Il nuovo album, "Junk", uscito per la Mute Records lo scorso 8 Aprile, conferma la grave crisi identitaria del progetto M83, divorato dalla sua stessa volontà di rinnovarsi continuamente, di stupire costantemente. Ma qua a meravigliare, più che le innovazioni sonore, sono le pochezze di un disco mal concepito, confusionario, senza capo né coda. Persiste la ricerca di un'epica che però diventa sempre più ostentata e artificiosa, senza ormai quella naturalezza e armonia che aveva portato gli M83 a realizzare complesse ed eleganti architetture elettroniche.
La poetica originaria sembra essersi perduta, le scelte espressive degli esordi sono ormai lontanissime. Quel "Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts" (2003) che aveva rivitalizzato l'intero movimento shoegaze, fra vibrazioni oniriche alla My Bloody Valentine, tentazioni paesaggistiche alla Sigur Ros e dolenti ed eleganti battiti sintetici alla Radiohead, era una delle pietre miliari degli anni zero, opera di rara suggestione e di trionfante nostalgia. Dopo l'abbandono di Fromageau, Gonzalez ha gradualmente cambiato rotta, rendendo via via sempre più appetibile al pubblico la sua musica, ripristinando il formato canzone e mettendosi sempre più a ricercare sonorità sintetiche anni ottanta attigue a certo synth pop/dream pop. Dopo l'interlocutorio ma valido "Before the Dawn Heals Us"(2005), "Saturdays = Youth" (2008) mostra il lato più accessibile del progetto M83, perfezionando un'elettronica intelligente, mai sopra le righe, entusiasmante senza essere enfatica, nostalgica senza scadere nel citazionismo, sognante senza essere ermetica, emozionante senza essere stucchevole.
Il grande successo arriverà però solo con il doppio, ambizioso "Hurry Up We Are Dreaming", guazzabuglio di sonorità meticcie e vivide. L'aspetto eccessivamente Kitsch, le melodie più prevedibili, la teatralità ostentata, lo rendono un lavoro controverso e a tratti stucchevole, nonostante qualche bell'episodio e diverse intuizioni electro-pop godibili.
Con il nuovo Junk però Gonzalez supera definitivamente la linea, per scadere in quel cattivo gusto che il titolo del disco in realtà già suggerisce. Che il nuovo lavoro celi un intento ironico non è dato saperlo, ma quel che è certo è che qua tutto diventa effimero e godereccio, tanto da sembrar uscito da qualche stazione FM anni ottanta, ma senza melodie altrettanto orecchiabili e appaganti. Il minestrone riscaldato si avvale di beat festosi e tamarri ("Road Blaster"), improbabili incursioni in una techno tanto adrenalinica quanto scialba ("Do it, Try it" coi suoi ridicoli filtri e barocchismi), scomposti ammiccamenti dance pop (l'infantile e sgraziata "Laser Gun").
La Soft Dance più anonima prende tristi e lussureggianti sembianze funky (l'inutile filastrocca "Bibi the Dog") o si avvale di appiccicosi ritmi da club music in un delirio di filtri e vocoder senza alcuna logica ("Walkaway Blues"). Fra gli episodi più imbarazzanti, oltre i quattro brevi pezzi strumentali, inutili e tutti pressoché uguali, troviamo anche una ridondante, estenuante, prolissa "Solitude", una mediocre canzone pop caricata all'inverosimile di elementi lounge e jazz (forse per mascherarne la pochezza), che invece di migliorarla la rendono ancora più pomposa ed enfatica. Persino la classicheggiante "For the kids", nonostante il talento vocale della cantautrice norvegese Susanne Sundfor, suona canonica e prevedibile.
Laddove l'abilità compositiva latita paurosamente, a salvare il salvabile ci pensa la semisconosciuta ma bravissima chanteuse francese Mai Lan. Affidati alla sua voce i due pezzi meno deludenti della raccolta: "Go!" è un patinato electro pop suggestivo e noir, impreziosito dai virtuosismi chitarristici di Steve Vai mentre "Atlantique Sud" e una delicata e struggente ballata al silicio in un delizioso duetto di voci su un testo in francese. Appena passabile invece "Time Wind", un tributo retrò al pop elettronico mainstream che si avvale della voce inquieta di Beck.
Si tratta però delle uniche luci nell'oscurità totale. Il resto è un trionfo di richiami pop anni ottanta e stralunati influssi "french touch", di zuccherose ed evanescenti melodie electro e House affettate e leziose, influenzate, ma in realtà lontanissime, dalle intuizioni vintage/lounge colte dei connazionali Air. Disorganico e inconcludente, il disco più "patriottico" di Gonzalez, più che in un sottile gioco di intrecci musicali, conduce nel becero e vuoto manierismo.
Junk è l'opera più deludente del progetto M83. Il pasticciato calderone in cui confluiscono in maniera disarmonica e confusionaria richiami French House e dance edonista anni ottanta, genera un lungo, prolisso e zuccheroso album ben prodotto, ma estremamente carente dal punto di vista compositivo. Prevedibilità, banalità, superficialità, stucchevolezza sono gli aggettivi che meglio descrivono quello che è a tutti gli effetti il primo vero passo falso di Gonzalez.
voto: 4,5/10