Nel suo ultimo lavoro Domenico Moro prosegue la sua analisi iniziata in Globalizzazione e decadenza industriale indagando le ricadute della disgregazione sociale e produttiva sui vari territori dominati dall'imperialismo. Questo concetto, tanto fondamentale quanto dimenticato (proprio nel centenario dalla pubblicazione del celebre L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo di Lenin!), viene posto al centro del saggio. La scelta dell'autore di portare nel dibattito sulla Terza guerra mondiale il tema dell'imperialismo è fondamentale, poiché senza partire da un'analisi dell'accumulazione su scala globale e della sua crisi non si possono affatto capire le dinamiche che agiscono alla base dei nuovi conflitti e ancor meno inserirli in una coerente concezione dei rapporti di forza tra Stati.
Così, partendo da una ricognizione sul ruolo dell'imperialismo che vede nei Paesi centrali una «concentrazione del potere economico nelle mani di élite molto internazionalizzate nei loro legami e rapporti economici, cui corrisponde una concentrazione del potere politico mediante una trasformazione oligarchica delle istituzioni statali», si giunge, tramite «la stagnazione cronica del modo di produzione capitalistico nei suoi punti più alti di sviluppo, dove si produce una tendenza permanente al calo del saggio di profitto» alla «tendenza all'espansionismo verso l'esterno»1. Dunque, in una condizione di stagnazione dei mercati interni, il surplus produttivo e i capitali vengono esportati allo scopo di trovare maggiore redditività in mercati in cui il margine di profitto è più elevato. Tuttavia, ciò che è fondamentale capire secondo Moro è che «l'aumento della concorrenza tra imprese e tra aree economiche sovranazionali» è tale per cui la «concorrenza non si combatte soltanto attraverso i meccanismi impersonali del mercato mondiale autoregolato», bensì ci «si avvale anche della forza degli Stati»2 i quali continuano dunque a esercitare un ruolo imprescindibile. Quindi la capacità di «proiezione di forza» diventa un elemento fondamentale nella geopolitica attuale.
Il discorso sviluppato dall'autore diventa ancor più interessante quando viene affrontato di petto il ruolo della religione in quanto “oppio dei popoli”, nella quale si rispecchiano le sofferenze di un'umanità afflitta dall'oppressione del capitale, per cui «la religione retroagisce sulla stessa struttura economico-sociale e sugli assetti di potere politico contribuendo a modificarli»3. Dunque, la religione esercita una funzione ben più materiale di quanto si possa immaginare, in quanto «più che rispondere alla paura della morte, cioè ai problemi dell'aldilà, risponde alla paura, alle sofferenze della vita, cioè ai problemi dell'aldiquà»4. Il problema che sorge nella postmodernità è quindi dettato dalla perdita di senso del futuro e della vita stessa, in particolare nelle classi proletarie e sottoproletarie vittime della globalizzazione. A questo problema ha saputo rispondere con abilità la religione e in particolare il fondamentalismo islamico sembra aver interpretato al meglio la desecolarizzazione affermatasi con la globalizzazione e il venir meno dell'alternativa rappresentata dai movimenti di liberazione nazionale. In questo senso Moro, riportando l'esempio dei Fratelli musulmani, ne parla esplicitamente come «“terza via” tra subalternità all'Occidente e movimenti di liberazione nazionale»5.
L'analisi del rapporto tra imperialismo e religione islamica è però attenta ad evitare una semplificazione comune nel mainstream che tende a ridurre l'islam ad un blocco omogeneo con tendenze autoritarie. Infatti, se si riconosce che il radicalismo islamico iniziò ad affermarsi a partire dalla rivoluzione iraniana del 19796, si distingue l'eterogeneità del fenomeno in relazione ai contesti, per cui divengono chiaramente distinguibili i due modelli dell'Arabia Saudita e dell'Iran. Nel primo caso la forte saldatura tra fondamentalismo religioso e radicalismo politico islamico avviene all'interno di uno sviluppo dipendente, in cui «il rapporto con i Paesi del centro economico mondiale impone a questi Paesi di rimanere nella condizione prevalente di fornitori di materie prime e di manodopera a basso prezzo», cioè vi è una economia prevalentemente extravertita per dirla con Samir Amin, in cui le imprese producono «non per il mercato locale, che rimane depresso, ma per i mercati europei»7. In questo tipo di economie gli interessi feudali, nel caso dell'Arabia Saudita prevalentemente legati alla rendita petrolifera, tornano prepotentemente al centro della scena, determinando una regressione all'economia parassitaria e all'islam primitivo. I legami di tali economie con il centro dell'imperialismo, tramite l'inserimento di questi nuovi rentier all'interno della classe capitalistica transnazionale, non fanno che rendere più pericoloso l'imperialismo creando legami sempre più solidi tra il centro e le visioni arcaiche e tradizionaliste dell'islam. L'Iran islamico, pur caratterizzandosi per «la violenta e sanguinosa eliminazione delle formazioni laiche e di sinistra e in particolare del partito comunista, tutt'ora illegale»8, con la rivoluzione islamica del 1979 seppe mobilitare la «base di classe tra le masse povere», compiendo quella che «è stata forse l'ultima rivoluzione antimperialista di successo del ciclo storico della decolonizzazione»9. Certamente l'egemonia del clero sciita iraniano seppe leggere in anticipo i tempi nell'area mediorientale e ciò gli consentì di sostituire abilmente lo strumento ideologico in grado di saldare le masse facendo venir meno l'elemento laico e socialista. Altrettanto certamente la rivoluzione del 1979 ha creato una rottura di faglia nell'area mediorientale le cui conseguenze si riverberano ancora profondamente nel presente e il saggio di Moro sembra coglierle appieno quando descrive le forme complesse di un conflitto che si trascina da ormai oltre un trentennio nella «lotta per l'egemonia locale»10.
Parallelamente, la centralità economica dell'area mediorientale ha inevitabilmente condotto ad una fase di sempre più aperta conflittualità nelle aree periferiche dove allo schieramento americano si è opposto con sempre maggiore fermezza quello russo-cinese. L'innalzamento del livello dello scontro viene descritto tramite le “proxy war” che hanno ormai preso piede in tutta l'area periferica (si pensi all'Africa dove all'avanzata cinese si oppone il neocolonialismo francese) e che sono giunte ormai fino all'interno dell'Europa (si pensi alla situazione in Ucraina). Insomma, tramite l'attenta ricostruzione della saldatura avvenuta tra imperialismo e religione e l'utilizzo di nuovi concetti, come per l'appunto quello di “proxy war”, l'autore ci spiega come oggi l'obiettivo non sia più necessariamente quello di «esercitare un controllo su una certa area per sfruttarne le risorse», bensì sia quello di «sottrarre un'area al controllo dei concorrenti o impedire che questi ne usino liberamente le risorse»11. In questo senso il caos diventa una vera e propria arma al servizio dell'imperialismo. E sempre in quest'ottica il fondamentalismo religioso diventa il vero e proprio braccio armato dell'imperialismo in grado di destabilizzare aree di interesse vitale, nonché di deviare l'attenzione nel centro stesso dell'imperialismo, consentendo di instaurare Stati di diritto eccezionale (perpetui?) e mantenere in piedi complessi militar-industriali sempre più mastodontici e comunque utili come sostegno al capitale in crisi. Dopo gli attacchi a “Charlie Hebdo” (nel gennaio 2015), di Parigi e Bruxelles (nel marzo 2016) diventa indispensabile guardare con attenzione al Medio Oriente e leggere con scrupolo l'attuale fase imperialista in cui il radicalismo islamico certamente diventa il protagonista, ma in un contesto di competizione globale che trascende il Medio Oriente stesso e il saggio di Moro ci aiuta proprio in questa necessaria opera di chiarificazione.
1 D. Moro, La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, pp. 110 – 111.
2 Ivi, p. 111.
3 Ivi, p. 40.
4 Ivi, p. 51.
5 Ivi, p. 69.
6 Ivi, p. 79.
7 Ivi, p. 82.
8 Ivi, p. 100.
9 Ivi, p. 96.
10 Ivi, p. 100.
11 Ivi, p. 108.
Ci sono riusciti. Dopo le botte e le minacce in stile mafioso a rappresentanti sindacali e dopo diversi blocchi forzati da camion, finalmente il padronato della logistica è riuscito ad ammazzare un operaio. E non un operaio dei più innocui, ma un operaio che aveva acquistato coscienza delle proprie condizioni, professore e iscritto all'USB uno di quei sindacati di base che stanno combattendo più duramente le condizioni di sfruttamento nel settore. Le mobilitazioni e gli scioperi spontanei in tutto il Paese sono partiti immediatamente. La solidarietà non è mancata da parte degli altri sindacati di base che si sono immediatamente uniti nel cordoglio e c'è da scommetterci che faranno altrettanto nella lotta. Ciò che vorrei fare in queste poche righe, oltre a rendere omaggio ad Abdelsalam Eldanf, è ragionare sulle ragioni di un tale omicidio.
Non sono passate che poche settimane dalla pubblicazione dei dati che certificano l'incremento in Italia della povertà assoluta (leggi qui) e il governo, senza pensarci su troppo, riesce a imbarcare il Paese in una nuova guerra, nonostante a marzo le piazze italiane abbiano chiaramente espresso la contrarietà a qualsiasi coinvolgimento militare dell'Italia.
E così, mentre il Presidente Obama, giunto a fine mandato, tenta tramite l'allargamento della Nato di proseguire l'opera di esportazione della democrazia in Europa dell'Est, aprendo così la strada della presidenza a Hillary Clinton, scopriamo che la ferita nel ventre profondo dell'America non è mai stata risanata.
Seppur sia un paradosso non da poco, nel mondo dell'opulenza e del consumismo la morte per inedia continua a sussistere e ad essere una minaccia pressante per milioni di persone. Pochi giorni fa l'Onu ha lanciato l'allerta carestia in Yemen per 7,6 milioni di persone ormai ridotte in condizioni al di sotto dei livelli minimi di sussistenza (vedi ricostruzione qui). L'Unicef aveva già riportato cifre secondo le quali i bambini denutriti ammonterebbero ormai a 1,3 milioni. Le cause ovviamente non sono affatto casuali, ma dettate da politiche ben precise. Il blocco dei porti imposto dall'Arabia Saudita ha aggravato notevolmente una situazione economica già critica in cui si importavano più del 90% dei generi di prima necessità. La guerra resta una delle cause principali e la spinta propulsiva dettata dalle commesse militari e dagli interessi in gioco spesso cancella ogni capacità critica. Le responsabilità politiche sono estese pure per l'Italia eppure la notizia è passata totalmente in secondo piano, come se l'aver venduto armi a chi ha massacrato un popolo riducendolo ora pure alla fame sia un fatto assolutamente non rilevante.
Ma le responsabilità politiche ricadono in primo luogo proprio sull'Onu il quale ha premiato i sauditi in tutte le sedi possibili, nonostante la stessa Arabia Saudita stia continuando a massacrare il popolo yemenita e attualmente sia il principale responsabile della carestia avendo distrutto le strutture portanti di un paese già fragile. Il finto stupore del rapporto sul rischio di una carestia spaventosa in Yemen lascia aperto il problema delle tragiche conseguenze dell'ennesima guerra in una zona già poverissima del mondo, ma non rileva assolutamente responsabilità e ancor meno autocritiche necessarie per chi si autoproclama giudice supremo dell'ordine mondiale.
Volendo poi ricorrere all'imparzialità aperta di Smith per scardinare gli assiomi dogmatici su cui è basato quest'ordine potremmo provare a chiedere a un iracheno cosa ne pensa della nostra democrazia esportata da quelle parti. Difficilmente sarà un parere entusiasmante. Eppure abbiamo un tale Verdini che in Tv sostiene di essere un vero liberale che non può esimersi dal votare Sì al referendum costituzionale! Invece a dar retta ai veri liberali, come Smith e Sen, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli per varie questioni, ma per fortuna abbiamo questi liberali che non si pongono minimamente alcun problema che non sia dettato dalle contingenze politiche.
Così, il mercato continua a produrre morti d'inedia e non è una responsabilità dell'autoritarismo o dell'inefficienza allocativa della supposta mano invisibile, ma una caratteristica intrinseca al funzionamento di un'economia di mercato che prevede accumulazione crescente di ricchezza che scarica sulle zone già povere conseguenze sempre più devastanti. Le guerre e il loro strascico di sofferenza, morte lenta di fame e consunzione non sono che l'altra faccia dei palazzi di Abu Dhabi costruiti coi petrodollari. Volendo ancora ricorrere a Sen potremmo rilevare come il nyaya (vedi Il Becco n. 9) non sia ormai altro che un matsyanyaya in cui il pesce grande divora il pesce piccolo, ossia una giustizia in cui l'Arabia Saudita può aggredire brutalmente un paese già povero riducendo sette milioni e mezzo di persone alla fame nella totale impunità. La principale causa resta la voracità di un capitale che non smetterà mai di spingere e fagocitare uno sviluppo sempre più distruttivo per chi come nello Yemen o in Afghanistan si trovava già in condizioni di estrema povertà e ora rischia seriamente la fame dopo guerre sempre più distruttive. Chissà se il cittadino iracheno citato poco sopra potrà sentirsi finalmente libero in condizioni simili, tra attentati giornalieri, terrorismo endemico e carestie?
Prendete le più alte autorità europee e inseritele nel contesto di una visita in Vaticano, condite il tutto di conformismo e ipocrisia e avrete una vaga rappresentazione di quanto è accaduto il 6 maggio durante la cerimonia di consegna del Premio Carlo Magno nientemeno che a Papa Francesco. Il discorso del papa, davanti a una platea tra cui il re spagnolo Felipe e il Presidente della BCE, è una lunga invocazione al rispetto dei diritti umani e al ritorno ai valori del Padri fondatori, ma sembra piuttosto velleitario: la citazione di De Gasperi, il richiamo alla solidarietà che non deve diventare elemosina (da che pulpito!), la capacità di integrazione come punto nodale. Insomma, alla luce dei fatti che hanno attraversato la periferia europea, dentro e fuori all'UE, sembra un richiamo isterico e fuori tempo massimo, insomma quanto mai sterile per via dell'avvitamento austeritario delle politiche pubbliche europee e della legittimazione già avvenuta delle barriere lungo la principale traiettoria dei profughi.
Mentre in una Grecia circondata da muri, al molo di Chios, i militanti di Alba Dorata tentano di annegare i profughi, evidentemente ancora non contenti delle deportazioni organizzate dall'Unione Europea ed effettuate da un'agenzia creata appositamente per “gestire le frontiere esterne” come Frontex (per il video vedi qui), i problemi alla base dei movimenti migratori non sembrano certo arrestarsi, bensì acuirsi.
Contro un intervento italiano in Libia
"Nei giorni scorsi la stampa libica ha rivelato che una delegazione militare e d’intelligence italiana “di alto livello” ha incontrato il generale Haftar nella base di di al-Marj, città della Cirenaica nota con il nome di Barce ai tempi della colonizzazione italiana. Non si può escludere che l’obiettivo della visita fosse anche quello di definire il rischieramento in quell’area di mezzi, velivoli e truppe italiane.
Circa la tipologia di intervento la Pinotti ha parlato di aiuti che i libici hanno già indicato di preferire: protezione del governo quando si insedierà a Tripoli, formazione e addestramento".
Se si cerca una lettura per sfrondare tutta la retorica accumulata negli scorsi anni anche a sinistra attorno a concetti importanti ma fumosi e ancora poco chiari quali “globalizzazione”, “finanziarizzazione” e “deindustrializzazione” il saggio di Domenico Moro “Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare ed euro”, Imprimatur 2015, euro 16,00 è assolutamente imprescindibile.
Sgomberare e sfruttare. A Calais come qui.
400.000 lavoratori sfruttati nei campi a 2,50 euro l'ora per 12 ore giornaliere, con tanto di pagamento dei costi di trasporto sui luoghi di lavoro e affitto delle baracche, in condizioni abitative, sanitarie e umane al limite della sopravvivenza (clicca qui). La notizia delle condizioni di lavoro di queste persone è arrivata il giorno in cui era programmato lo sgombero di oltre metà del campo di Calais (in foto), ribattezzato "giungla" dal gergo giornalistico che ha dunque già ridotto a subumani i suoi abitanti.
Per quantificare questo esercito di riserva che i capitalisti attraggono e gli Stati accolgono così confortevolmente lasciandolo alla mercé di padroni sempre più vicini allo status di schiavisti potete prendere come unità di misura proprio l'accampamento di Calais. Un campo che è diventato il modello di chi vuole le ruspe sugli abusivi come sfogatoio legalitario-politico e di un'Europa che disegna l'immigrazione come una piaga biblica da cui difendersi, il Belgio stesso d'altra parte ha ripristinato i controlli alla frontiera francese non appena è venuto a conoscenza dell'intenzione di disperdere i migranti accampati.
Questo campo del resto assomiglia ai tanti sparsi per l'Italia e presi di mira dalla destra nazionalista. La retorica, ormai è risaputo nella politica che abbiamo davanti, fa il resto. Ecco quindi che proprio nella Francia dei Je Suis Charlie lo sgombero di un accampamento di migranti diventa nientemeno un'"operazione umanitaria". Ma si sa, i francesi erano umanitari pure nelle loro colonie, non sanno limitarsi ad un intervento singolo, l'estetica dell'atto (reazionario) a loro non piace, son ben più pratici e metodici. Quindi, facendo un rapido riepilogo degli ultimi interventi umanitari sul campo di concentramento di Calais da parte delle forze dell'ordine francesi, si possono contare all'incirca una ventina di operazioni con cadenza quasi settimanale che hanno portato a ridurre il numero della popolazione dagli 8000 di novembre ai 6000 attuali. Ovviamente le immagini degli sgomberi delle tendopoli e delle baracche non sono edificanti per la retorica democratica, quindi raramente vediamo le immagini sui mass media. Tantomeno veniamo a conoscenza delle bastonature.
Tuttavia, negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare di Brexit e nonostante si parlasse quasi solo più della mobilità dei capitali da e verso la city, a quanto pare le persone contavano ancora. Infatti il vero spirito europeista è emerso immediatamente quando il Presidente inglese ha annunciato trionfante l'accordo anti-Brexit con un solidale "abbiamo riconquistato il controllo sulle frontiere, riuscendo a bloccare gli abusi dei lavoratori europei che sfruttano il nostro sistema di welfare". E se gli europei abusano del sistema di tutele britannico, che è noto dai tempi della lady di ferro per essere il meno esteso in Europa, pensate un po' cosa potrebbero fare le orde barbariche accampate a Calais! Ben altri epiteti di ben più antica memoria rispetto a quelli austeritari sarebbero spuntati dalla civilissima dialettica anglo-europea. Poi si è venuto a sapere che in realtà l'obiettivo era la fusione tra quelle che un tempo erano le due più grandi piazze d'affari dopo Wall Street e che oggi devono essere unificate in un'unica grande Borsa europea e l'entusiasmo dell'ideale europeista è svanito e si è tornati agli affari.
Ebbene, tornando invece al problema migranti che nel campo di Calais giustamente sconvolge le ultime coscienze democratiche rimaste in Europa che si preoccupano dell'ultimatum annunciato dal governo francese si scopre che, se si volesse per scrupolo misurare questo esercito di riserva che lavora quotidianamente nell'Italia del post-Expo in fase di ritorno alla pastorizia come unica alternativa programmata alla deindustrializzazione, dovremmo moltiplicare per 66 la popolazione del campo e distribuirla nelle campagne da Nord a Sud e concentrarla in particolare nelle cascine più industrializzate del Made in Italy di qualità. Si scoprirebbe così che l'80% dei lavoratori del settore agorindustriale è composto da manodopera straniera sottoposta a livelli di sfruttamento che l'Occidente benestante aveva dimenticato da oltre un secolo. Lavoratori che sono per lo più intrappolati da un'Europa che non solo ha trasformato i propri confini in barriere naturali contro cui far schiantare popolazioni in fuga, ma che ha iniziato ad erigere barriere materiali sempre più diffuse e numerose al suo interno. Dapprima generosamente offerte agli stati lungo i quali si snodava il flusso migratorio e ora in voga pure in quelli virtuosi come l'Austria.
Ed ecco che, un'altra volta, il destino della Grecia, in procinto di essere circondata dai recinti, sembra diventare sempre più un destino comune al netto delle ultime mosse dell'Austria e della Francia (giusto per non dimenticarci gli involucri umani avvolti nei teli antigelo a Ventimiglia). E questi 400.000 reietti del mondo del lavoro, che neppure la destra osa attaccare più di tanto per le evidenti convenienze, vengono semplicemente dimenticati e lasciati galleggiare o annegare a seconda della forza rimasta ai singoli in un altro mare, fatto questa volta di lavoro, salario e condizioni socio-sanitarie inumane, proprio come a Calais, solo che qui nessun magistrato si sdegna più di tanto e pochi giornalisti vi affluiscono. Vuoi vedere che forse è questa la ragione per cui è meglio evitare le grandi concentrazioni? Oggi abbiamo l'equivalente di 66 campi come quello di Calais, di lavoro questa volta e non di concentramento, dislocati in tutta Italia, ma nessuno li vede. Escono rapporti che presto cadono nel dimenticatoio. Un bel paradosso che tuttavia non fa altro che rappresentare l'economia capitalista in cui la forza-lavoro si vende e si compra liberamente sul mercato, ormai quasi tutto nero. Sarà difficile ottenere maggior flessibilità e produttività di così, ma senz'altro questo limite resta un obiettivo politico da abbattere da parte di chi ci governa, possiamo scommetterci. Si assume esattamente quel paradigma per erodere i diritti rimasti: una maggiore produttività, un minor salario, incrementi di merci vendibili e acquistabili sul mercato. Così esattamente come Cameron individua negli europei in Inghilterra degli indebiti sfruttatori del welfare inglese ridotto all'osso nonostante gli incrementi dei livelli di sfruttamento, oggi possiamo vedere il volto degli indebiti sfruttatori del nostro welfare in qualcun altro, purché non sia identificabile nel padrone ma in un altro il più possibile simile a noi e in quest'ottica rimane ancora molto da erodere: a livello sanitario, abitativo, salariale. Cameron lo sa bene, resta da vedere se quanti festeggiano per gli sgomberi a Calais l'hanno capito.
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