Rispetto alle altri grandi folksinger di inizio millennio, spesso vicine a certo freak folk classicheggiante ma estroso, come quello di Joanna Newsome, la Nadler si rinchiude entro una disarmante semplicità e un candore da nobildonna ottocentesca. Così, l'anticonformismo più che essere l'esito di un approccio obliquo alla melodia o di una struttura compositiva anarchica è piuttosto il frutto delle sue atmosfere perennemente nebbiose ed ermetiche, gotiche e appannate, rischiarate solo dalla sua cristallina tecnica di fingerpicking (la chitarra viene pizzicata con le dita e non suonata con il plettro).
Fra suggestioni medievali, nostalgie in sapore di fado portoghese, rimembranze di eleganza vittoriana, lente litanie spettrali, allegorie naturalistiche, rivisitazioni poetiche (indimenticabile "Hay Tantos Muertos", sentita messa in musica di uno struggente sonetto di Pablo Neruda), Marissa Nadler ha saputo scrivere una poetica semplice ma colta, in cui le ombre di una modernità trasfigurata si mescolano con tradizioni lontane e sfuggenti, per ricostruire sonorità senza tempo né luogo.
Nella sua relativamente lunga carriera, dalle scarne ballate per sola chitarra acustica e voce degli esordi, la cantautrice americana è approdata a una forma di folk più aperta e pop, sacrificando la semplicità e la tecnica di fingerpicking, in cui lei eccelle, per strutturare maggiormente le melodie e dare spazio a una strumentazione più ampia. Se Little Hells (2009) e il precedente July (2014) andavano in questa direzione, è l'ultimo album, Strangers, uscito lo scorso 20 Maggio per l'etichetta indipendente di culto Sacred Bones, che sembra definitivamente portare Marissa Nadler verso una forma di dream-folk meno ortodossa e di più ampio respiro.
Atmosfere meno opprimenti, pattern meno monolitici ed estenuanti, sono il frutto di una ricerca melodica che paga: la Nadler mette completamente a frutto le potenzialità pop del suo mezzo soprano cristallino scolpendo una serie di ballate sempre inquiete e introverse ma meno gotiche e sospese (si ascolti "All the colors of the dark" o "Hungry is the Ghosts" dove soffici melodie si lasciano trasportare da un puntuale accompagnamento d'archi e piano). Pur mantenendo intatto il fascino onirico e spettrale delle sue ballate, Strangers mostra una Nadler più materiale e corporea, nonostante sia ancora presente una estetica della polverizzazione e dello sradicamento ("Divers of the Dust"). Ad aggiungere volume è l'uso centellinato ma percepibile delle percussioni che sfociano in un rock reso acceso e oscuro dalle increspature di "Janie in Love" che ricordano Chelsea Wolfe ma con una grazia che riporta tutto dentro la cornice dell'armonia.
Meno crepuscolari e misteriose ma anche più vivaci e voluminose, le nuove composizioni assemblate dalla cantautrice americana, trovano una fascinazione tutta nuova anche negli episodi più classici come la bucolica ballata per voce e chitarra di "Skyscraper" e il languido congedo di "Dissolve" che è forse la fine del travaglio esistenziale della Nadler stessa iniziato con "All the colours of the dark". Questo percorso di dissoluzione delle tenebre, si arricchisce anche di preziosi intrecci chitarristici (il fascino invernale di "Strangers"), pigri risvegli da un lungo torpore ("Waking" figlia di un languore al limite della narcolessia di Lana del Rey) e di delicatissimi acquarelli impressionistici (la melodia essenziale ma celestiale di "Shadow Show Diane").
La parabola intimistica di Marissa Nadler prosegue per lente trasformazioni senza mai perdere la sua cifra inconfondibile. Strangers, il lavoro più pop e aperto della cantautrice americana, non sminuisce ma anzi arricchisce la sua ricerca musicale e consolida il suo stile dream -folk raffinato, scarno, onirico e spettrale che la ha già resa una delle folksinger più influenti ed affascinanti degli ultimi quindici anni.
Voto: 8/10