Scenografia scarna, sobria, un tavolino e un armadio bianco sulla parete. Ambientata nella Napoli del dopoguerra e la scelta non risulta casuale essendo quello un periodo di disillusioni, di abbrutimento, del “tirare a campare” e di diffidenza tra uomini, capaci di vedere in ogni faccia un possibile nemico, in cui ben si rispecchia la vicenda drammaturgica. L’opera di De Filippo parte da un’atmosfera apparentemente rilassata, quella della “rispettabile” – de jure ma, come si vedrà, poco de facto – famiglia Cimmaruta, per poi scivolare gradualmente in una dimensione quasi metafisica e tragicamente ironica, sospesa tra illusione e realtà, in cui la verità – o la non verità – appare trasfigurata in quell’altra, ambigua del sogno, unico conforto alle inquietudini umane. mettendo a nudo, con feroce sarcasmo, l’ipocrita falsità dei personaggi, smascherando quella bassezza morale celata dietro il velo dell’apparenza; bassezza morale che, in fondo, riguarda un po’ tutti noi. Infatti, quello che si respira alla fine della pièce è proprio la sensazione amara di colpevole complicità in quanto uomini, in quanto esseri umani maledettamente e irrimediabilmente fallibili. Come se delle voci di dentro venissero clandestinamente a ricordarci, che per quanto possiamo fingere di non sapere, di non sentire, quell’ipocrisia dei personaggi che si alternano sul palco è anche la nostra stessa ipocrisia e della nostra società, sempre più inquinata da dinamiche di sospetto, vacua apparenza, cinica indifferenza, ignavia e fasullo perbenismo.
I due Servillo interpretano i fratelli Saporito, Alberto e Carlo, l’uno di animo nobile, l’altro squallido e gretto, dirimpettai della famiglia Cimmaruta e allestitori in fallimento di feste popolari. Quando Alberto – interpretato da Toni – irrompe in casa Cimmaruta, accusando il capo-famigia di omicidio, si scatena il putiferio. La polizia porta tutti i Cimmaruta in commissariato, ma non venendo fuori alcuna prova li rilascia mentre Alberto viene intimato a restare in casa col rischio di venir presto arrestato nel caso di querela per calunnia, da parte della famiglia. L’accusa di omicidio si scopre derivare da un sogno lucidissimo fatto da Alberto, talmente lucido da vedere persino dei documenti che avrebbero incriminato il colpevole. Un sogno talmente lucido e realistico da innescare il dubbio, in Alberto stesso, se di sogno davvero si tratti o di realtà. Sogno o realtà, in ogni caso, l’accusa ha insinuato il germe del male nella coscienza di tutti i personaggi, che in questo pirandelliano gioco di finzione e realtà, in questo camuffarsi della verità, in questo suo dissimularsi e tingersi di beffarda doppiezza, rivelano la loro peggiore meschinità. Il fratello stesso di Alberto, Carlo – personaggio che, come accennato, appare fin da subito piuttosto viscido e “abbuffino” – appena saputo del probabile arresto del fratello non esita, come prima cosa, a chiedergli di firmare il lascito dei beni in sua gestione. Ma sono soprattutto i Cimmaruta, che ormai sobillati dal’insinuazione di Alberto, si precipitano uno ad uno, in casa Saporito, accusandosi l’un l’altro, e chiedendo all’accusatore, con esasperante insistenza, di tirar fuori quei famosi documenti che Saporito aveva detto di possedere. Alla fine, per salvaguardare il buon nome della famiglia, i vari Cimmaruta, prima presi a gettarsi sospetti e illazioni l’uno contro l’altro e a recitare una sdolcinata affettuosità nei confronti di Alberto nella speranza di ingraziarserlo, si riuniscono in un’ipocrita riappacificazione, concordi sul fatto che per la propria salvezza della propria nomea devono assassinare Alberto, prima che questo tiri fuori i documenti probatori. Tutti concordi, eccetto la serva, buona e ingenua ragazza che corre subito ad avvertire Alberto.
Oltre a lei, l’unico personaggio che risulta emarginato da queste dinamiche di falsità e subdola ruffianeria è lo zio Nicola, strano individuo che compare in scena solo per lanciare sputi, e che, dal letto in cui quasi vive, riparato da una tenda che lo separa dal mondo e forse, lo tutela dalla mediocrità di quest’ultimo, comunica tramite una specie di codice morse fatto attraverso fuochi d’artificio che soltanto Alberto riesce a comprendere. L’enigmatico personaggio ha scelto di estraniarsi dalle grette vicende di questo mondo trincerandosi in un silenzio che però probabilmente esprime più di tante inconsistenti parole. Quel silenzio verrà interrotto, appena prima di morire, soltanto da un’ultima – e probabilmente prima dopo tanto tempo – frase, che nella sua brevità riassume tutto il senso di tutto questo grande non senso della pochezza umana e del suo vacuo brusio, del suo vuoto rumore: “per favore un po’di pace!”. L’isolamento muto dello zio e i suoi sputi sono più nobili di tutta quella stucchevole commedia umana che mimando una finta gentilezza si alterna di fronte a un Alberto sempre più disgustato e schifato dalla bassezza del genere umano: “Voi volete sapere perché siete assassini ... in mezzo a voi magari ci sono pure io e non me ne accorgo ... Avete sospettato l'uno dell'altro ... Io vi ho accusati e voi non vi siete ribellati, lo avete ritenuto possibile. Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio familiare! La stima, don Pasqua', la stima! ... La fiducia scambievole ... senza la quale si può arrivare al delitto.» Grida Alberto, e poi una volta uscita la misera folla rumorosa, si abbandona, desolato, su una sedia, perché consapevole del fatto che di quella triste e ridicola commedia umana che tanto lo ripugna, non solo è testimone, ma probabilmente anche impotente complice dato che pure lui – come del resto noi tutti – ne fa parte e ne condivide la stessa sporca coscienza, prendendo atto, quasi con dolorosa rassegnazione, di non poter far nulla per redimersi. E come amaro è il disgusto del protagonista – e nostro – allo stesso modo amaro è anche il riso che molte battute e vari monologhi riescono a strappare allo spettatore, il quale mentre si diverte, allo stesso tempo si sente come riversare dentro di sé tutta la pochezza dell’umanità che sì, sfila di fronte a lui sul palcoscenico, ma che ritrova, tristemente ahimé, anche in sé e nel proprio mondo:
“Eduardo scrive questa commedia sulla macerie della seconda guerra mondiale, ritraendo con acutezza una caduta di valori che avrebbe contraddistinto la società, non solo italiana, per i decenni a venire. E ancora oggi sembra che Alberto Saporito, personaggio – uomo, scenda dal palcoscenico per avvicinarsi allo spettatore dicendogli che la vicenda che si sta narrando lo riguarda, perché siamo tutti vittime, travolte dall’indifferenza, di un altro dopoguerra morale” (Toni Servillo).