Il loro primo disco Sleepdrunk Seasons (2007) è una sorta di manifesto di una nuova stagione di musicisti confusi e spaesati ma allo stesso tempo eccitati e elettrizzati di fronte all’improvvisa centralità internazionale assunta dalla scena islandese.
Sleepdrunk Seasons è un oggetto strano, un giocattolone di pop barocco obliquo e stralunato, un susseguirsi frammentato di progressioni ritmiche. A tratti megalomane a tratti sognante, è quanto ci si può aspettare dallo stile aperto e inclusivo di Högni Egilsson, leader dei già menzionati Gus Gus e qua spalleggiato da strumentisti di grande valore che impreziosiscono le sue trovate melodiche e le sue sublimi linee vocali dirottando il suo indie pop su coordinate orchestrali e classiciste. Il risultato è un disco solenne ma mai ridondante, una prova di classe straordinaria anche se non sempre completamente messa a fuoco. Il successivo Terminal (2009) è persino più ambizioso e barocco, eccessivamente pomposo anche se a tratti geniale, mentre l’intimista e spartano Enter 4 (2012), altro disco di spessore, mette in luce degli Hjaltaljn diversi ma non meno umili. La sensazione è che il disco della definitiva consacrazione possa ancora arrivare.
Protagonisti più recenti di una via enfatica e ricercata al pop, sono invece gli Agent Fresco che sull’arioso e suggestivo A Long Time Listening (2010) mettono in scena un art pop vicino al new romantic intervallato da bizzarre progressioni post-rock, per un risultato al limite del cross-over. Il risultato è tanto un bizzarro quanto brillante scorcio espressionista.
Un approccio opposto è quello invece della crescente scena folk islandese che, lontana dai fasti e dai barocchismi epicheggianti, propone un approccio sobrio e improntato alla semplicità. Uno dei frutti più maturi di questo movimento è quello del complesso Seabear, autore di un indie folk delicato e gentile, sognante e malinconico. Dopo un paio di lavori autoprodotti, il gruppo rilascia lo strepitoso The Ghost That Carried Us Away (2007) pieno di lievi ballate intimistiche di eccezionale intensità: molteplici i riferimenti, da Beck (“Libraries”) a Bon Iver (“Cat Piano”) a Nick Drake (“I Sing I Swim”) per un capolavoro di raffinato lirismo. Sfortunatamente, il successivo We Built a Fire (2010) delude le aspettative, ma la qualità inferiore sconta un progressivo distacco dei membri del gruppo, ormai più impegnati a portare avanti le loro carriere soliste, rispetto al progetto originale.
In particolare, il frontman Sindri Sigfússon, arriverà a pubblicare diversi dischi sotto le pseudonimo di Sing Fang e, abbandonati i toni dimessi e naif dei Seabear, si cimenta in un interessante folk pop stravagante di derivazione Beck-iana, artistoide e con frequenti incursioni nell’elettronica.
Il side-project più convincente è però quello dell’altra grande personalità dei Seaber, vale a dire la talentuosa polistrumentista Sóley. Nell’attesa di Ask the Deep, in uscita nei prossimi mesi, è consigliabile godersi il suo primo We Sink (2011), un folk sognante e surrealista da camera per chitarra, piano e voce.
Se i Seabear sono il migliore gruppo folk islandese in circolazione, il giovane (classe 1992) Ásgeir è di gran lunga il cantautore più interessante a cimentarsi in questo genere musicale. Lanciato dal suo ammiratore della prima ora, il grande folk singer danese John Grant, Ásgeir è in realtà più influenzato dal mai troppo elogiato Bon Iver. Quel che conta è che il primo lavoro del cantautore islandese, Dýrð í dauðaþögn (2012), ristampato l’anno successivo interamente tradotto e reinterpretato in Inglese per il mercato internazionale col titolo di In the Silence, è un disco forse eccessivamente derivativo ma raffinato e magistralmente concepito, ottimamente arrangiato a dalla ricerca melodica pressoché perfetta.
Dolente e intimo, anche il progetto indie folk Low Roar del californiano residente a Reykjavik Ryan Karazija (che ora si avvale in pianta stabile di due strumentisti islandesi e uno americano), inseribile a pieno titolo nella scena dell’isola dei ghiacci. Bravissimo del vivo, il complesso crea stupende atmosfere nostalgiche sull’omonimo Low Roar (2011), di una deprimente bellezza in stile slow-core e vicina a gruppi come American Music Club e Red House Painters. Buono, anche se forse meno efficace, anche il successivo “O” (2014).
Se a vario titolo, buona parte degli artisti islandesi sono avvicinabili alla scena indie, i gruppi che interpretano in senso stretto questo genere sono un numero piuttosto ristretto. Uno dei più importanti, oltre che fra i primissimi della nuova generazione a calcare le scene, è quello dei Mammút che esordiscono col loro indie rock energico e febbrile già nel 2006 con un album omonimo oscuro e potente. La consacrazione arriverà col brillante Karkari (2008), fra vocalizzi isterici, schegge punk, strutture oblique ed eccitanti refrains power pop.
Nonostante fossero considerati anni addietro come la next big thing islandese, i Mammút non sono mai riusciti a sfondare all’estero. Al contrario, ciò è riuscito benissimo a un altro complesso attribuibile alla scena indie, ma dal potenziale radiofonico ben più deciso: si tratta degli Of Monsters and Man. Il loro esordio, My Head Is An Animal (2011), farcito di motivetti intriganti e da ballate energiche e corali, pubblicato inizialmente da una piccola etichetta islandese, verrà ben presto ristampato dalla multinazionale americana Universal che si decide a mettere i giovani sotto contratto dopo il successo strepitoso e inaspettato che stava avendo il loro singolo di lancio, quella “Little Talks” usata successivamente anche per lo spot natalizio della Vodafone. Al di là del successo, l’album, davvero energico e frizzante, regala piacevoli momenti indie folk e indie pop che li avvicina alle buone cose fatte vedere da Mumford & Sons. Fra i tanti gruppi “alternativi” ad emergere dall’underground, gli Of Monsters and Man meritano sicuramente più di altri la fama che stanno ottenendo. L’attesa per Beneath the Skin, in uscita a Giugno, è davvero spasmodica.
Meno famosi, ma non meno validi, i Rökkurró si fanno apprezzare per un approccio policromatico e timidamente giocoso alla materia pop e folk, che interpretano con dolce leggerezza e vivace tenerezza. Dopo il difficilmente reperibile Það Kólnar Í Kvöld...(2008), il gruppo riceve l’attenzione della critica a seguito della pubblicazione dell’ottimo Í Annan Heim (2010; trad: in un altro mondo), tavolozza piena di cromie nostalgiche e ninnananne sgangherate per un lirismo umile e genuino.
La terra dei ghiacci non è però solo patria del pop e del folk: sotto l’influsso dei maestri Sigur Ros, continua a godere di buona forma la scena post rock. Estremamente evocativi dal vivo, i giovanissimi For a Minor Reflection hanno come punto di riferimento gli scozzesi Mogwai, da sempre uno dei fari più luminosi del movimento. L’autoprodotto Reistu þig við, sólin er komin á loft...(2007) è davvero un prezioso scrigno di stimoli percettivi, sospesi in una coltre strumentale ovattata e dolente. Il successivo Höldum í átt að óreiðu (2010) è un album di passaggio che, pur meno convincente, ne conferma lo straordinario potenziale.
Diversa la storia delle Amiina. Nato come quartetto d’archi tutto al femminile al servizio dei Sigur Ros, il progetto per diversi anni era solo funzionale ad accompagnare il gruppo di Jonsi dal vivo e nello studio di registrazione per le parti più orchestrali del suo repertorio. Il primo tentativo di sviluppare un percorso personale avviene nel 2004 con l’EP AnimaminA ma è solo sull’esordio sulla lunga distanza che il quartetto mostra pienamente una sua originale proposta stilistica: Kurr (2007) è un evocativo percorso fra i meandri dell’universo sonoro islandese, fra tenui suggestioni folktroniche in stile Mùm e nostalgici e spogli paesaggi alla Sigur Ros. La definitiva consacrazione arriva però tre anni più tardi con Puzzle (2010) che con l’aggiunta di un batterista e della strumentazione elettronica, impone una decisa virata stilistica al gruppo. Le Amiina si mettono ora a strutturare le composizioni, fanno riapparire una sezione ritmica, ridanno centralità al cantato. Il risultato è davvero convincente: in bilico fra sperimentazione e melodia, Puzzle è al contempo cerebrale ed immediato, spazioso ed intimo. Acquarelli folk convivono con lunghe digressioni oniriche mentre su tutto svetta la meraviglia pop di pezzi come “What Are We Waiting For?” o di “Over and Again”.
Sempre caratterizzato da un approccio atmosferico e dal ricorso a una strumentazione estremamente variegata, il polistrumentista Ólafur Arnalds vive sempre in bilico fra musica alta e popolare: il suo approccio contemporaneo alla musica classica si avvale tanto del pianoforte e degli archi, quanto della strumentazione elettronica. L’esordio Eulogy for Evolution (2007) mette in musica il percorso della vita, dalla nascita alla morte, in uno straziante crescendo drammatico. L’album, di toccante lirismo, si muove nella scia della classica moderna e nel solco già tracciato dal grande compositore Jóhann Jóhannsson, suo connazionale ed autore, tanto per citare la sua opera più recente, della colonna sonora de La teoria del Tutto. Anche Ólafur del resto si dedicherà al mondo del cinema, componendo, fra le altre cose, la colonna sonora di Gimme Shelter. Sul versante strettamente musicale invece, a Eulogy For Evolution, faranno seguito le buone prove di ...And They Have Escaped The Weight Of Darkness (2010) e For Now I am Winter (2013) che progressivamente aggiungeranno al sound elementi più rock ed elettronici, senza che la formula di fondo venga comunque tradita.
Infine, occorre spendere alcune righe per la scena più propriamente elettronica. Gli FM Belfast, alfieri delle sonorità synth ed electro pop dell’isola, imperdibili dal vivo, grazie ai loro entusiasmanti shows cabarettistici, sono composti dal nocciolo duro dei due Árni (Rúnar Hlöðversson e Vilhjálmsson) e Lóa Hlín, ma a seconda delle esigenze il progetto si dilata fino a sette e più membri (presi a prestito da altri gruppi come Mùm, Skakkamanage o Retro Stefson). Il già classico How to Make Friends (2007), raccoglie stravaganti ed estroverse trovate electro, in un marasma di suoni caldi, appiccicosi e sensuali. Giocosi inni sintetici quali “Underwear”, che descrive ironicamente la bizzarra follia degli Islandesi (“we are running down the street in our underwear/ cause nothing ever happens here”) o “Par Avion” che sogna una vita nei caldi Caraibi, nella loro naiveté, nascondono in realtà una sapiente abilità compositiva e una capacità di coinvolgimento rara. Su ottimi livelli anche il successivo Don’t Want to Sleep (2011) in cui emerge maggiormente un loro lato synth pop più freddo e secco. La glaciale “We fall” e la robotica “Vertigo” conducono rispettivamente nei territori cari a Knife e Gary Numan. C’è però anche lo spazio per i vecchi e solari divertissement: è il caso dell’anfetaminica “I don’t want to go sleep either” e dell’indimenticabile inno generazionale di “Believe”. Delude invece il più recente Brighter Days (2014) che tradisce una certa confusione sulla strada stilistica da intraprendere, ma quello a firma FM Belfast resta uno dei progetti più interessanti emersi recentemente in Islanda.
L’electro più hipster e ipnotica è invece quello dei Sometime, eccentrico e oscuro complesso artistoide e decadente. Le canzoni che compongono la colonna sonora del bizzarro e sperimentale corto “Acid Make-Out” (2012), fra pulsioni pulp e ritmi noir, si avvicina al synth pop cinematico dei Chromatics ma con uno stile più stralunato e onirico. Ancora più difficile da reperire (ma ascoltabile su Spotify) è invece il loro enigmatico esordio, il manifesto dandy di Supercalifragilisticexpialidocious (2009), veramente affascinante nel suo assurdo equilibrio fra narcolessia permanente e disagio post-lisergico.
In questa rassegna, si è cercato di mettere in evidenza il contributi di quelli che si ritengono i migliori musicisti della scena musicale islandese. Occorre ricordare che quest’ultima, tuttavia, si compone di molti altri gruppi, alcuni dei quali meritano almeno una menzione. Ricordiamo dunque, a margine, almeno l’elettronica downtempo e minimale dei Samaris, la folktronica delle gemelle Ákadóttir nel loro progetto Pascal Pinon, la wave degli Skakkamanange, il calderone pop, dance e world dei Retro Stefson e l’indie rock da camera dei Valdimar.
La vivacità della scena islandese fa presagire altri anni di grande effervescenza artistica. Ormai sul suolo islandese, più generazioni di artisti sono presenti simultaneamente, mentre nuovi talenti emergono di continuo dalle fucine di Reykjavik. Gli sviluppi si preannunciano eccitanti.
Discografia Consigliata
Agent Fresco - A Long Time Listening (Record Records, 2010)
Amiina - Puzzle (Amínamúsik, 2010)
Ásgeir - Dýrð í dauðaþögn (Sena, 2012)/In the Silence (One Little Indian, 2013)
FM Belfast – How to make Friends (World Champion Records, 2007)
For a Minor Reflection - Reistu þig við, sólin er komin á loft...(Autoprodotto, 2007)
Hjaltalín - Sleepdrunk Seasons (Kimi Records, 2007)
Low Roar - Low Roar (Tonequake Records, 2011)
Mammút – Karkari (Record Records, 2008)
Of Monsters and Man - My Head Is An Animal (Record Records/Universal, 2011/2012)
Ólafur Arnalds - Eulogy for Evolution (Erased Tapes, 2007)
Rökkurró - Í Annan Heim (12 Tónar, 2010)
Samaris – Samaris (One Little Indian, 2013)
Seabear - The Ghost That Carried Us Away (Morr Music, 2007)
Sóley - We Sink (Morr Music, 2011)
Sometime - Supercalifragilisticexpialidocious (Itsuka, 2009)