana, fu molto avversata, non solo perché contenente simbologie misteriche “pagane”(ritenute tali), ma anche negli ambiti delle Universitas medievali, dato che lo studente, investito della scienza infusa proveniente dagli insegnamenti anglici invocati con l’ars notoria non avrebbe più avuto bisogno di studiare. Nella sua Summa contra gentiles Tommaso non prendeva sul serio questa pratica, degradandola a mera superstizione. I cattolici che la praticavano si difendevano dalle accuse ammettendo che anche il medico guariva il malato attraverso la forza delle sue parole che quindi dovevano necessariamente possedere un potere magico. Sta di fatto che molti testi notari non furono risparmiati. La porta che però fu salvaguardata riporta molti di questi signa. Molte delle epigrafi, dei simboli e delle iscrizioni presenti provengono da un altro testo fondamentale per gli appassionati di alchimia, reinterpretata però alla luce della dottrina cattolica. Si tratta del De pharmaco catholico, testo rosacrociano (l’autore, anonimo, si professa tale) che in epoca seicentesca potrebbe dirsi un vero e proprio libro culto. Pare che lo stesso Isaac Newton, che tutti conosciamo per le sue rivoluzionarie scoperte scientifiche, tenesse questo testo sempre in tasca, come una sorta di reliquario, a dimostrazione che, persino un fisico, astronomo, matematico della portata di Newton, fosse ampiamente interessato ai speri esoterici e si fosse anche molto occupato di studi alchemici. Di nuovo si avverte come i vari ambiti disciplinari fossero spesso mescolati e inseriti entro una visione complessiva della conoscenza che tutti li teneva insieme, senza gerarchia o esclusività.
Il De pharmaco riguarda in particolare la trasformazione della materia e i modi per farlo. Il principio che sta alla base è il seguente: così come un discorso è composto da parole, che a sua volta sono composte da sillabe e queste da lettere, anche la materia è costituita dai suoi elementi che come le parole, racchiudono dei segni magici come fossero le sue sillabe. Una volta rivelato il significato di queste “sillabe” magiche io posso arrivare a trasformare tutto ciò che voglio. Questo tipo di trattati hanno avuto notevole successo. Uno dei più diffusi in epoca tardo-medievale e rinascimentale era il Picatrix, traduzione latina di un testo arabo del 1008 d.C, che racchiudeva ricette magiche per la costruzione di talismani e gemme, trasformazioni di metalli, invocazioni ai pianeti, corrispondenze tra piante, animali e segni dello Zodiaco, e presente, tra le altre, nella biblioteca di Cornelio Agrippa, Pitagora, Marsilio Ficino. Talismani, sillabe, parole ritenute magiche, gemme e metalli, divengono veri e propri strumenti energetici dotati di valore protettivo o apotropaico. Anelli e amuleti venivano portati addosso o fogliettini contenenti questi signa venivano addirittura mangiati, in modo da poter incorporare dentro di sé tutto il potere, la forza e l’energia sprigionata da questi strumenti magici. Purtroppo, come già detto, questi oggetti e i testi ad essi riferiti subirono tutta l’avversione della Chiesa Cattolica che li condannava come residui del paganesimo. La Porta di Palombara però, reca su di sé tutto quell’universo che univa magia a scienza, esoterismo alchemico e cabalistico e verità cristologiche in un connubio di simbologie alchemiche e verità divine che non finiscono di interrogare e di affascinare colui che vi si trova davanti, come una sfinge il cui enigma resta però insoluto. In questo caso, l’enigma o il messaggio “sfingico” lo si legge nell’iscrizione palindroma incisa sulla pietra dello stipite inferiore, il cui valore è polisemantico ed esoterico. Se infatti l’iscrizione viene letta da sinistra verso destra il suo significato è “se ti siedi non procedi”, ma se letta al contrario, da destra verso sinistra, essa diventa “se non ti siedi procedi”, denotando un invito a varcare la porta e accedere forse a un mondo di saperi inesauribili e commisti tra loro, di cui la porta magica è il simbolo e la rappresentazione perfetta, anche se il suo mistero resterà forse per sempre racchiuso dietro e dentro di sé. Anche per questo, però, essa avrà sempre il potere di incantarci.
Il professore Rossi continua il viaggio tra gli scandali, i vizietti e le vicende erotiche delle corti francesi e passa a introdurre la figura del sovrano più sottaniere e dedito all’ars amatoria, vale a dire, Enrico IV (1518-1610). Il re è passato alla storia per essere uno dei più magnanimi nei confronti dei sudditi (tanto da accaparrarsi il nomignolo di “bon roi”) e anche come uno dei più anti-conformisti rispetto alla rigida disciplina, privata e pubblica, dell’epoca: si faceva ritrarre in posizioni buffonesche con i figli, sia maschi che, cosa straordinaria, con le femmine (vi sono quadri che lo rappresentano a gattoni con in groppa i bambini), si fa chiamare “papà” da loro..insomma aveva delle maniera che potevano risultare abbastanza anti-convenzionali per le regole reali del tempo. Enrico però non era altrettanto un emblema di purezza, candore e integrità dal punto di vista morale e di comportamento sessuale. Era, perdonatemi il termine, un vero e proprio “puttaniere”, anche se si innamorava sinceramente di tutte le amanti che ha avuto (tante!).
L’associazione Fil Rouge nasce nel 2014 con l’obiettivo principale di diffondere la lingua e la cultura francese. Essa è nata grazie all’idea e all’impegno di alcune docenti – di lingua francese – delle scuole medie e superiori dell’empolese Valdelsa. Una delle iniziative più riuscite e interessanti è una rassegna di incontri culturali, dall’eloquente titolo “vive la France”, avviata il 3 dicembre e che si tiene ogni giovedì del mese nel Nuovo Museo della Ceramica di Montelupo. Il ciclo di conferenze, nato grazie alla sinergia della suddetta associazione, del Comune di Montelupo, dell’associazione “L’ottavo nano” e del Caffè Mmab dentro il museo, ci porta a scoprire il fascino della letteratura, della storia, dell’arte, della moda e della terra francesi. Un giovedì al mese professori e professoresse ci accompagnano dentro i segreti e le storie della patria dell’illuminismo. Giovedì 3 marzo, Luca Rossi, professore di francese del liceo linguistico Virgilio di Empoli ha tolto un po’di veli (è il caso di dirlo) sulle vicende erotiche dei sovrani francesi all’epoca dell’Ancien Régime. Ovviamente il professore ha dovuto fare una selezione dei vizietti extraconiugali dei regnanti, perché in 15 secoli di monarchia le sottane delle amanti dei sovrani sarebbero state troppe, per poter esser “sollevate” tutte!
Perdonatemi se torno a parlare di unioni civili e del Ddl Cirinnà, e mi scuso in anticipo se questo pezzo risulterà piuttosto ripetitivo. Il fatto è che ho un’impressione sempre più forte che sul tema dilaghi un’ignoranza aberrante, e che sia stata strategicamente messa ad opera una propaganda strumentale e depistante, che rischia di sacrificare sull’altare i diritti della persona. Mi riferisco in particolare a quello che è sembrato a molti il logico (?) e automatico (?) passaggio dalla step child adoption alla gestazione per altri (o di appoggio), detta brutalmente pratica dell’utero in affitto.
La seconda parte dell’Orestea messa in scena da Luca De Fusco e rappresentata al teatro della Pergola dal 2 al 7 febbraio, diviene un vero e proprio Kolossal. Se nell’ Agamennone l’atmosfera risultava di un’arcana freddezza, di gelido e composto mistero e piuttosto statica imperiosità (ad eccezione delle danze che inframmezzavano i dialoghi), questo secondo episodio che condensa la seconda e la terza parte della trilogia eschilea (rispettivamente Le coefore e le Eumenidi) diviene un tripudio di effetti speciali e musiche potenti, luci psichedeliche, colori che si alternano tra il bianco e l’azzurro spettrali e il rosso violento, quasi a riprodurre una sorta di inferno dantesco di ultima generazione; le danze orientaleggianti (realizzate dalla coreografa Noa Wertheim) e i movimenti delle bravissime ballerine e dei personaggi in scena, soprattutto quelli delle mostruose e stregonesche Erinni, sembrano danze macabre uscite da un film dell’orrore; a terra la tomba di Agamennone diviene una specie di specchio e sullo sfondo un pannello proietta occhi azzurri della Pizia, varchi da cui fugge Oreste che forse metaforicamente riproducono anche i labirinti della sua mente, statue, porte, e, durante il processo finale i personaggi stessi impegnati nell’accusa (le Erinni), nella difesa (Oreste e Apollo) e Atena, dea della giustizia. Quest’ultima, con un costume che sembra quasi robotico pare uscita da Metropolis di Fritz Lang o da Star Wars. Molte sono infatti le suggestioni cinematografiche che possono venire in mente: dalle inquietanti e oniriche atmosfere Linchiane – soprattutto, di nuovo, le danze demoniache delle nere erinni che ingabbiano o inseguono il povero Oresteo sconvolgendo la sua mente per cercare di farlo impazzire – al musical The Rocky Horror Picture show passando per qualche macabro film di Tim Burton.
L’adattamento scenografico, che porta la firma di Mario Balò, di forte impatto, risulta alle volte sensuale, sospeso in una dimensione magica, fuori dal tempo mortale, mentre altre volte, grazie alla musica e al movimento incalzanti e agli effetti speciali, diviene angosciante e misterioso, tanto che a tratti sembra trasportarci in una dimensione demoniaca e da incubo. La recitazione degli attori però, molto classica ed energica ridona alla vicenda il suo spirito tragico e la sua algida intensità. Gaia Aprea si conferma attrice a tutto tondo, transitando dalla magnifica Cassandra dell’Agamennone ad un’Atena imponente e ferrea, divinamente altera e impassibilmente giusta; Elisabetta Pozzi dona alla sua feroce Clitennestra la forza quasi arrogante di una donna che non ha alcuna vergogna di confessare i suoi delitti e i propri sentimenti di odio, ma capace di simulare un falso affetto nei confronti del figlio per persuaderlo a non ucciderla. Sorprendente poi il cambio del tono di voce dell’attrice nel momento in cui Clitennestra è un’ombra scivolata nel regno dei morti e invoca le Erinni, sue “cagne maledette”, spingendole a perseguitare il suo assassino con una voce cantilenante e acuta che sembra veramente provenire da un altro mondo; Giacinto Palmarini è un Oreste credibile, che sa passare dall’odio più violento nei confronti di chi gli ha ucciso l’amato padre (Egisto e la madre Clitennestra) e alla sete di vendetta, alle titubanze e ai sensi di colpa per il sangue della madre versato, fino all’angoscia e la fatica della fuga e la paura delle erinni persecutrici; Angela Pagano come capa di queste creature demoniache e animalesche assume le fattezze e la voce rauca propria delle streghe.
Certo, se nell’Agamennone l’intensità tragica era più raccolta, intima e quindi forse più “avvolgente”, qui l’impatto scenico risulta predominante rispetto al sentimento tragico e lo spettatore resta più rapito da musiche, danze, canti ed effetti hi-tech, sicuramente molto suggestivi, ma che rischiano di mettere in sordina la potenza della vicenda tragica e la riflessione che da essa – soprattutto dal suo esito – dovrebbe seguire.
Veniamo alla trama. L’Agamennone si concludeva con la morte del re acheo per mano della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto. Qui troviamo Elettra (figlia di Agamennone e Clitennestra) che piange sulla tomba del padre. Con lei, le Coefore, rendono onori funebri intorno alla tomba del re ucciso. Allo scorgere di una ciocca di riccioli (che Oreste aveva posto poco prima sulla tomba del apdre) Elettra spera che il fratello, lontano da anni, sia finalmente tornato. E infatti costui arriva e promette di vendicare la violenta uccisione del padre, come l’oracolo di Apollo, suo “protettore” gli aveva fatto vedere. “Da sangue e sangue sorbiti dalla terra madre assassina cruenta, indurita, che urla vendetta. Lancinante Perdizione condanna chi ha colpa a un eterno gemmare di pene: risarcimento totale […]Ferita assassina, per assassina ferita si paghi. Colpi a chi colpì!” questo e altri simili, sono i moniti con cui Elettra e le Coefore incitano l’uomo a compiere giustizia. Il destino, ancora una volta voluto da una divinità, si compierà e Oreste si reca al palazzo dove ora regnano Egisto e Clitennestra e, fingendosi uno straniero che porta notizia della morte di Oreste riesce a farsi ospitare nella reggia, dove, di lì a poco compirà la sua sanguinosa vendetta. Il suo gesto non rimane però impunito e le “cagne” della madre che perseguitano coloro che si macchiano di delitti di sangue cominciano a perseguitare l’uomo, in preda a visioni demoniache ispiratigli da queste nere creature della notte che accerchiano la sua mente e lo inseguono forsennatamente, senza tregua né riposo. Alla fine il fuggitivo, sotto consiglio di Apollo troverà riparo presso la statua della Dea Atena. Sarà lei a dare una svolta a una vicenda in cui il sangue che chiama altro sangue non fa che dar vita a un circolo infinito di altre morti e altre vendette. Atena fonda allora il Tribunale della Giustizia, l’Areopago che da quel momento in poi si occuperà di tutti i delitti più terribili, impedendo una scia di sangue e cieca vendetta ma giudicando, grazie a una commissione composta dai cittadini migliori la colpa o l’assoluzione dell’imputato. E solennemente dichiara, che, in caso il verdetto risulti alla pari, lei darà il suo voto per la non colpevolezza di Oreste. Il processo appare sorprendentemente moderno (si pensi che la tragedia risale al 458 a.C.). Accusa e difesa si incalzano in un diverbio portando ognuno le proprie valide ragioni, così da rendere labile il discrimine tra colpevolezza e innocenza. Le erinni accusano Oreste del delitto più terribile, in quanto ha ucciso sua madre, colei che ha il suo stesso sangue, il sangue più suo scorre nelle vene del figlio. Apollo ribatte con un argomento piuttosto misogino, sostenendo che l’uccisione del padre è molto più grave di quella della madre, perché, mentre l’uomo è sempre necessario per la nascita di un figlio, molti esempi mostrano come invece non sia necessario essere partoriti dal ventre materno, primo fra tutti la nascita della stessa Atena, venuta fuori dalla mente di Zeus, senza bisogno della gestazione nel ventre di una donna. Apollo e Atena rappresentano una società profondamente patriarcale, ma ciò non toglie l’acutezza di Eschilo nel tratteggiare con attenzione le sfumature dell’universo femminile, dando spessore e sentimento alle sue eroine (sia nel bene che nel male) e rendendole personaggi a tutti gli effetti, e non semplici spalle degli uomini senza personalità né emozioni. Clitennestra spicca in tutta la sua spavalda crudeltà e spregiudicatezza e Cassandra, nell’episodio precedente, emerge per dignità, orgogliosa forza e fiera seppur dolorosa consapevolezza del proprio destino di morte. Il processo, guidato dalla rettitudine di Atena si conclude con la parità, ma il voto determinante della dea regala l’assoluzione al matricida. Ma il vero colpo di scena finale è la trasformazione delle Erinni in Eumenidi da parte di Atena che con un seducente discorso (aiutata, dichiara, indirettamente da Peiso, dea della persuasione), convince le Erinni a restare nel suo tempio come dee benevole (Eumenidi per l’appunto) ed eternamente venerabili dai cittadini ateniesi.
Con il capitolo conclusivo Eschilo ha voluto dare solennità e spirito immemore e immortale (è la dea della Giustizia a fondarlo) all’istituzione giuridica della propria città e a sancire finalmente il passaggio da un’età arcaica dominata da Ate, che ottenebra la mene degli uomini spingendoli alla vendetta, alla società democratica delle Poleis, in cui non vige più la legge dell’occhio per occhio-dente per dente, del sangue che chiama incessantemente altro sangue, ma quella sancita dai tribunali e da processi equi, dalla partecipazione politica dei cittadini chiamati ad esprimersi col proprio voto (segreto o per alzata di mano). Una società più matura in cui è la giustizia e non la sete di vendetta a stabilire chi è colpevole e chi è innocente. Un’Atene democratica in cui ciascun individuo non è più mera marionetta spinta dalle saette della volontà divina, ma diviene vero e proprio cittadino, chiamato a rispondere, a decidere, ad essere responsabile, per sé e per gli altri, frenando i propri odi e le proprie rivalse, i propri impeti violenti, sotto lo sguardo sempre vigile dell’Areopago, il tribunale dei delitti di sangue. Anche gli dei, pur mantenendo il loro ruolo di tessitori di destini, si fanno da parte e lasciano che la giustizia mortale divenga esclusiva prerogativa degli uomini e delle loro istituzioni cittadine; Atena, col suo gesto fondativo (e simbolico, per dare maggior importanza e solennità all’istituto di un’Atene ormai democratica) sancisce la fine di un’ età della colpa e dà inizio a un’età in cui ogni uomo diviene responsabile delle proprie azioni e il cui operato verrà giudicato attraverso la legalità degli assetti giuridici e la partecipazione democratica, per quanto ancora molto elitaria.
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