Il documentario, come è giusto che sia, non lascia però troppo spazio ad ardite ricostruzioni psicologiche o a pindarici tentativi di provare a dare una risposta al gesto estremo di Smith, ma si limita a raccontare le vicende del grande cantautore americano, senza far ricorso a una voce narrante, ma tramite la sua stessa musica e tramite il racconto diretto dei suoi amici e colleghi che hanno legato la loro traiettoria di vita con la sua.
Emerge comunque la personalità fragile e schiva di Smith, la sua ricerca della semplicità e della spontaneità, forse impossibili da perseguire dopo aver raggiunto una discreta fama anche a livello internazionale . Uno degli aneddoti più interessanti del documentario si riferisce proprio al suo imbarazzo, nelle fase matura della sua carriera artistica, a suonare in pubblico, perché le persone invece che chiacchierare, cominciavano a prestare reale attenzione alla sua musica, mettendolo così tanto a disagio da ritrovarsi costretto a invitare gli spettatori a “parlare fra di loro”.
Nonostante la mancanza di materiale video originario (soprattutto di tutta la prima parte della sua carriera), il buon montaggio delle interviste e la scelta particolare di indugiare sulle riprese di grandi vie di comunicazione, autostrade e ferrovie o su periferie postindustriali, risulta in perfetta sintonia con la musica decadente e il bisogno di cambiamento di Smith, che per sfuggire al suo malessere si era trasferito da una città all’altra degli States diverse volte. La metafora del viaggio, della partenza, ricorrono del resto frequentemente nella poetica di Elliott Smith.
Heaven Adores you, oltre a essere un buon documentario, è anche la scusa per parlare su queste pagine della vita artistica di uno dei più rappresentativi folksinger statunitensi. Vita artistica che inizia quando un giovane Elliott Smith, a causa del rapporto difficile col padre, dal Texas decide di trasferirsi a Portland, Oregon: decisamente un contesto più attraente e stimolante per un aspirante musicista alla ricerca di una maggiore libertà artistica.
Portland infatti era caratterizzata all’inizio degli anni novanta di una florida scena musicale alternativa: sulla scia delle precedenti esperienze punk, post-punk e hardcore, si era formata una interessante comunità di musicisti indie che stavano traendo linfa vitale dalle novità musicali dell’epoca: in particolare le principali influenze erano Dinosaur Jr, Sonic Youth, Pixies. In questo flusso di sperimentazione sonora si inserirà anche Elliott Smith con il progetto Heatmiser, gruppo che con la sua peculiare fusione di rock abrasivo e folk, di squarci melodici e momenti rumoristici, seguiva il percorso di Pavement e Yo La Tengo verso un indie rock sbilenco e ossessivo.
Ben presto, per colmare una esigenza artistica e comunicativa non completamente soddisfatta all’interno del gruppo, Smith inizierà anche il suo progetto solista, sulla scia di un nuovo cantautorato folk americano che si stava indirizzando verso una sempre maggiore fusione fra il folk tradizionale con innovative forme noise, indie e post punk. Bill Callahan (in arte Smog), Mark Lanegan, Mark Kozelek con i suoi Red House Painters stavano rivoluzionando la musica cantautorale ed è in questo contesto di trasformazioni dei canoni del folk che bisogna leggere l’opera di Elliott Smith, fin da subito interessato a fondere un gusto per la raffinatezza di Paul Simon e la delicata gentilezza di Nick Drake con le increspature rock di Elvis Costello e Joe Strummer entro una inedita forma musicale originale e brillante.
Il documentario ripercorre la carriera di Elliott Smith album dopo album. Viene messo in luce l’aspetto ruvido e lo-fi dei primi dischi Roman Candle (1994) e Elliott Smith (1995) già comunque capaci di catturare l’attenzione di un pubblico di nicchia: gli album colpiscono per la loro immediatezza comunicativa e la spartana e delicata resa stilistica. È in particolar il suo lavoro omonimo, in cui situazioni sentimentali si mescolano alla sua storia di dipendenza da eroina, a costruire un connubio lirico di straordinaria intensità e di visionaria bellezza.
I suoi colleghi e amici di Portland ricordano come fino a quel momento, Smith era conosciuto solo a livello locale (il 70% dei suoi dischi veniva venduto solo nella zona di Portland) e come fosse costretto a fare dei semplici lavori part time di manovalanza per mantenersi. Solo a partire del 1996, lo scioglimento degli Heatmiser e una relativa tranquillità economica permetteranno a Smith di dedicarsi anima e corpo, senza distrazioni o ostacoli esterni, alla sua arte: il risultato è lo straordinario Either/Or (1997) che reca lo stesso titolo dell’opera di Kierkegaard (in danese “Enten-Eller”, in italiano “Aut –Aut” ) e che si configura come il disco della definitiva maturazione artistica e uno degli apici della musica alternativa americana degli ultimi venti anni, sospeso fra un rock in bassa fedeltà e un folk dimesso e intimista in cui la sublime tecnica del fingerpicking chitarristico ricostruisce dolenti atmosfere drammatiche.
Stimatissimo nella comunità artistica americana, Either/or porta anche una certa notorietà al cantautore che comincia ora a farsi conoscere e apprezzare a livello nazionale. L’apice della popolarità sarà raggiunto nel 1998, dopo che la sua “Miss Misery”, parte della colonna sonora di Will Hunting di Gus Van Sant (suo grande ammiratore) riceverà una candidatura agli Oscar. La surreale esibizione la notte della Cerimonia, con un Elliott Smith toccante ma visivamente a disagio in quell’ambiente, varranno comunque una notevole visibilità e una discreta fama, nonostante l’Oscar sarà vinto da Celine Dion con la patinata My Heart Will Goes on.
Sebbene la carriera sembra finalmente andare nella giusta direzione, le vicende personali non portano però alcun conforto a Smith: la rottura con la fidanzata storica, a cui è dedicata la meravigliosa “Say Yes” posta a conclusione di Either/Or, lo spinge a cambiare aria. Meta della sua nuova sistemazione sarà New York, dove nonostante la sua dipendenza da droghe e alcool continui a peggiorare, avrà l’opportunità di mettere a frutto la sua creatività con l’ottimo XO (1998), per alcuni il climax della sua opera artistica, con una serie di istantanee impressionistiche malinconiche e intimistiche (lui stesso lo definirà come una serie di “fotografie fatte con le parole”), forse più canonico del suo predecessore ma sospinto da un lirismo che non aveva uguali fra i folksinger a lui contemporanei.
Dopo il tour mondiale, descritto da Smith stesso come un momento piacevole della sua vita, il ritorno negli USA fa risorgere vecchie inquietudini. Neppur il nuovo trasferimento a Los Angeles, per esser più vicino al suo staff tecnico di fiducia, lo aiuterà. La depressione lo spinge ad allontanarsi sempre più da amici e conoscenti. Eppure, il suo ultimo lavoro, Figure 8 (2000) non delude le aspettative, completando una meravigliosa ed epocale trilogia in cui amore, abbandono, risentimento, perdono, malessere e speranza si mescolano e si amalgamano con estrema naturalezza. Le grandi intuizioni melodiche di Dylan, Lennon, Paul Simon rivivono nell’opera di Elliott Smith filtrate dalla delicata malinconia e dalla dolce morbidezza di Nick Drake con il quale, purtroppo, condividerà lo stesso tragico destino.