Venerdì, 12 Gennaio 2018 00:00

Se Carmen non muore – il politicamente corretto e la cultura silenziata

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Se Carmen non muore – il politicamente corretto e la cultura silenziata

Si racconta che Lee Van Cleef, durante le riprese di “Il buono, il brutto, il cattivo”, si trovava estremamente a disagio nella scena in cui il personaggio che interpretava, il sociopatico assassino Sentenza, picchia una prostituta, interpretata da Rada Rassimov. Questo disagio rendeva la scena assolutamente non credibile, al punto che la Rassimov stessa dovette incitarlo a picchiarla in maniera più convincente; la versione finale della scena in questione non mostra nulla delle riserve di Van Cleef. Questo significa che Van Cleef sia riuscito ad essere un uomo violento, o che “Il buono, il brutto, il cattivo” sia apologetico nei confronti della violenza sulle donne? No. Significa semplicemente che Van Cleef era un ottimo attore, che è riuscito ad interpretare una scena credibile di un ottimo film tenendone fuori il suo disagio personale.

A Lee Van Cleef avrebbe potuto pensare il tenore americano Michael Fabiano, quando in nome della parità di genere ha rifiutato di rappresentare il suo duca di Mantova come un violentatore arrogante ed egocentrico, cosa che il duca in questione ad ogni evidenza è. Nessuno potrebbe pensare che il duca di Mantova sia un personaggio positivo, esattamente come non lo si può pensare di Sentenza; ed esattamente come non lo si può pensare di don José, che nella Carmen mette in scena uno dei più celebri femminicidi della storia dell’opera lirica.

La storia in questione sembrerebbe abbastanza lineare: Carmen è una donna indipendente, non vuole legami e non sottostà a ricatti morali; la sua storia con l’ex soldato don José finisce burrascosamente, lei si unisce ad un altro uomo e l’amante abbandonato la uccide. Non è difficile rendersi conto che un uomo che si comportasse come Carmen difficilmente andrebbe incontro alla stessa sorte – e che quindi, né Mérimée, né Bizet guardano con approvazione o anche solo con indulgenza a don José. Ma evidentemente l’implicito disprezzo per il personaggio non è abbastanza per il Maggio Musicale Fiorentino che, per non mettere in scena un atto di conclamata violenza di genere, ha deciso di cambiare il finale dell’opera, facendo uccidere don José da Carmen. La soluzione scelta per modificare la Carmen – il totale ribaltamento del finale, e non, ad esempio, un don José fermato in extremis dalla polizia – lascia perplessi anche a fronte della motivazione addotta: non è chiaro come una donna che uccide un uomo possa essere considerata più accettabile di un uomo che uccide una donna. Non solo l’opera perde gran parte del significato – la stigmatizzazione di una realtà inaccettabile attraverso la sua rappresentazione – ma viene proposto, come uscita da una società maschilista e permeata dalla violenza di genere, uno scenario in cui la violenza non è eliminata, è semplicemente ribaltata. Di fronte al problema, reale e concreto, della violenza di genere, la soluzione non si può basare su un’iterazione di una violenza già fin troppo diffusa: questa soluzione ha mostrato di avere i suoi limiti già nella Babilonia di tremila anni fa. L’idea da perseguire è una società in cui la violenza, privata e pubblica, non abbia spazio, e la rappresentazione revisionata e corretta del Maggio Musicale non è di un centimetro più vicina a questo ideale della Carmen originale.

La domanda a questo punto non è che senso abbiano l’opera, e più in generale la letteratura, veriste dopo essere state pesantemente rimaneggiate e distorte in nome della sensibilità attuale e del politicamente corretto. La difficoltà a comprendere la critica implicita in una rappresentazione fedele di una società sessista, e la conseguente tendenza a definire sessista la rappresentazione stessa, sono già state trattate in maniera più che esauriente (vedi qui). È però possibile prendere spunto dall’apparentemente innocua ed elitaria opera lirica per parlare di un pattern di progressiva limitazione dell’espressione artistica e letteraria in nome della sensibilità dei fruitori, che parte dalla comprensibile richiesta di non essere esposti per forza a elementi culturali che disturbano ed arriva alla richiesta di bandire dai corsi di letteratura “Le avventure di Huckleberry Finn” perché utilizza la parola “negro”. Se questo processo origina da un’assolutamente legittima riflessione sull’esposizione di persone con disturbo post-traumatico da stress a contenuti letterari disturbanti, ben presto si è quindi trasformato nel sistematico appiattimento acritico e astorico di qualunque prodotto culturale umano su una sensibilità attuale. A mio vedere l’alterazione delle opere liriche per renderle più accettabili va in questa stessa direzione; paradossalmente, il loro essere disturbanti è apertamente riconosciuto, ma non il fatto che si tratta di un elemento fondamentale per la loro efficacia come prodotti culturali.

Un primo problema di questa impostazione culturale è evidente: le opere letterarie sono sempre più valutate sulla base della loro appropriatezza – del loro corrispondere ad una sensibilità diffusa – che diventa in molti casi più importante della qualità letteraria dell’opera in questione. Pensando ai capolavori della letteratura mondiale, dal “Ritratto di Dorian Gray” a “Cuore di Tenebra”, dal “Tamburo di Latta” a “Cent’anni di solitudine”, ben pochi sarebbero riusciti ad arrivare alla pubblicazione con gli standard morali che una gran parte della scena intellettuale pretende in questo momento. Tuttavia non è la cosa più preoccupante di questa tendenza verso la non rappresentabilità delle cose: non è difficile fa un parallelismo con il divieto sociale di nominare elementi problematici a livello morale e sociale vigente durante l’età vittoriana. La principale conseguenza di questo silenzio è stata l’impossibilità di definire chiaramente le situazioni di abuso, lo scarico delle conseguenze sulle fasce più svantaggiate della popolazione, e in definitiva un drastico aumento di quegli stessi abusi talmente esecrati da non poterne parlare. Allo stesso modo, questo vittorianesimo di ritorno nasce nell’ambito di una classe culturalmente e socialmente privilegiata, che si racconta indenne dai vari mali morali impedendone la rappresentazione; questo ovviamente non è sufficiente a cancellarli, e infatti rimangono, nel silenzio dettato dal buon costume. E come allora, sono di solito i più deboli a subire i danni peggiori.

L’assassinio di Carmen, ripetuto per ormai centoquarant’anni sui palcoscenici di tutto il mondo, non afferma che è bello uccidere le donne; dichiara che queste situazioni si verificano, mette in scena una verità scomoda, che non vorremmo vedere. Non tutta l’arte è rivoluzionaria, ma quella che lo è di solito non fa altro che esporre verità scomode, impedire che vengano nascoste sotto il tappeto della rispettabilità sociale. La riscrittura dei finali, la messa al bando dei libri disturbanti, l’addolcimento di ruoli teatrali abietti non sono una soluzione: fanno parte del problema, un nevrotico raccontarsi come il migliore dei mondi possibili, un sistematico descrivere i mali sociali – tra cui la violenza di genere – come aberrazioni individuali, ogni volta singoli casi nonostante il loro ripetuto manifestarsi. Per questa società che nega sistematicamente l’esistenza – e l’evidenza – dei problemi non c’è terapia migliore che essere costretta a guardare.

Ultima modifica il Giovedì, 11 Gennaio 2018 17:05
Joachim Langeneck

Joachim Langeneck, dottorando in biologia presso l'Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell'ambito dell'etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.

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