L’ultimo lavoro di Samir Amin (Russia and the Long Transition from Capitalism to Socialism) restituisce quello che in Occidente la sinistra cerca da un pezzo, ossia una collocazione nei rapporti internazionali che sia conseguente ad una rigorosa analisi di classe. Il tema è scottante e il libro ha già riscosso il favore della stampa di sinistra anglofona (edito dalla Monthly Review Press, recensito dal giornale statunitense CounterPunch e dal britannico MorningStar).

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Articolo di Alex Marsaglia tratto dal numero cartaceo Sinistra e Europa: un rapporto complesso, consultabile qui

Costituzione italiana contro trattati europei: Il conflitto inevitabile

Il merito principale identificabile nell'ultimo pamphlet di V. Giacché Costituzione italiana contro trattati europei: Il conflitto inevitabile (Imprimatur edizioni, 2015) sta nel rigore con cui viene affrontata la comparazione dei Trattati europei e della struttura politica, giuridica, amministrativa dell'Unione Europea con la nostra Costituzione repubblicana, ridotta sempre più a santino del democraticismo che ne sbandiera la forma svuotandone la sostanza.

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Al degrado della politica americana che traspare ormai in mondovisione con l’ultima campagna elettorale corrisponde un eguale degrado sociale che anche alcuni conservatori come Nicholas Eberstadt non rinunciano a indagare. Anche questi studiosi sono ormai seriamente preoccupati per la pessima piega presa dall’economia americana che, nell’inseguire una crescita economica sempre più difficile e asfittica, si sta lasciando dietro buona parte della Nazione in quello che viene definito un “esercito di invisibili” confinati nell’inattività.

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Nel suo ultimo lavoro Domenico Moro prosegue la sua analisi iniziata in Globalizzazione e decadenza industriale indagando le ricadute della disgregazione sociale e produttiva sui vari territori dominati dall'imperialismo. Questo concetto, tanto fondamentale quanto dimenticato (proprio nel centenario dalla pubblicazione del celebre L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo di Lenin!), viene posto al centro del saggio. La scelta dell'autore di portare nel dibattito sulla Terza guerra mondiale il tema dell'imperialismo è fondamentale, poiché senza partire da un'analisi dell'accumulazione su scala globale e della sua crisi non si possono affatto capire le dinamiche che agiscono alla base dei nuovi conflitti e ancor meno inserirli in una coerente concezione dei rapporti di forza tra Stati.

Così, partendo da una ricognizione sul ruolo dell'imperialismo che vede nei Paesi centrali una «concentrazione del potere economico nelle mani di élite molto internazionalizzate nei loro legami e rapporti economici, cui corrisponde una concentrazione del potere politico mediante una trasformazione oligarchica delle istituzioni statali», si giunge, tramite «la stagnazione cronica del modo di produzione capitalistico nei suoi punti più alti di sviluppo, dove si produce una tendenza permanente al calo del saggio di profitto» alla «tendenza all'espansionismo verso l'esterno»1. Dunque, in una condizione di stagnazione dei mercati interni, il surplus produttivo e i capitali vengono esportati allo scopo di trovare maggiore redditività in mercati in cui il margine di profitto è più elevato. Tuttavia, ciò che è fondamentale capire secondo Moro è che «l'aumento della concorrenza tra imprese e tra aree economiche sovranazionali» è tale per cui la «concorrenza non si combatte soltanto attraverso i meccanismi impersonali del mercato mondiale autoregolato», bensì ci «si avvale anche della forza degli Stati»2 i quali continuano dunque a esercitare un ruolo imprescindibile. Quindi la capacità di «proiezione di forza» diventa un elemento fondamentale nella geopolitica attuale.

Il discorso sviluppato dall'autore diventa ancor più interessante quando viene affrontato di petto il ruolo della religione in quanto “oppio dei popoli”, nella quale si rispecchiano le sofferenze di un'umanità afflitta dall'oppressione del capitale, per cui «la religione retroagisce sulla stessa struttura economico-sociale e sugli assetti di potere politico contribuendo a modificarli»3. Dunque, la religione esercita una funzione ben più materiale di quanto si possa immaginare, in quanto «più che rispondere alla paura della morte, cioè ai problemi dell'aldilà, risponde alla paura, alle sofferenze della vita, cioè ai problemi dell'aldiquà»4. Il problema che sorge nella postmodernità è quindi dettato dalla perdita di senso del futuro e della vita stessa, in particolare nelle classi proletarie e sottoproletarie vittime della globalizzazione. A questo problema ha saputo rispondere con abilità la religione e in particolare il fondamentalismo islamico sembra aver interpretato al meglio la desecolarizzazione affermatasi con la globalizzazione e il venir meno dell'alternativa rappresentata dai movimenti di liberazione nazionale. In questo senso Moro, riportando l'esempio dei Fratelli musulmani, ne parla esplicitamente come «“terza via” tra subalternità all'Occidente e movimenti di liberazione nazionale»5.

L'analisi del rapporto tra imperialismo e religione islamica è però attenta ad evitare una semplificazione comune nel mainstream che tende a ridurre l'islam ad un blocco omogeneo con tendenze autoritarie. Infatti, se si riconosce che il radicalismo islamico iniziò ad affermarsi a partire dalla rivoluzione iraniana del 19796, si distingue l'eterogeneità del fenomeno in relazione ai contesti, per cui divengono chiaramente distinguibili i due modelli dell'Arabia Saudita e dell'Iran. Nel primo caso la forte saldatura tra fondamentalismo religioso e radicalismo politico islamico avviene all'interno di uno sviluppo dipendente, in cui «il rapporto con i Paesi del centro economico mondiale impone a questi Paesi di rimanere nella condizione prevalente di fornitori di materie prime e di manodopera a basso prezzo», cioè vi è una economia prevalentemente extravertita per dirla con Samir Amin, in cui le imprese producono «non per il mercato locale, che rimane depresso, ma per i mercati europei»7. In questo tipo di economie gli interessi feudali, nel caso dell'Arabia Saudita prevalentemente legati alla rendita petrolifera, tornano prepotentemente al centro della scena, determinando una regressione all'economia parassitaria e all'islam primitivo. I legami di tali economie con il centro dell'imperialismo, tramite l'inserimento di questi nuovi rentier all'interno della classe capitalistica transnazionale, non fanno che rendere più pericoloso l'imperialismo creando legami sempre più solidi tra il centro e le visioni arcaiche e tradizionaliste dell'islam. L'Iran islamico, pur caratterizzandosi per «la violenta e sanguinosa eliminazione delle formazioni laiche e di sinistra e in particolare del partito comunista, tutt'ora illegale»8, con la rivoluzione islamica del 1979 seppe mobilitare la «base di classe tra le masse povere», compiendo quella che «è stata forse l'ultima rivoluzione antimperialista di successo del ciclo storico della decolonizzazione»9. Certamente l'egemonia del clero sciita iraniano seppe leggere in anticipo i tempi nell'area mediorientale e ciò gli consentì di sostituire abilmente lo strumento ideologico in grado di saldare le masse facendo venir meno l'elemento laico e socialista. Altrettanto certamente la rivoluzione del 1979 ha creato una rottura di faglia nell'area mediorientale le cui conseguenze si riverberano ancora profondamente nel presente e il saggio di Moro sembra coglierle appieno quando descrive le forme complesse di un conflitto che si trascina da ormai oltre un trentennio nella «lotta per l'egemonia locale»10.

Parallelamente, la centralità economica dell'area mediorientale ha inevitabilmente condotto ad una fase di sempre più aperta conflittualità nelle aree periferiche dove allo schieramento americano si è opposto con sempre maggiore fermezza quello russo-cinese. L'innalzamento del livello dello scontro viene descritto tramite le “proxy war” che hanno ormai preso piede in tutta l'area periferica (si pensi all'Africa dove all'avanzata cinese si oppone il neocolonialismo francese) e che sono giunte ormai fino all'interno dell'Europa (si pensi alla situazione in Ucraina). Insomma, tramite l'attenta ricostruzione della saldatura avvenuta tra imperialismo e religione e l'utilizzo di nuovi concetti, come per l'appunto quello di “proxy war”, l'autore ci spiega come oggi l'obiettivo non sia più necessariamente quello di «esercitare un controllo su una certa area per sfruttarne le risorse», bensì sia quello di «sottrarre un'area al controllo dei concorrenti o impedire che questi ne usino liberamente le risorse»11. In questo senso il caos diventa una vera e propria arma al servizio dell'imperialismo. E sempre in quest'ottica il fondamentalismo religioso diventa il vero e proprio braccio armato dell'imperialismo in grado di destabilizzare aree di interesse vitale, nonché di deviare l'attenzione nel centro stesso dell'imperialismo, consentendo di instaurare Stati di diritto eccezionale (perpetui?) e mantenere in piedi complessi militar-industriali sempre più mastodontici e comunque utili come sostegno al capitale in crisi. Dopo gli attacchi a “Charlie Hebdo” (nel gennaio 2015), di Parigi e Bruxelles (nel marzo 2016) diventa indispensabile guardare con attenzione al Medio Oriente e leggere con scrupolo l'attuale fase imperialista in cui il radicalismo islamico certamente diventa il protagonista, ma in un contesto di competizione globale che trascende il Medio Oriente stesso e il saggio di Moro ci aiuta proprio in questa necessaria opera di chiarificazione.

1 D. Moro, La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, pp. 110 – 111.
2 Ivi, p. 111.
3 Ivi, p. 40.
4 Ivi, p. 51.
5 Ivi, p. 69.
6 Ivi, p. 79.
7 Ivi, p. 82.
8 Ivi, p. 100.
9 Ivi, p. 96.
10 Ivi, p. 100.
11 Ivi, p. 108.

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Mercoledì, 25 Maggio 2016 00:00

NAFTA, TTIP e i presagi per l'Europa dell'Est

NAFTA, TTIP e i presagi per l'Europa dell'Est

Non ci opponiamo al TTIP perché conservatori e reazionari, perché spaventati dalle nuove tecnologie, dallo sviluppo, dalla possibilità di maggiore scelta. Ci opponiamo perché sappiamo come tutti gli argomenti a favore del trattato siano falsità.

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Se si cerca una lettura per sfrondare tutta la retorica accumulata negli scorsi anni anche a sinistra attorno a concetti importanti ma fumosi e ancora poco chiari quali “globalizzazione”, “finanziarizzazione” e “deindustrializzazione” il saggio di Domenico Moro “Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare ed euro”, Imprimatur 2015, euro 16,00 è assolutamente imprescindibile.

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Appresa la notizia che la Borsa di Milano in meno di un mese e mezzo ha bruciato un quarto del suo valore (oltre 140 miliardi di euro) bisognerebbe interrogare a fondo i nostri politici (anche europei, vedi le dichiarazioni di ieri di Dijsselbloem) e per prima cosa chieder loro conto di tutte le balle sparate in questo mese e mezzo sulla "volatilità". Infatti se c'è un crollo verticale dei valori azionari non c'è volatilità e incertezza, le due cose si escludono vicendevolmente a meno di non voler negare i numeri e la matematica.

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Giovedì, 21 Gennaio 2016 00:00

In Xylella veritas?

In Xylella veritas?

Ci sono regioni di questo paese trainate (non è un eufemismo) da prodotti tipici e altamente riconoscibili. Territori caratterizzati da tempo immemore, luoghi da dove arrivano specialità vere e proprie. Uno dui questi è il Salento, l'ultimo lembo della Puglia riconosciuto e tra i più importanti produttori d'olio italiano, competitivo su tutti i mercati, da sempre. Quell'economia, come purtroppo abbiamo imparato ad apprendere è minacciata da una “misteriosa” presenza; il batterio della Xylella. In tanti si sono espressi sulla tragica situazione che attraversa le campagne del Salento, momenti bui per una comunità che vive anche grazie all'olivocultura e che oggi si vede costretta a “ripensare” il proprio futuro.

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Di Luca Reggiani dal numero cartaceo di settembre

Niti e Nyaya possibili strumenti di lettura della crisi europea?

La crisi economica, acuitasi negli ultimi mesi, che ha colpito la Grecia - portando con sé momenti di tensione politica e sociale - ha riportato al centro del discorso pubblico la natura stessa dell'Unione Europea. Da molte parti si sono levati i cori di europeisti (convinti della necessità di un’Europa unita) e di anti-europeisti, (convinti che l’Unione sia la causa di tutti i mali). Anche molti economisti hanno preso, in maggiore o minore misura, posizione.

Ha una sua utilità, ai fini del dibattito su tema dell'Unione Europa e su quella che viene definita teoria della giustizia, anche la riflessione di un economista - europeo per cittadinanza ma non per origine - premio Nobel nel 1998: l'anglo-indiano Amartya K. Sen.

In un antico poema epico indiano in sanscrito, la Mahabharata, in particolare nella parte chiamata Gita, va in scena un importante scambio di opinioni fra due personaggi, Arjuna e Krishna. Arjuna è il glorioso e invitto guerriero dalla parte dei giusti, Krishna è l’auriga di Arjuna, ma è anche ritenuto un’incarnazione, in forma umana, divina.
In questo scambio di battute, che si svolge alla vigilia di uno scontro fondamentale per il risultato di una guerra in corso, Arjuna esprime le proprie perplessità sul fatto che prendere parte alla battaglia sia per lui la cosa giusta da fare. Il guerriero, che non ha dubbi sulla bontà della causa né che si tratti di una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, grazie soprattutto alla sua forza, trionferà, ma quella battaglia sarà una carneficina e molti di quelli che perderanno la vita non hanno commesso nulla di male ma solo deciso di appoggiare l’altra fazione. Arjuna è quindi angosciato sia dalla consapevolezza della tragedia che si abbatterà su quelle terre, sia dalla responsabilità che egli assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate e per molte delle quali prova affetto.
Arjuna giunge ad affermare che, forse, sarebbe meglio non combattere e lasciare il regno agli usurpatori. Krishna si oppone violentemente alle argomentazioni del suo amico e compagno affermando l’importanza di fare il proprio dovere senza guardare alle conseguenze.
Arjuna perderà lo scontro verbale e sarà convinto da Krishna ad adempiere ai propri obblighi scendendo in guerra.

Questo racconto è stato utilizzato da Amartya Sen per illustrare ciò che a suo avviso sono i due tipi di giustizia che possono caratterizzare le società: Niti e Nyaya. Queste due parole sanscrite significano entrambe giustizia, ma con due accezioni differenti.
Il Niti esprime l’adeguatezza di un’organizzazione, delle istituzioni, la correttezza di comportamento e delle leggi. Il Nyaya corrisponde al concetto generale di giustizia realizzata. In termini di Nyaya il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi in una prospettiva più ampia e comprensiva legata alla vita delle persone e al mondo così com’è fatto realmente.
Il dato cruciale è che per realizzare la giustizia in termini di nyaya non è sufficiente valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le stesse società.
Per l’economista indiano è auspicabile l'affermarsi di un’idea di giustizia che si basi sulle persone e sulla loro vita. L’esigenza, cioè, di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta bandendo l'indifferenza rispetto al tipo di vita che ogni persona è in grado di vivere.
Per esprimere questo concetto con le parole di Sen: “Chiedersi come stiano procedendo le cose, e se sia possibile migliorarle, costituisce invece un impiego costante e ineludibile nella ricerca della giustizia”.

L’economista applica, poi, la sua impostazione teorica alle attuali istituzioni e politiche europee: queste hanno fallito, non perché le istituzioni fossero sbagliate (Sen si esprime favorevolmente alle istituzioni europee) ma per il fatto che le istituzioni e le politiche economiche del vecchio continente non hanno tenuto conto della vita delle persone, che, soprattutto a seguito alla crisi economica del 2008, è notevolmente peggiorata. L’Europa ha perciò costruito le proprie istituzioni solo in termini di Niti, mentre guardando dall'ottica del Nyaya ha fallito.
Con queste premesse, per Sen, appare chiaro capire perchè la crisi economica del 2008 abbia portato l’Unione alla situazione attuale.
Tralasciando le cause che hanno portato allo scoppio della crisi, possiamo notare come essa abbia danneggiato la vita concreta di un, incredibilmente alto, numero di europei. Ciò è stato dovuto, in gran parte, da una gigantesca operazione di trasferimento del debito privato - in massima parte delle banche - caricato sulle finanze pubbliche. Per ovviare ai deficit - a questo punto pubblici - in Europa sono stati effettuati tagli al welfare, cioè, ad uno dei capisaldi del modello europeo costruito nel dopoguerra dalla gran parte degli Stati del continente.

Le politiche europee conseguenti, come ad esempio quelle inerenti il taglio del deficit, presentate come sensate e giuste, hanno finito col non produrre istituzioni stabili nel lungo periodo né una vita migliore per la maggioranza dei lavoratori europei.
In questa cornice si inserisce la moneta unica. L’euro, potenzialmente, un grande vantaggio e un punto di forza nella competizione con le altre grandi macro-aree economiche, è, per molti versi, diventato uno svantaggio. L’Unione Europea si è caratterizzata come un’unione, unicamente, monetaria, fallendo nell'unificazione fiscale e politica e non centrando l'obiettivo di una unità fattuale tra i popoli dei diversi Stati nazionali.
La crisi di consenso delle istituzioni europee ha creato un distacco fra queste ed i cittadini. Crisi ampliata da una morsa rigorista che ha tolto potere a Stati come l'Italia, la Grecia ed il Portogallo di poter operare aggiustamenti espansivi alle proprie economie.
L’austerità, originata dai parametri di Maastricht, ha messo un ulteriore freno a Stati in situazioni di debolezze economiche strutturali. I continui tagli, invece che aiutare queste economie, non hanno prodotto altro che ulteriori contrazioni del PIL.

L'esclusione, dunque, di politiche espansive ha prodotto, tanto per i privati che per gli Stati, una spirale, diretta verso il basso.
L’austerità ha bloccato processi di crescita al fine di ripagare un debito, che, per alcuni Paesi, ha raggiunto dimensioni enormi.
Le lodi sperticate dei rigoristi verso i Paesi nordici per essere riusciti ad andare incontro ai loro auspici, e le richieste di tagli ai paesi dell'Europa meridionale per giungere allo stesso risultato, non tengono in conto del fatto che un Paese come la Svezia è riuscito a ripagare il proprio debito in un tempo di grande crescita economica ed altri Stati hanno visto i propri debiti tagliati o ristrutturati, beneficiando anch'essi di periodi di crescita e non di recessione
L’Unione Europea ha promosso pacchetti di riforme congiuntamente ai cosiddetti tagli. L'establishment europeo ha, volutamente, confuso riforme, con austerità.
Una politica riformista avrebbe distinto le prime dall'altra, generando una crescita utile a ripagare il debito.
Nello stesso ambito di riflessione, di critica alla moneta comune ed alle politiche applicate dall’Unione, si pongono anche altri economisti fra i quali i Nobel Stiglitz, Mirrless, Pissarides, Krugman. Questi economisti spingono per una riforma dell’Europa insieme ad una parte dei cosiddetti europeisti.
Parte degli studiosi europeisti rimangono invece convinti che l’unica via di sviluppo sia rappresentata dall’austerità.
In quest'ultima posizione, per Sen, si consegue il Niti (portando avanti, per inciso, interessi di classe), che non sono però gli interessi contemplati dal Nyaya.
Significativa in tal senso è situazione della Grecia, messa in ginocchio dalla crisi, affossata dalle politiche di austerità chieste dall’Unione e diventata un terreno di scontro e giochi di potere fra gli Stati.

Nel novero delle posizioni troviamo, oltre ad i sostenitori dell’austerità, europeisti riformisti ed euroscettici, che vogliono l’uscita dall’euro e dall’Europa. La recente scissione di Syriza può essere inquadrata proprio sulla base di queste diverse posizioni: da una parte chi chiede all’Europa di cambiare e per questo è disposto a sacrifici, dall’altra chi, invece, dopo anni di sacrifici non è più disposto a perseguire, ad ogni costo, la strada dell'integrazione europea.
Quello che sembra mancare nel pensiero di Sen, e di altri economisti, è però una parte propositiva contenente la necessaria concretezza.
Come sostenuto da molti economisti, la chiave di salvezza per l'Europa sta nel processo di unificazione bancaria e finanziaria, oppure in una radicale trasformazione del Fondo salva-Stati in un vero e proprio Fondo monetario europeo.
In tale ambito di discussione si dovrebbero riformare i trattati al fine di dotare l’Eurozona di strumenti anti-ciclici efficaci, come un bilancio comune, e di istituzioni politiche pienamente legittimate a gestire quel bilancio.
L’altra soluzione, auspicata dagli anti-europeisti, è quella dell’uscita dall’euro, con i costi e i rischi che ciò comporta.

Dal punto di vista del Niti e del Nyaya, si può muovere una critica all’utilizzo che si fa dello strumento del PIL. Questo, infatti, pur essendo un indicatore facilmente misurabile, non può essere utilizzato per valutare correttamente lo sviluppo di una società.
In primo luogo, il PIL non riesce a valutare nel complesso le attività economiche di una società, non considerando, ad esempio, il lavoro domestico e le attività di autoproduzione. Il PIL, inoltre, essendo una misura aggregata, non tiene conto delle disuguaglianze, anche enormi, fra i cittadini di un dato Paese.
In secondo luogo, quando si utilizza una misura come il PIL, si valuta la crescita economica di uno Stato, ma non la condizione materiale dei suoi abitanti, né se vi sia uno sviluppo umano conseguente. Lo sviluppo umano, infatti, oltre a comprendere la crescita economica, considera altri fattori legati alle condizioni di vita degli individui.

Proprio per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni, si sono studiati nuovi indici per valutare la qualità della vita delle nazioni.
Uno di questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990 (anche sulla base del lavoro portato avanti da Sen). L’ISU dal 1993 è utilizzato dalle Nazioni Unite, proprio per valutare lo sviluppo umano dei paesi membri. L’indice di Sviluppo Umano è calcolato mediante la media aritmetica di tre indici: l’indice di aspettativa di vita, l’indice di istruzione e l’indice del PIL pro capite. Esistono anche altri indici, che tengano conto di altri fattori e dati, ma spesso questi dati sono difficili da reperire e riportare in una scala comune.
La “classifica” delle nazioni secondo l’ISU è consultabile sul sito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Appare subito evidente come, confrontando i dati sul PIL con quelli dell’ISU, le posizioni di alcuni Paesi siano completamente diverse nelle due “classifiche”.

Per concludere, riassumendo il pensiero di Sen, si può affermare che la situazione in cui si trova oggi l'Europa, sarebbe stata ampiamente evitabile qualora i legislatori europei avessero perseguito più il Nyaya che il Niti.
Oggi per ricostruire un’Europa che appare vicina al proprio crollo, le soluzioni proposte all'orizzonte del dibattito pubblico sono due: una uscita dall’euro od una inversione di rotta volta a ricostruire il modello tradizionale di welfare europeo.
Quale soluzione sia più agevole, meno dolorosa, e possa dare veri risultati di miglioramento della vita di gran parte della popolazione europea è oggetto di dibattito. Nessuna soluzione sembra, ad oggi, essere risolutiva. Certo è che una strada diversa vada intrapresa.

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Venerdì, 06 Novembre 2015 00:00

Antieconomia

Confesso che ho scarse conoscenze di economia. La mie informazioni in materia si limitano alla lettura di qualche libro di storia economica di Carlo Maria Cipolla, a pochi altri testi di natura strettamente divulgativa e agli articoli pubblicati di volta in volta sui diversi organi d’informazione.
Ho fatto questa premessa per scusarmi in anticipo con i lettori de Il Becco che al contrario hanno una maggiore e più estesa cultura economica, i quali potrebbero accusare le mie considerazioni e i miei dubbi di ingenuità nel migliore dei casi, di ignoranza della materia nel peggiore.
In breve il fatto è questo!

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