Un primo aiuto ci viene fornito dalla entrata in politica di Antonio Ingroia. Nonostante il fallimento della operazione elettorale, ci ha fatto riflettere sul fatto che dopo Pio La Torre anche la sinistra ha rinunciato alla lotta mortale alla mafia (cioè al consolidarsi del “sistema criminale” nello Stato e nella società), delegandone di fatto il contrasto e il contenimento alla magistratura.
Quando di fronte all’allarme di Enrico Berlinguer sulla “questione morale” in molti (già allora la maggioranza?) dentro il PCI chiedevano di farla finita con la “diversità comunista” (che gli avversari sdegnosamente definivano “presunta superiorità”), lo facevano in nome di una ipotetica necessità di fare i conti con la “realtà”, di cominciare da se stessi per difendere chi doveva salire nella scala sociale (fu in quel periodo che nelle organizzazioni di massa – come si chiamavano- si introdusse una differenziazione salariale, abbandonando l'applicazione per tutti del terzo livello dei metalmeccanici), di accettare anche qualche compromesso, se necessario per garantire sviluppo (ad esempio lasciando perdere l’ossessione salariale, introducendo un po’ di sano mercato, privatizzando, aziendalizzando la sanità, contrattando l’urbanistica...).
Non si tratta qui di analizzare come e perché, a partire da quel periodo, tali fenomeni si siano prodotti e che rapporto abbiano con la crisi capitalistica in generale e con quella del “welfare” in particolare: sta di fatto però che da allora la mafia ha smesso di uccidere comunisti e sindacalisti della CGIL e ha preso a minacciare e poi ammazzare uomini dello Stato e magistrati. Di qui il sacrosanto appello di Ingroia: la sinistra si riappropri dell’obiettivo di distruggere la mafia e i sistemi criminali.
Un secondo livello di riflessione sul quale mi voglio soffermare è quello che riguarda un assolutamente necessario bilancio sulle strategie attuate nella stagione della cosiddetta seconda repubblica, e sui loro presupposti.
Si ricorderà che nel PDS appena mondato dalla zavorra comunista decollò un fervore liberalizzatore e privatizzatore da far impallidire i liberali autentici (spesso nelle polemiche elettorali ne veniva rivendicato il primato). Quella che voglio proporre qui è una valutazione limitata a Siena e al MPS, assumendola come paradigma più generale per il PDS-DS-PD.
La prospettiva della privatizzazione del MPS trovò un consenso immediato nella parte maggioritaria del PDS (quella che faceva riferimento al gruppo dirigente nazionale) e, dopo un'iniziale contrarietà condivisa con il PRC e il PPI, fu accettata anche dalla sinistra interna, per la convinzione generale che, con uno Statuto fortemente autonomista della “nuova” Fondazione, la comunità locale (potere pubblico) avrebbe riconquistato il controllo del MPS (non bisogna mai dimenticare che con le gestioni pubbliche governative i comunisti, cioè chi gestiva il potere locale, erano sempre stati fortemente discriminati dentro la banca).
A privatizzazione decisa e da noi del PRC contrastata fino alla fine, quella per lo Statuto fu una battaglia unanime: nessuno a Siena ha mai sostenuto che fosse preferibile che la comunità locale non controllasse la Fondazione. La difesa di questa autonomia ha poi successivamente condizionato, facendoli passare obiettivamente in secondo piano, i giudizi sull’operato concreto di chi ha amministrato la Fondazione.
Tuttavia un bilancio oggi s’impone e certe riflessioni da noi costantemente proposte, ma da altri probabilmente mai nemmeno ascoltate, potrebbero essere utili anche al PD, o almeno a coloro che hanno condotto e sostenuto la quasi ventennale storia della Fondazione convinti di fare del bene.
Primo: la privatizzazione.
L’accusa che il PDS (Ceccuzzi era allora capogruppo in Consiglio Provinciale) muoveva a noi PRC e al PPI, era che se non avessimo proceduto alla privatizzazione ci saremmo ritrovati una piccola banca di livello regionale e che la soluzione stava nel gettarsi (perché la storia e la struttura del MPS lo “meritavano”) nella grande dimensione del gioco creditizio-finanziario. Ora, assumendo per un momento come inoppugnabile tutto ciò che è stato fatto in questi anni, il risultato è quello atteso? E se il MPS fosse rimasto fuori dalle privatizzazioni non potrebbe aver mantenuto o addirittura rafforzato il suo ruolo nell’economia locale e toscana? Certamente la nostra posizione partiva da una impostazione ideologica (dubito che fosse così per quella del PPI), ma le nostre analisi si soffermavano anche sulla propensione del mercato alla finanziarizazione, evidenziandone il carattere speculativo e quindi rischioso al di là dei giudizi morali. Da parte del PDS si vedevano solo le “magnifiche sorti e progressive” di quella nuova tendenza alla finanza creativa. E questo discorso, come ben sappiamo, era valido anche per altri settori come l’energia, le comunicazioni, i trasporti, l’informatica, l’industria pubblica dei vari comparti... nessuna riflessione autocritica? E al netto del disastro emerso in queste settimane, siamo davvero convinti che una privatizzazione meglio gestita avrebbe apportato reali miglioramenti al MPS? Oppure con una struttura comunque importante, pubblica, saremmo più forti (con moderazione, ma più forti)?
Secondo: il governo e il potere.
Ho vissuto solo di riflesso le vicende MPS del periodo banca 121, del tentativo di fusione con BNL, della vicenda UNIPOL ecc., ma sempre con una sensazione netta: che le pressioni (respinte da Siena) del gruppo dirigente nazionale dei DS, (forse ancora PDS), fossero riconducibili ad un disegno strategico per cui, oltre ad andare al Governo (D’Alema diventò poi addirittura Presidente del Consiglio) si faceva necessario confrontarsi anche con i centri di potere finanziario (la finanza laica e il salotto buono del capitalismo italiano e la finanza cattolica) non da posizioni di debolezza. Non sto parlando della qualità delle varie operazioni (in alcune delle quali mi pare fossero coinvolti anche “i furbetti del quartierino”), ma della intuizione della necessità di creare un “polo della finanza rossa”, che a me non è mai parsa peregrina. È stata in campo veramente questa operazione? E con quali passaggi? Con quanti e quali avanzamenti e/o arretramenti? Con quale capacità di aggregare e quante e quali resistenze? Se davvero questa ipotesi fosse realtà perché non parlarne apertamente e in modo trasparente? Certo potrebbe emergere il fallimento totale di una strategia, ma si può pensare di andare avanti senza fare i conti con i presupposti di ciò che ha creato questa situazione?
Terzo: La schizofrenia.
Ormai è chiaro il PDS-DS-PD ha vissuto la vicenda Fondazione e Banca in una totale schizofrenia. Da una parte privatizzatore: le azioni sul mercato, la valorizzazione finanziaria, la crescita dimensionale, tutto andava bene al fine di rafforzare l’elemento che garantiva la continuità del gettito della ricchezza. Dall’altra parte garante del pubblico, cioè del potere politico: a partire dal controllo (anche della Banca), per garantire continuità di afflusso di ricchezza agli enti locali e territoriali, integrativa e/o sostitutiva di risorse statali che le privatizzazioni presupponevano diminuire.
Insomma una riserva mentale (ipocrisia), per cui si strizzava l’occhio e si sostenevano politiche salvo non praticarle in casa propria e salvarsi per sé, per il proprio territorio, per le proprie istituzioni, per la propria economia (quanto piaceva allora la parola “competitività del territorio”).
Quarto: Quale ruolo per la Fondazione.
Dopo lo scontro iniziale tra Piccini (che ipotizzava una Fondazione sopra gli Enti Locali, che raccogliesse le richieste e le realizzasse direttamente), e l’altra parte (noi d’accordo) che sosteneva un ruolo di cassaforte per gli enti locali, che avrebbero mantenuto il potere decisionale (salvo il doveroso ruolo di controllo e equità nella ripartizione), il confronto sul ruolo della Fondazione si è progressivamente spostato sulle problematiche che scaturivano dall’esperienza diretta. Il finanziamento di opere produceva squilibrio negli Enti Locali, sia per i problemi collegati al cofinanziamento, che per il rigonfiamento delle spese correnti per il successivo mantenimento delle opere realizzate: di qui l’orientamento che i finanziamenti venissero concessi solo in presenza di progetto corredati da proiezioni future sulla gestione e la manutenzione. Tuttavia mai si è voluta prendere in considerazione la necessità da noi sostenuta che gli interventi diventassero interventi strutturali sulla gestione e manutenzione delle realizzazioni: sul modello “Musei Senesi”, oppure addirittura, per esempio, per finanziare la ripubblicizzazione dell’Acquedotto del Fiora (trasformando gli investimenti sugli acquedotti in capitale azionario per gli Enti Locali).
Quinto: Gli obiettivi.
Se si escludono alcune iniziative proprie come Siena Biotech, (oggi purtroppo abbandonata a sé stessa) e poche altre (come il Piano Casa d’intesa con Siena Casa e gli Enti Locali), le caratteristiche degli interventi hanno avuto in genere caratteristiche di miglioramento dell’arredo urbano con tratti di gigantismo inutile, quando non addirittura dannoso. Eppure non erano mancate, anche da parte nostra, proposte innovative di cui propongo solo alcuni esempi: il cablaggio per il riscaldamento degli ambienti con l'energia geotermica, (che oltre far diminuire l'importazione di energia con conseguente risparmio, avrebbe creato opportunità di lavoro); la ristrutturazione del sistema di mobilità, con un forte rilancio del ferro; l'investimento sulle alte professionalità del restauro (sul modello dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze).
Alcune considerazioni politiche.
Secondo me Mussari non è un ladro. Egli ha applicato la posizione politico-programmatica del gruppo dirigente senese: quella dell’autonomia da Roma, della finanziarizzazione mantenendo però il controllo pubblico per garantire gli investimenti sul territorio, quella “obbligata” della crescita dimensionale. Successivamente, assumendo sempre più potere, non si è più limitato ad interpretare ed applicare, ma ha promosso egli stesso la politica, penso in una crescente solitudine. Quando, alla fine del primo decennio di questo secolo, apparve evidente che le risorse da distribuire non ci sarebbero state, la politica chiese a Mussari di produrle comunque (anche perché si stavano avvicinando le elezioni a Siena) e quando, come per miracolo, apparvero finalmente i 200 milioni che la Fondazione avrebbe potuto distribuire, nessuno si chiese da dove uscissero fuori se la previsione era stata utili zero. Probabilmente Mussari è rimasto vittima di quel suo gioco al rialzo che ad un certo punto non ha più potuto gestire. Ma sbaglio o nessuno di coloro che governavano ha obiettato alcunché? Si spieghi allora la storia vera, politica, si racconti come sono andate le cose.
Ceccuzzi “per il bene di Siena” ha ritirato la sua candidatura: io però vorrei anche che contribuisse a ricostruire la storia, per consentire a tutti di riflettere su quello che è accaduto e sul contributo che ciascuno, individualmente e/o collettivamente, ha dato. Contestato in piazza dai dipendenti MPS, ritenne giustamente di sottolineare come lui, dopo tre sindaci dipendenti e 25 anni e oltre di presenza in Palazzo Pubblico della rappresentanza di questo importante “grande elettore collettivo”, fosse il primo sindaco non dipendente del Monte.
Non pretendo che nel rifare la storia si debba dare ragione a chi, come noi, ha espresso costantemente posizioni critiche e anche alternative alle privatizzazioni, alla finanziarizzazione ecc.. Tuttavia se fossero recuperate chiarezza e trasparenza tutti ne guadagnerebbero e la discussione sul che fare sarebbe più produttiva. A che serve che sia la magistratura a scrivere la storia degli ultimi 20 anni di Siena, solo secondo una logica criminale? È la politica, mettendo in campo una operazione di verità e modestia, che deve scrivere questa storia, proponendosi di dare anche le indicazioni per il futuro.
Immagine tratta da www.intravino.com