Martedì, 07 Luglio 2015 00:00

La Tosca di Bondy alla Scala di Milano

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Al Teatro alla Scala Giacomo Puccini è sempre di casa, un suo busto trova posto nel foyer Toscanini al terzo ordine dei palchi e molte sue opere vi hanno trovato la propria prima rappresentazione. Quest’anno il palco ha già ospitato Turandot, con il finale di Berio, e in questi giorni calcano la scena le vicende romane di Tosca.

Opera dalla gestazione lunga e travagliata Tosca è senza dubbio un capolavoro sommo della musica operistica, tra le più rappresentate al mondo con clamoroso successo.

Quella allestita alla Scala per il 22 giugno è una produzione sui generis, del regista Luc Bondy, ripreso da Marie-Louise Bischofberger, con le scene di Richard Peduzzi

Una messinscena francamente discutibile che, insieme ad una direzione davvero scialba come quella del maestro Carlo Rizzi, spegne ogni tensione romantica e lirica riducendo lo spettacolo a dramma di maniera.

La storia di Tosca è tratta da un lavoro del drammaturgo Victorien Sardou ampiamente rimaneggiato dai librettisti Illica e Giacosa per assecondare le esigenze dell’estro pucciniano e le necessità operistiche.

Nella versione di Puccini il centro narrativo è costituito dal triangolo amoroso Mario Cavaradossi - Floria Tosca - barone Scarpia, travolgendo l’accuratezza dell’ambientazione a vantaggio della tensione sentimentale, con l’intenzione esplicita di trascurare i particolari e giungere direttamente nel cuore dell’azione.

La partitura segue questa concezione e sono solo quattro i numeri musicali che interrompono il flusso continuo e concitato di suono e parole: le celebri romanze, una per ciascun atto, “Recondida armonia”, “Vissi d’arte” e “E lucean le stelle”, e il preludio del terzo atto, con la canzonetta “Io de’ sospiri”.

In Tosca si intravedono anche alcuni dei tratti caratteristici che Puccini andò maturando in quegli anni come la ricerca armonica di tipo europeo, con gli accordi di tritono del motivo di Scarpia e i suoni concreti e quotidiani come quelli delle campane, e l’uso di leitmotiv per contraddistinguere personaggi, ambienti e situazioni.

Atto I. Nella Basilica di S. Andrea a Roma il pittore Mario Cavaradossi sta dipingendo il ritratto della Maddalena, ispirandosi alla marchesa Attavanti, quando il sagrestano gli porta il pranzo in una cesta. Nel frattempo si era introdotto nel tempio l’ex console repubblicano Cesare Angelotti, fuggito dalla prigionia in Castel Sant’Angelo e, non appena il sagrestano si defila, esce dall’ombra per cercare l’aiuto del Cavaradossi, noto simpatizzante della Repubblica. Mario gli offre il suo pranzo e invita Angelotti a cercare rifugio nella sua villa, suggerendogli di nascondersi in un antro scavato a metà del pozzo nel giardino. Mentre Angelotti se ne sta andando camuffato in vesti femminili, che gli ha nascosto nella cappella di famiglia la sorella marchesa Attavanti, sopraggiunge la cantante Floria Tosca, l’amante del pittore: Tosca è tremendamente gelosa del suo Mario, ed è molto scontenta di non essere lei la sua fonte d’ispirazione. Mario la placa e i due si danno appuntamento alla villa per la sera. Si ripresenta il sagrestano, portando fra gli strepiti di tutta la cantoria la notizia (falsa) della sconfitta di Napoleone a Marengo: per celebrare la vittoria dei reazionari viene organizzato un pomposissimo Te Deum.

Si è fatto però vivo il barone Scarpia, il capo della polizia papalina, in cerca di Angelotti. In chiesa egli trova il paniere vuoto di Cavaradossi, che però non ha pranzato, come conferma il sagrestano, e il ventaglio della marchesa Attavanti, che doveva essere parte del travestimento del console. Scarpia intuisce che la fuga dell’Angelotti è stata organizzata dall’Attavanti, forse in combutta col Cavaradossi, che l’ha presa a modello per il suo dipinto proprio perché assidua frequentatrice di quella chiesa. Egli sa anche che l’amante del pittore, Tosca, è una donna molto gelosa e decide di sfruttare le circostanze instillando alla cantante il sospetto che Mario abbia una tresca con la marchesa: Tosca alla vista del ventaglio si convince del tradimento. Ritrovato il suo amato lo costringe a rivelarle la verità dei fatti e a metterla a parte della tresca politica, i due rinnovano l’appuntamento alla villa. Scarpia, nel frattempo, fa seguire la cantante dai suoi scagnozzi per raccogliere prove contro Cavaradossi.

Atto II. A Palazzo Farnese si sta festeggiando la presunta vittoria antinapoleonica, ai festeggiamenti è presente anche Tosca in qualità di cantante. Scarpia nel frattempo fa convocare Cavaradossi, per interrogarlo: egli però nega ogni coinvolgimento nella fuga dell’Angelotti. Scarpia è infuriato poiché alla villa di Cavaradossi non è stato trovando alcun indizio, così ordina ai suoi di arrestare e torturare il pittore e fa chiamare Tosca, così che questa, sentendo i lamenti dell’amato ceda e confessi le informazioni in suo possesso. Nel frattempo un messo annuncia il vero esito della battaglia di Marengo: Napoleone è vincitore. Mario esulta e non teme più per la sua sorte, poiché l’Italia sarà presto liberata. Il piano di Scarpia tuttavia funziona: Tosca non resiste di fronte ai tormenti dell’amato e rivela dove è nascosto Angelotti, i poliziotti lo trovano e Mario Cavaradossi viene condannato a morte come complice rivoluzionario. Il pittore, prima di essere portato via, maledice Tosca per il tradimento. La cantante è disperata e invoca Scarpia di risparmiare l’amato: il barone accetta di inscenare una falsa fucilazione e di concedere ai due i salvacondotti per la fuga, purché Tosca si dia al suo piacere. Floria è costretta ad accettare ma, dopo che Scarpia ha redatto i lasciapassare e sembra aver concordato il piano della falsa fucilazione con il capo dei gendarmi, afferra un coltello dalla tavola, uccide il crudele barone e, inorridita, scappa.

Atto III. Dai bastioni di Castel Sant’Angelo si sentono i lamenti d’amore di un pastorello mentre i militari organizzano il plotone d’esecuzione. Mario chiede di poter scrivere gli ultimi pensieri per l’amata, ma non riesce a terminare la lettera sopraffatto com’è dal dolore. Inaspettatamente arriva Tosca, che in fretta e di nascosto lo aggiorna sugli ultimissimi fatti: i fucili saranno caricati a salve ed egli deve ben recitare la propria morte, poi insieme potranno fuggire con i salvacondotti. I due sono al colmo di felicità, ma il piano di Scarpia non era stato ben previsto da Tosca: egli aveva combinato col suo aiutante di fingere la fucilazione simulata, intendendo comunque uccidere davvero il Cavaradossi, senza però privarsi dei piaceri di Tosca. I fucili quindi sono carichi e Mario cade morto sotto i colpi del plotone. Floria si accascia incredula sul corpo dell’amato quando sopraggiungono le guardie dagli appartamenti di Scarpia in cerca della cantante: Tosca fugge in cima ai bastioni inseguita dai poliziotti e, disperata e fiera, si getta oltre i parapetti.

La regia di Bondy annulla l’ambientazione romana. Il primo atto è situato in un generico edificio di mattoni rossi, che rievoca le antiche basiliche ma che non ha alcun elemento religioso. La madonna ai piedi dei quali pregava l’Attavanti non c’è, come non c’è la cappella entro cui si cela Angelotti. Il ritratto della Maddalena cui sta lavorando Cavaradossi non è più un affresco ma un quadro sospeso su un’impalcatura, senza senso. La pompa del Te Deum è davvero eccessiva e pare che faccia il paio con l’ironia sfacciata e fuori luogo che esprime la recitazione di Mario e di Tosca durante gli scambi di battute gelose e amorose.

Nel secondo atto ancora peggio. I costumi vagamente ottocenteschi stridono sia con gli elementi di attrezzeria moderni sia con la scena astrattissima fatta di nude pareti rosse. Del tutto fuori luogo anche le attrici succinte, nel ruolo di prostitute, che attorniano Scarpia e i giudici che comparsano sfilando lungo il palco con grotteschi finti nasi esagerati. La coltellata di Tosca a Scarpia è degna di uno spettacolo amatoriale: la lama finisce sotto il braccio del barone…

Il culmine lo raggiunge il terzo atto, che in apertura ospita una partita a scacchi tra Mario e il carceriere (qualcuno ha voluto notare una citazione dal Settimo sigillo) proprio prima della struggente aria del tenore che sta per essere fucilato. I bastioni di Castel Sant’Angelo non ci sono, sostituiti da una strana architettura postmoderna, sempre in mattoni rossi. Al termine, sulle note finali, quando Tosca dovrebbe suicidarsi gettandosi, lo spettatore vede soltanto la protagonista salire in cima ad una sorte di torre, e poi il buio.

I costumi di Milena Canonero non seguono un’unica poetica, e sono di complicata interpretazione. Notevole che Tosca trovi il tempo, tra un atto e l’altro, di cambiarsi d’abito in una vicenda che si svolgerebbe in una giornata concitata e densa, con il solo scopo di fare pendant con i colori dominanti in scena: nero, rosso e blu.

Davvero povero il disegno delle luci di Michael Bauer: nessun gioco di ombre, nessuna atmosfera suggestiva. Il Teatro alla Scala ci ha regalato altre volte effetti qui nemmeno lontanamente avvicinati.

Le distrazioni inutili si sprecano, la storia, senza espliciti motivi narrativi, non è rispettata e l’opera ne risulta davvero immiserita.

Ugualmente irrispettosa del capolavoro pucciniano la direzione di Rizzi. Molto dinamica e melodica certamente, pedissequamente tradizionale e in antitesi completa con la maestria dimostrata da Chailly solo qualche settimana fa. La scelta di eliminare le campane, che dovrebbero suonare dietro la scena, ha ulteriormente impoverito l'esecuzione.

Rizzi ci offre una Tosca snella e rapida, piena di linee musicali ma vuota di armonie e di colori, come a cercare un facile e banale consenso di pubblico, senza indagare ed esaltare la partitura di un’opera così intensa. Molto al di sotto delle aspettative.

Meglio il cast, che nonostante le indicazioni di regia, ha fornito ottima prova di sé.

Bravissima ed emozionante la giovane Beatrice Fasano, voce bianca nel ruolo del pastorello, dietro le quinte. Un ruolo secondario per un’esibizione molto breve, eppure molto difficile e assai importante nell’economia dell’opera: apre infatti il terzo atto cantando praticamente a cappella una struggente canzonetta in romanesco.

Bravi gli scagnozzi di Scarpia, nei loro brevi brani: Blagoj Nacoski, Spoletta, e Frano Lufi, Sciarrone. Bene anche il carceriere impersonato da Ernesto Panariello.

Davvero simpatica la recitazione del basso Matteo Peirone, il sagrestano, ottimo attore e cantante, figura molto importante del primo atto.

Ugualmente presente solo nel primo atto e molto bravo, Cesare Angelotti, il basso Andrea Concetti, che abbiamo ascoltato in Prova Generale in sostituzione di Alessandro Spina.

Molto bene il trio dei protagonisti. Ottima voce, anche se con una dizione spesso imprecisa e qualche sbavatura sugli acuti, la soprano Béatrice Uria Monzon, Tosca.

Prestazione ragguardevole anche per Željko Lučić, baritono nel ruolo di Scarpia. Non al massimo delle potenzialità vocali ed espressive, ma comunque bravissimo.

Eccellente e straordinario il tenore Fabio Sartori, Cavaradossi. Chiaro e potente, espressivo e versatile. Una voce strepitosa dalle grandi potenzialità. La recitazione un poco impettita non ha minimamente scalfito l’esibizione impeccabile sotto ogni punto di vista.

Molto bene il coro, nella famosa scena del Te Deum, ancora una volta diretto da Bruno Casoni.

Ultima modifica il Lunedì, 06 Luglio 2015 20:22
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