Venerdì, 03 Giugno 2016 00:00

Il nono capitolo della saga Radiohead

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Il nono capitolo della saga Radiohead

Ogni più piccola novità in casa Radiohead rischia di sollevare reazioni contrastanti, polemiche di ogni tipo, dibattiti senza fine. È il naturale esito di essere il gruppo più celebre e conosciuto di tutto il panorama alternative. E quindi automaticamente anche quello che attira più simpatie ed antipatie. Non stupisce allora che quando, a sorpresa, lo scorso 8 Maggio, è stata annunciata da Tom Yorke e soci l'uscita del loro nuovo album, l'interesse sollevato abbia assunto proporzioni enormi. Tanto di guadagnato per il gruppo, che con una tattica di marketing all'insegna del mistero, dello sparire dai social network, dei piccoli indizi lasciati a destra e a manca, se ne è uscito con un nuovo, chiacchieratissimo disco che ha già raggiunto il vertice delle charts britanniche.

Che si assumano le vesti dei detrattori o dei fans, in ogni caso, a prescindere dal gusto personale, non si può non assegnare alla band di Tom Yorke un posto di rilevo nella storia più recente del rock. Dagli esordi brit pop di Pablo Honey (1993), alla costruzione di un epica personale e sofferente su The Bends (1995), fino alla realizzazione di un nuovo linguaggio musicale che estetizza tutto il disagio e l'alienazione della nuova era tecnologica, un linguaggio ovattato, introverso, dolente e sommesso che con il rock scarno di Ok Computer (1997) e l'elettronica sognante di Kid A (2000) e Amnesiac (2001) ha influenzato profondamente tutta la musica indie (e non solo) degli ultimi quindici anni. Poi, il calo fisiologico che ha comunque regalato dischi di valore: l'etereo Hail to the Thief (2003), il policromatico in Rainbows (2007), fino all'elettronica sospesa di The King of Limbs (2011).

Il nuovo A Moon Shaped Pool è un oggetto misterioso e difficilmente decodificabile. La tracklist si compone di molti brani rimaneggiati e rivisti composti negli anni precedenti, fin dal 1995. Ma il disco, va detto subito, non assume minimamente l'aspetto di una raccolta di B-sides. I pezzi, rivoluzionati completamente, esprimono piuttosto l'urgenza espressiva dei Radiohead attuali, arrivando a comporre un lavoro non monocromatico ma sicuramente unitario e compatto, che pur rimanendo fedele al marchio Radiohead, mostra sempre la volontà di battere nuove strade.

Da questo punto di vista, si può parlare del disco più orchestrale dei Radiohead, quello che si avvale di una strumentazione più classica e articolata. Massiccio l'uso degli archi, spesso suonati con tecnica percussiva, come nella iniziale "Burn the Witch", una corsa mozzafiato senza apparente destinazione, in un crescendo drammatico ansiogeno ed anfetaminico. Dense anche le linee pianistiche che già in "Daydreaming" provano ad alleviare il tormento di voci in sottofondo che tentano di riemergere, regalando sei minuti di viaggio dantesco in costante bilico fra incubi infernali ed estasi paradisiache. Un po' troppo convenzionale invece "Glass Eyes" che nel tentativo di esaltare come non mai proprio piano e archi arriva a produrre una ballata un po' troppo lineare in stile tardi Coldplay. Altro elemento inusuale è anche l'insistenza e la centralità della chitarra acustica che spinge a tratti il suono Radiohead verso un inedito terreno folk. Così, i giri eleganti di "Present Tense" rendono leggera e ariosa una composizione che non nasconde la sua attitudine a parlare anche il linguaggio di certi Belle and Sebastian e Beck.

Rispetto al precedente The King of Limbs, coi suoi textures densi, sfumati e imprecisi, qua la fascinazione pop risulta indubbiamente più leggera e tersa. Il folk cristallino e leggiadro di "Desert Island Disk", ballata per voce e chitarra acustica, rimanda sui distanti e solitari terreni di Nick Drake, mentre il congedo di "True Love Waits", meravigliosa ballata pianistica, è un dolce ed eterno cullarsi sospesi su un mare solo lievemente ondulato.
Se le partiture elettroniche sono diffuse su tutto il disco, queste assumono una predominanza netta solo in un paio di brani, nella giocosa e movimentata "Ful Stop" collage postmoderno fra Four Tet e Yellow Magic Orchestra e nel gioiello quasi post dubstep oscuro e sognante di "Identikit", che tradisce una certa affinità coi paesaggi sonori soul stralunati e obliqui di James Blake.

A Moon Shaped Pool conferma il talento cristallino dei Radiohead che da delle semplici bozze di materiale che erano rimaste a lungo nei cassetti, riesce a confezionare un prodotto vivace e fresco, forse con qualche riempitivo ma anche con ottime intuizioni liriche e pieno di momenti di alta scuola.

voto: 7/10

Ultima modifica il Giovedì, 02 Giugno 2016 19:17
Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

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