“Caro usignolo, perché hai smesso di cantare?” chiede il pastore all’uccellino. “Ahimè – rispose l’usignolo – ma non senti come gracidano forte le rane? Fanno tanto tanto chiasso e io ho perso la voglia di cantare. Ma tu le senti?» «Certo che le sento – rispose il pastore – ma è il tuo silenzio che mi condanna a sentirle». Chi ha il dono del canto deve cantare, proprio perché il silenzio non venga riempito dal rumore delle chiacchiere vuote, delle banalità urlate, della confusione inconsistente, dal cicaleccio inutile e dal gracidio di chi parla senza dire niente. Che si innalzi allora un canto di poesia e bellezza che risollevi quest’umanità prima che le sue orecchie vengano riempite soltanto dal chiasso circostante che pervade insistentemente. Ed è proprio un canto di poesia e di umanità che i due attori e le musiche regalano al pubblico lastrigiano. Lo spettacolo è un mosaico in divenire in cui ogni pezzo citato si aggancia al successivo: l’ultima frase è anche l’incipit di quella dopo come se si trattasse davvero di un unico canto. Ecco allora che “La vita come immenso palcoscenico” chiude il potente monologo di Enrico V ed apre “Come vi piace”.
Le parole di Machbeth invece ci ricordano quanto questa sia una futile e inconsistente ombra che passa: “Domani, e poi domani, e poi domani, il tempo striscia, un giorno dopo l'altro, a passetti, fino all'estrema sillaba del discorso assegnato; e i nostri ieri saran tutti serviti a rischiarar la via verso la morte a dei pazzi. Breve candela, spegniti! La vita è solo un'ombra che cammina, un povero attorello sussiegoso che si dimena sopra un palcoscenico per il tempo assegnato alla sua parte, e poi di lui nessuno udrà più nulla: è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori, del tutto privi di significato!”. Ma l’ombra è anche quella del dolore di Riccardo III, “l’ombra del dolore vostro che distrutto l’ombra del vostro viso”.
Di una potenza agghiacciante il monologo di Timone l’ateniese, che dopo essersi riempito di debiti finì la sua vita autoisolandosi in una caverna e da qui lancia la sua terribile invettiva contro l’oro, causa delle azioni più meschine; l’oro che corrompe l’animo umano deturpandolo indelebilmente. O sole benedetto che nutri, estrai marcia umidità dalla terra. Sotto l’orbita di tua sorella infetta l’aria! […] Non con la natura, assediata da tutti i mali, si può avere una grande fortuna, ma contro la natura. Eleva questo straccione, precipita in basso quel signore, ai senatori toccherà un disprezzo ereditario e lo straccione riceverà un onore innato. È il pascolo a ingrossare i fianchi di un fratello, ed è il bisogno a renderne uno magro […]; tutto è obliquità; non c’è nulla di retto nelle nostre nature maledette ma solo una diretta malvagità. Siano odiate, perciò, tutte le feste, le compagnie e le folle di uomini! Timone disprezza il suo simile: se stesso. La distruzione abbranchi l’umanità. Terra, dammi radici. Che c’è qui? Oro? Giallo, splendente, prezioso oro? […]Ah! Voi dei! Perché questo? Che cosa è questo, dei? Ebbene,questo strapperà sacerdoti e servi dal vostro fianco, ucciderà coi cuscini uomini vigorosi. Questo giallo verme unirà e sfalderà religioni, benedirà i maledetti, farà adorare la lebbra canuta, premierà i ladri con titoli, riverenze e lodi e con gli scanni dei senatori. […] Vieni, pezzo di terra dannata, tu puttana dell’umanità che getti discordia tra la feccia delle nazioni, ti farò agire secondo la tua natura […]”. E infine l’ultimo grido disperato di Timone: Ho fatto come la luna per mancanza di raggi da dispensare […] Sole, spengi i tuoi raggi, Timone ha finito di regnare”.
Dalla caduta, dal dolore, dalla morte però gli intensi attori ci risollevano e ci innalzano verso il sentimento più nobile e poetico dell’animo umano: l’amore. Dei 129 sonetti shakespeariani Mauri e Sturno ce ne regalano cinque che vanno a toccare le mille sfumature dell’amore, dall’amore più passionale, viscerale a quello più delicato e commovente, così come è dipinto nello struggente sonetto n. 71: “quando sarò morto,piangetemi soltanto per tutto il tempo in cui udrete lugubri,solenni rintocchi annunziare alle genti che io son fuggito da questo mondo vile per eleggere dimora insieme con i vermi più vili; anzi,se leggerete questi versi non ricordate la mano che li scrisse ;poiché io vi amo tanto che vorrei non esser ricordato nei vostri dolci pensieri […] lasciate che l'amor vostro si spenga insieme con la mia vita”.
Dopo la poesia dell’amore un perfetto Sturno nei panni di Marco Antonio lancia il suo sarcastico e tagliente “j’accuse” verso Bruto, quell’”uomo d’onore” che ha assassinato il suo amato Cesare, nel celeberrimo monologo delle Idi i Marzo. E altrettanto perfetto è Glauco Mauri nella parte di Re Lear, uomo disfatto dal tradimento delle figlie, che viene canzonato da un matto (di nuovo magistralmente interpretato da Roberto Sturno), in un duetto che dietro un’apparente comicità si cela un’amarezza quasi tragica e in cui i due ruoli, quello del (ex) re saggio e del pazzo si scambiano e si confondono fino a farci venire il dubbio su chi dei due sia veramente il matto.
La fine dello spettacolo è affidata a “La tempesta”, l’ultima commedia scritta da Shakespeare, in cui la verità, o qualcosa che molto assomiglia la verità, è sussurrata dall’etereo folletto Ariel. Questa creatura fatta di sola aria insegna al grande mago Prospero la pietà e il perdono, sentimenti che non si possono imparare sui libri, che nessuna sapienza, né nessuna magia potranno mai infondere nel cuore e nella mente degli uomini. Ariel ispira con la sua delicatezza, fragile come un soffio di vento, il tocco della compassione e dell’evanescenza e fuggevolezza dell’esistenza umana, che come uno spettacolo, quando si chiude il sipario, è destinata irrimediabilmente a dissolversi, perché in fondo, come dice Prospero “Questi nostri attori erano spiriti, e tutti si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile come loro. E come il fragile edificio di questa favola, si dissolveranno un giorno le torri orgogliose che toccano con la loro cima le nubi, gli splendidi palazzi e i templi solenni - si dissolverà lo stesso globo immenso della terra, con tutta la vita che contiene. E come questo spettacolo senza realtà che ora è svanito, tutto il mondo scomparirà nel nulla senza lasciare dietro di sé neppure il vapore di una nube. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita è cinta di sonno”.
E l’impressione, quando si riaccendono le luci e lo spettacolo, o meglio, l’incantesimo che i due grandi attori hanno regalato al pubblico, finisce, è proprio quella di aver assistito a un magico sogno. Un sogno però che ci ha fatto entrare nel profondo del reale e dell’animo umano, scandagliandone tutti gli aspetti e ricamando in questo unico canto, questo grande palcoscenico che è la vita, in cui, ciascuno di noi, pirandellianamente parlando, recita la sua parte, finché le luci non si spegneranno e rimarranno solo gli spiriti fatti di aria, fragili ed eterei come i sogni.