Ma non c’è solo questo. Siamo in presenza di uno dei Neil Young più politici di sempre: al centro la dominazione delle grandi corporations sulle persone, il loro soffocare la libertà e l’afflato democratico dei popoli. L’urlo di protesta del grande cantautore canadese si focalizza soprattutto su ciò che gli sta più a cuore: la campagna e la vita rurale, distrutte e devastate dal primato della logica del profitto su quella della sostenibilità, dal proliferare degli OGM e dei prodotti pesticidi che mettono in pericolo la biodiversità, dalle difficoltà dei piccoli coltivatori soggiogati dagli interessi economici delle grandi aziende agricole.
Non è più la campagna dei ritmi naturali e dei valori contadini, quella pacifica e cooperativa idealizzata nell’epopea country del looner canadese in epocali dischi quali “Harvest” o “After The Gold Rush”, non è più il luogo della riscossa dal basso della vita semplice e autentica ma piuttosto il trionfo dell’alienante mondo moderno e urbanizzato, coi suoi ritmi meccanici e la sua totalizzante idea di progresso ed espansione.
Ecco allora l’urgenza di un album come “Monsanto Years” (2015) uscito a fine giugno e composto insieme alla sua nuova band di supporto, i valenti Promise of the Real. Un album che porta la riflessione del cantatore a spostarsi dall’acronica utopia hippie alla condizione materiale e politica dell’oggi che fa da sfondo al declino della vita rurale e alla colonizzazione delle logiche capitaliste sulla terra, gli alimenti, la natura.
Ne esce un lavoro coerentissimo anche dal punto d vista strettamente stilistico, nella sua sempre abbagliante ed evocativa fusione di tradizione country-folk con un rock chitarristico complesso ed elegante, che come nella “trilogia del dolore” iniziata nel 1975 col celebre album ”Zuma” tocca sovente intense corde acid e progressive. La creatività non può più essere quella degli anni d’oro, ma c’è un lirismo che si mantiene pressoché intatto e che illumina di luce splendente piccoli gioielli come l’hard rock torrenziale di Big Box, il folk rock anfetaminico di Workin’man, il boogie blues della title track Monsanto Years, l’epica hippie di People want to hear about love, il tutto circoscritto entro le coordinate stilistiche del personalissimo country rock coniato dal cantautore canadese.
In una prova intensa e ispirata, l’unico elemento negativo è costituito forse dai testi, non sempre all’altezza della fama del cantautore canadese. Il punto debole è connesso a quanto detto all’inizio: l’approccio è molto diretto, forse troppo. La critica frontale, per quanto rappresenti un esigenza comunicativa comprensibile, lascia poco spazio per i sottili giochi allegorici, per il ricco simbolismo, per la grande immaginazione metaforica che altrove Neil Young ha saputo restituire con incredibile brillantezza e che ha contribuito a renderlo uno dei cantautori più influenti di sempre.
Nonostante le liriche non troppo ispirate dunque, l’obiettivo di Neil Young è comunque raggiunto in pieno: a rendere pungente la sua critica è la musica stessa, intatta nella sua dolente magnificenza e nel suo stile visionario e policromo.
Voto: 7/10