Quello di Phil Elverum è un nome noto agli amanti della bella musica, così come quello del suo progetto più recente, Mount Eerie. Delle sonorità lo-fi tra il sognante e l'evocativo che lo avevano reso un nome imprescindibile, però, ultimamente resta poco. In mezzo la tragedia di Geneviève Castrée, fumettista canadese francofona, musicista ed eccezionale esempio di artista a tutto tondo, moglie, collaboratrice e madre della figlia di Elverum, uccisa da un cancro a 35 anni. A lei, ed alla sua scomparsa, sono dedicati gli ultimi tre album di Mount Eerie: A Crow Looked At Me, Now Only ed il live album (after).
Le nuove sinfonie dell'elettronica: una conversazione con BRUCH
Tra le vene artistiche contemporanee che si distanziano dal mainstream pur rimanendo accessibili a un pubblico vasto, la musica elettronica è in un certo senso tra le più fortunate. Con la sua congenita attenzione al suono in senso esteso è riuscita spesso ad aggirare l'ossessione maturata in ambito pop per la voce al di sopra di tutto, producendo risultati di notevole complessità e diventando per molti versi una testa di ponte dell'avanguardia musicale.
Agent of Change: la legge che protegge la musica dalla speculazione
'Gentrification' è una parola sinistramente familiare per chi si occupa dei problemi legati alla crescita delle grandi città, e in particolare delle tensioni di classe che le contraddistinguono.
Yumi Zouma: il nuovo pop viene dalla Nuova Zelanda
Alla prima prova sulla lunga distanza gli Yumi Zouma non sbagliano. Adorato dagli hipster giapponesi e celebrato dalla critica, il breve EP dello scorso anno, nonostante abbia suscitati pareri molto postivi, non poteva essere considerato un punto di arrivo, ma semmai, la fine di una fase semi-amatoriale che doveva necessariamente portare alla realizzazione di qualcosa di più ambizioso e compiuto.
National e Beirut animano il bizzarro progetto LNZNDRF
Recensione dell'omonimo album d'esordio dei LNZNDRF
L'impronunciabile appellativo LNZNDRF è il moniker dietro il quale si nascondono tre artisti navigati delle scena alternativa statunitense. Due di questi sono Bryan e Scott Devendorf, la coppia di fratelli meno famosa ma non meno importante nelle alchimie sonore dei National, una delle band più emblematiche e celebrate dell'indie rock degli ultimi quindici anni (non perdeteveli il 12 Luglio al Pistoia Blues Festival, nella loro unica data italiana). Il terzo, è Benjamin Lanz il polistrumentista dei non meno noti Beirut, che si sono costruiti un solido seguito di sostenitori grazie a deliziosi album di folk e world music come Gulag Orkestar o The Flying Club Cup.
Il risultato della collaborazione fra questi tre artisti è l'omonimo LNZNDRF, una raccolta di otto composizioni che ha il coraggio di allontanarsi sia dai territori cari a National che da quelli affini ai Beirut. Si tratta infatti di un album d'esordio dai contorni psichedelici e caratterizzati dal prevalere di lunghi pezzi segnati da una strumentazione aperta ed atmosferica. Si riducono allora al minimo le nervose e oscure tribolazioni post-punk care ai National, così come le tentazioni world music e balcaniche dei Beirut sono pressoché assenti.
Il suono acido dei LNZNDRF flirta piuttosto con post-rock e shoegaze, nelle lunghe digressioni solenni e atemporali che caratterizzano il cuore pulsante della loro cifra stilistica (il crescendo di "Future You" coi suoi loop chitarristici e linee pulsanti di basso, o la sognante "Hypno-Skate", un trip allucinato per tastiere sinuose e chitarre vorticanti). L'apice di questa esigenza comunicativa è raggiunto con la conclusiva e spettrale "Samarra", coi suoi synth martellanti e ossessivi che si sviluppano in un coacervo di flussi rumoristici, in un progressivo prevalere entropico di una elettronica malata e occulta, vicina al Kraut Rock.
Molto riuscita anche "Beneath The Black Sea", forse il momento più alto del disco, dove l'impostazione ritmica alla National non nasconde l'ambizione del trio di dilatare il suono a dismisura: ne esce un bizzarro e riuscitissimo connubio di neo-psichedelia, synth pop oscuro e malinconico anni ottanta alla New Order con un indie rock introverso dalle velleità cantautorali.
Non tutto è oro quel che luccica però, e nella estrema varietà di stili e influenze, che rende il progetto piuttosto eterogeneo, emergono anche esperimenti non del tutto riusciti, come l'indie- pop al silicio di "monument", una versione più post-prodotta è innaturale di qualche classico electro pop, o il baraccone anni ottanta di Kind Things, un calderone di appiccicose sonorità funky piuttosto sconclusionate e decisamente fuori luogo.
Nonostante qualche riempitivo, il progetto funziona: se l'auspicio è che questo album non resti un caso isolato ma possa essere solo il primo passo di una collaborazione più longeva, la speranza vera e propria è che questo "LNZNDRF" possa aiutare National e Beirut a ritrovare quella creatività che si è fatto fatica a intravedere nelle loro ultime prove.
I migliori venti album del 2015
Si chiude il 2015, un anno musicalmente valido che ha visto l'uscita di un serie di ottime prove, in ambiti e generi molto diversi fra loro. Sugli scudi il cantautorato al femminile, nelle sue numerose sfaccettature. Fra i lavori più convincenti non possiamo non menzionare il meraviglioso pop avanguardistico di Julia Holter, la gothic rock opera di Chelsea Wolfe, il pop rarefatto e narcotico di Lana del Rey, l'indie rock psichedelico di Courtney Barnett, l'elettronica pop camaleontica di Grimes e quella più folk di Susanne Sundfor, senza dimenticare l'atteso ritorno di Joanna Newsom.
I Crocodiles al Glue: report live
La band indie californiana chiude la stagione del locale fiorentino. Non poteva che finire così, come era iniziata: con una band internazionale in ascesa a calcare il palco. Se ad aprire la stagione del Glue sono stati i canadesi Pink Mountaintops, sabato scorso a chiudere un anno di ottima musica nel locale fiorentino è toccato agli statunitensi Crocodiles. I quattro musicisti di San Diego, con ben cinque dischi all’attivo in soli sei anni, sono emersi dalla scena indie californiana sul finire dello scorso decennio.
Cronache dal Sottosuolo: L’Italian Occult Psichedelia
Su “Nostra Signora delle Tenebre”, la neopsichedelia italiana omaggia il cinema del brivido e le sue colonne sonore
Si è sempre un po’ scettici di fronte a quei lavori volti a inquadrare un’intera scena o movimento musicale. Spesso questi progetti finiscono per dare una idea stereotipata, didascalica, semplicistica o eccessivamente (auto)celebrativa della ricchezza artistica che contraddistingue un particolare contesto musicale. Ma ci sono anche grandi eccezioni, come la storica “No New York” assemblata da Brian Eno, uno spaccato fondamentale della radicale e nichilista scena No Wave newyorkese o le ”Nuggets”, serie di album che raccoglievano il meglio dell’underground garage degli anni sessanta.
Nel suo piccolo, anche “Nostra Signora delle Tenebre” è un esempio di un lavoro che riesce nell’intento di fotografare in maniera precisa e puntuale un movimento intero, restituendone la forza espressiva e la sua ragion d’essere. Il genere in questione, la cosiddetta Italian Occult Psychedelia, è fra i più interessanti emersi dall’underground nostrano negli ultimi anni.
Il disco si presenta sotto le sembianze di un tributo al cinema horror e giallo e alla sue musiche. Non si tratta dunque di un assemblaggio di composizioni estratte dagli album di ciascuno degli artisti presenti in scaletta, ma piuttosto di una serie di rivisitazioni di alcuni pezzi di grandi compositori di colonne sonore quali Ennio Morricone, Nico Fidenco, Stelvio Cipriani Nino Rota, ed Egisto Macchi.
Ne emerge una costellazione di musicisti amanti dell’occulto e del claustrofobico come del trascendente e dell’onirico che stanno rivitalizzando la musica indipendente italiana e che in molti casi stanno avendo anche una discreta affermazione internazionale. Emergono, insomma, i tratti salienti di un movimento all’apice della sua forma e al culmine della sua creatività.
Su queste stesse pagine, è stato a più riprese affermato come la musica popolare sia in una (ennesima) fase di grande rivisitazione degli anni sessanta psichedelici, filtrati tramite nuove sensibilità e un’impostazione prevalentemente “indie”. L’Italia, pur col suo consueto ritardo, non è da meno in questo processo di riscoperta. Rispetto all’Inghilterra dove imperversa un pop psichedelico piacevole ma accessibile (Tame Impala, Temples), la peculiarità italiana sta nel l’oscurità e nello sperimentalismo che contraddistingue buona parte dei protagonisti del movimento. Movimento che, avanguardista e sotterraneo, sebbene abbia dato vita a molte collaborazioni, non presenta comunque quella omogeneità stilistica né quella vicinanza geografica da poter permettere di poter parlare di una vera e propria “scuola”.
Fra gli artisti presenti nella raccolta si possono infatti rintracciare approcci diversi alla materia psichedelica: c’è, chi fa maggior riferimento all’esperienza più vicina alla world music e al kraut rock che fu, con composizioni aperte e oniriche, eteree e allucinate, chi poi guarda con maggiore convinzione ai classici della psichedelica degli anni sessanta mentre altri ancora preferiscono esplorare piuttosto il lato claustrofobico e opprimente, viscerale e rumorista dell’acid rock.
Fra i più apprezzati internazionalmente, si distinguono i Lay Llamas che producono per la mitica Rocket Recordings (che ha in squadra pezzi da novanta come Oneida e Goat), uno delle case discografiche più importanti al mondo in ambito psichedelico. La loro rivisitazione di “Palude”, seconda composizione in scaletta, è una spasmodica danza collettiva, un adrenalinico ed effervescente rituale pagano in onore del dio sole. Altrettanto rinomati fuori dai confini nazionali, gli Heroin in Tahiti (il nome è tutto un programma) presentano una calda e avvolgente “Nuda per Satana” su riff di abbagliante sensualità e ipnotica visionarietà. Al fervore mistico quartomondista si abbandonano però anche i Mamuthones, progetto parallelo di Marco Fasolo (Jennifer Gentle), che crea variegati paesaggi lisergici in cui l’horror vacui si esprime in tutto il suo angosciante turbamento e l’enigmatico e talentuoso Gianni Giublena Rosacroce che presenta qua un “incubo sulla città contaminata”, maestoso trip lisergico che vive di un’impalpabile inquietudine senza fine. Compagni di etichetta di quest’ultimo (la Yerevan Tapes, una delle protagoniste assolute nel dare visibilità al movimento tutto) sono i Cannibal Movie, autori di impressionanti cavalcate allucinogene e di dirompenti fiumi sonori in area post e kraut rock. Sullo sfondo, i nomi tutelari di Ash Ra Tempel e Popul Vuh ma anche i contemporanei Sun Araw, Peaking lights e Goat sono influenze marcate per questi artisti.
Il versante più nichilista e cupo del movimento, esprime invece il suo spirito lisergico tramite un approccio più marcatamente rumoristico. I Mai mai mai sono il prototipo della psichedelia che invece che guardare in alto, verso il cielo, fissa lo sguardo a terra e prova a penetrare il sottosuolo. Anch’essi prodotti dalla Yerevan Records, si presentano qua con una spigolosissima interpretazione di “sette note in nero” sintomatica della loro esigenza comunicativa: perturbanti increspature industriali, oscuri battiti notturni per un opprimente suono dell’oltretomba. Non sono da meno i Father Murphy (“l’alba dei morti viventi”) in cui la mistica occulta si trasforma in un disagio ansiogeno quasi fisico, né gli OvO, impeccabili architetti sonori del vuoto e dell’abisso.
Forme meno estreme ma comunque alternative di neopsichedelia vengono poi da due dei protagonisti più celebri del movimento, Edible Woman (ottimi i loro intrecci di strumentazioni tradizionali e sintetiche) e Jennifer Gentle, in tour coi Verdena, qua nella veste taciturna e riflessiva della sensuale ninnananna Chanson de la nuit.
Second H Sam, Lamusa, Maria Celeste, Slumberwood e Beautiful Bunker arricchiscono un progetto ben riuscito e che immortala un movimento sotterraneo che merita di essere portato alla luce.
Sleepdrunk Seasons #2: i protagonisti della nuova scena islandese
La nuova centralità assunta dalla musica Islandese nel panorama internazionale ha permesso negli ultimi dieci anni un proliferare di formazioni e progetti volti alla sperimentazione nei territori più variegati della galassia rock. Se nel precedente articolo (vedi qua) abbiamo provato a mettere in evidenza gli elementi generali che compongono e costituiscono la nuova generazione islandese, è ora il momento di passare in rassegna i protagonisti di questo movimento.
Una delle tante vie islandesi alla musica alternativa è quella di un pop sofisticato, classicista e fastoso. Protagonisti assoluti di questo genere sono una delle prime band a emergere dal sommovimento culturale avvenuto a metà del decennio scorso: gli Hjaltalín.
Primo di due articoli che si occupano degli ultimi dieci anni di musica islandese
Prima degli anni ottanta, la scena musicale islandese era estremamente chiusa e autoreferenziale: a dominare erano cantautori e complessi di musica tradizionale vichinga, i quali però, al di fuori del territorio nazionale, suscitavano più l’interesse degli etnomusicologi che degli appassionati.
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