Mercoledì, 27 Novembre 2013 00:00

Cultura nella Costituzione

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Cultura nella Costituzione: senza dubbio non poteva essere scelto titolo più calzante per l'iniziativa organizzata dall'associazione Io sono il Maggio ed il Comitato in Difesa della Costituzione fiorentino.

La cornice è di quelle che ti fanno capire che stai prendendo parte a qualcosa di importante: la Provincia di Firenze ha messo a disposizione la Sala Luca Giordano di Palazzo Medici Riccardi. Ma nonostante l'istituzionalità dell'avvenimento che concordava con quella del luogo, non si può essere più d'accordo con le parole con le quali Salvatore Settis, Professore Emerito della Scuola Normale di Pisa, nonché una delle voci più autorevoli ed indipendenti alzatesi contro la distruzione sistematica della cultura in questo Paese, ha iniziato il suo intervento: “È singolare doversi ritrovare a difendere la cultura in una sala come questa, in questo edificio e soprattutto in questa città”.

E per quanto sia bizzarro, è oggi necessaria una grande mobilitazione che riporti la cultura alla sua indipendenza e al centro delle attenzioni di chi amministra la cosa pubblica. L'accantonamento di quella che è una delle maggiori fonti di autorevolezza, successo ed entrate economiche italiane è avvenuto a discapito di ciò che afferma la Costituzione: è proprio questo il punto su cui ci si è focalizzati lo scorso lunedì pomeriggio.
Come ha ricordato il professor Settis, la Carta Costituzionale mette al suo centro il cittadino lavoratore (“da qui la fondamentale importanza dell'art. 4, troppo spesso facilmente dimenticato: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.»”). Cittadino lavoratore che, per la fruizione di tutti i suoi diritti personali, deve prima veder rispettato il proprio diritto alla cultura: come spiegò anche Bertold Brecht, la cultura non si può separare dal resto delle attività produttive dell'uomo. La cultura non può essere rilegata ad un angolo della vita ma ne deve essere la linfa. Ed un teatro è forse l'immagine più esplicativa di questo intreccio che possiamo evocare: decine e decine di persone che, ognuno nel proprio piccolo, svolgono il proprio lavoro con passione ed amore, consapevoli del fatto che il tassello che producono andrà a comporre qualcosa di maestoso, che non potrebbe essere senza ogni singolo apporto. Il frutto della fatica e dello studio di chi lavora in un teatro è un lavoro che piace a chi lo fa ma anche a chi ne usufruisce dei frutti: è, nel senso più vero di queste parole, un bene comune, come ricordano i lavoratori del Maggio Musicale Fiorentino che sono stati l'anima di questa iniziativa.

Mettendo da una parte la cultura, oltre a non rispettare l'art. 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.») viene violato uno dei diritti fondamentali del cittadino. E questa violazione è attuata nei modi più disparati: monetizzando un servizio culturale senza porsi il problema sulle conseguenze che l'operazione potrebbe causare (quale esempio più vicino a noi se non la vicenda della Fondazione del Maggio?), continuando a rispettare il contrasto, introdotto con la modifica del Titolo V della Costituzione, tra valorizzazione e tutela dei beni culturali che automaticamente rimandava ad una valorizzazione meramente economica anziché culturale e anche violando in modo “immateriale” un bene culturale materiale. Settis ha spiegato come la tutela del patrimonio culturale del nostro Paese vada affrontata in modo non rigido: il preservare una tradizione culturale come la tarantella calabrese non può prevedere le stesse azioni o impegni del mantenimento di un bene materiale come un museo. Ma è bene ricordare anche che i beni materiali possono essere violati fisicamente (ad esempio prendendo un piccone) ma anche in modo immateriale: e l'esempio che ha portato il professore è stato calzante ed ha toccato molto da vicino tutti i presenti, dal momento che ci ha ricordato quanto è stato fastidioso vedere Ponte Vecchio affittato a privati per una cena. Valorizzare e promuovere la cultura significa quindi non solo affidare la gestione degli enti a persone competenti che riescano sia ad offrire un servizio completo sia a tutelare il lavoro che si nasconde dietro questo ma anche approcciarsi con doveroso rispetto ad un qualcosa che infinitamente più grande di ciascuno di noi.

Ed è così che riusciamo a passare all'altro grande tema affrontato: l'intervento del Professor Stefano Merlini, docente di Diritto Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza di Firenze, nonché già sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino, è girato tutto attorno alla necessità di riuscire a ristabilire l'indipendenza della cultura in Italia.
La promozione della cultura a cui rimanda l'art. 9 della Costituzione è un obbligo di tutte le strutture pubbliche (proprio il motivo per il quale è usato il termine Repubblica e non Stato, così da riuscire a comprendere gli enti locali) ma oramai da tempo in Italia si fa troppa confusione tra “promozione” e “gestione”. Se l'autonomia della cultura può essere considerata un'eredità dello stato liberale, abbiamo anche modo di vedere come l'avvento del fascismo abbia stravolto le cose. Con le leggi del 1936 che comportarono di fatto una completa statalizzazione, e quindi controllo, delle produzione culturale italiane si ebbe, di fatto, la fine della cultura così come la intendiamo oggi che lasciò spazio a “quella cosa”, qualunque cosa fosse, controllata dal MinCulPop.
Oggi, purtroppo, nonostante la guerra di Liberazione e quasi settant'anni di Repubblica, non ci siamo ancora del tutto liberati dell'impronta fascista. E di questa presenza sentiamo traccia ogni qualvolta che, ad esempio, un sindaco viene nominato presidente di una Fondazione che gestisce un ente culturale (come dire, il riferimento alla vicenda del Maggio Musicale Fiorentino, ancora una volta, e all'apporto fornito da Renzi non è stato nemmeno troppo velato). La volontà di accentrare tutto il controllo nelle proprie mani, di “gestire la cultura”, appunto, invece che “promuoverla” è la diretta conseguenza, ha spiegato Merlini, della riforma elettorale del 1999 che ha introdotto la figura del “sindaco d'Italia”: una separazione dei poteri che, di fatti, è tale solo sulla carta dal momento che il primo cittadino nomina la giunta e che la sfiducia di questo da parte del Consiglio comporta la caduta del Consiglio stesso. Nel momento in cui chi detiene il potere politico diventa anche gestore diretto della cultura, viene meno la valutazione pubblica imparziale della gestione (da notare come lo stesso valga nel caso il “potere politico” nomini direttamente i vertici della partecipate del comune).

È forte, alla fine, la consapevolezza che il lavoro da fare per tornare a dare alla cultura il ruolo che la Carta Costituzionale italiana le assegna è lungo e faticoso: non si tratta solo di una questione di priorità, che impedisca che ogni volta che c'è necessità di far cassa i fondi per scuola, università e cultura siano i primi ad essere ridimensionati. C'è anche un grosso lavoro politico da fare, che tenga conto di come le affermazioni dell'art. ) si debbano conciliare ed intrecciare con tutti gli altri enunciati della prima parte della Costituzione. Ed è un lavoro che, nel caso venisse intrapreso, porterebbe molti vantaggi a questo nostro sistema politico, in molti ambiti.

Immagine tratta da: www.dailystorm.it

Ultima modifica il Martedì, 26 Novembre 2013 23:49
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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