Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi

Un convegno emozionate e ricchissimo di riflessioni stimolanti e importanti, quello tenutosi il sei e sette novembre presso la Sala della Resistenza del Palazzo Ducale di Massa. Il ciclo di conferenze, dal titolo “Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi”, è stato organizzato dall’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” ed è nato da un’idea di Alessandra F. Cieli, una delle co-fondatrici e vice presidente dell’associazione stessa.

Dopo i saluti delle amministrazioni (il consigliere regionale Giacomo Bugliani e l’assessore Martina Nardi) e di Olga Raffo, co-fondatrce dell’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” si sono alternate moltissime relazioni. Non potendole affrontare tutte, ci soffermeremo su alcune della prima giornata di conferenze, moderate da Alessandra Pescarolo, dirigente dell’IRPET, esperta di sociologia e storia del lavoro e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche.

Daniela Lombardi, professoressa di Storia moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Pisa e una delle massime esperte di storia del matrimonio e della famiglia col suo intervento ha sfatato una visione a volte forse mitologica e un po’superficiale che abbiamo della famiglia di oggi. Si parla infatti molto di crisi della famiglia, con toni molto accalorati e molto spesso si dimentica, quando si affrontano questi temi, di avvicinarsi ad essi con un approccio più storico che permetta di leggere anche la realtà attuale in maniera più lucida ed oggettiva. Se si guarda, ad esempio, ai dati ISTAT risalenti al 2012 sulla situazione delle famiglie italiane, ci si accorge che, nonostante appunto si tenda a denunciare in continuazione l’aumento di divorzi e separazioni, questi ultimi sono in leggera diminuzione. Certo occorrerebbe avere anche i dati degli ultimissimi anni per poter fare una stima completa. Quello che emerge in particolare è però soprattutto un calo dei matrimoni, sia religiosi che civili ma accompagnato da un aumento delle unioni di fatto, delle famiglie ricostituite e delle coppie omosessuali che chiedono con sempre maggior forza, giustamente, un riconoscimento giuridico della loro unione. Quest’ultimo fatto è un chiaro segnale che vi è ancora un urgente bisogno di esser riconosciuti come famiglie e che quindi il desiderio stesso della famiglia non sembra esser scomparso, anche se è quello che negli ultimi anni tendiamo a credere. Certo, che le famiglie o l’idea di famiglia siano cambiate non c’è dubbio, ma certe tendenze che noi consideriamo strettamente contemporanee in realtà non lo sono, per lo meno non tutte. siamo davanti, prosegue la Lombardi, a mutamenti epocali che non sono solamente di oggi, ma che hanno avuto inizio già a partire dagli anni ’70 del ‘900, non solo in Italia ma anche in molti paesi europei e negli Stati Uniti d’America. I cambiamenti più evidenti sono i seguenti: instabilità coniugale, separazioni e divorzi in crescita già dagli anni ‘70 e diffusione della contraccezione (fenomeno caratteristico degli anni ’70 che ha fatto sì che la procreazione non fosse più una fatalità ma una scelta).

Si fanno meno figli. In realtà si parla ancora troppo poco, soprattutto in Italia, di questo calo della natalità, presente anche nel sud e anche tra gli immigrati. Quest’ultimo aspetto significa che non esiste alcun collegamento con il lavoro femminile, tanto che se andiamo a guardare a un paese come la Svezia che detiene il più alto tasso di occupazione femminile, vediamo che lì il tasso di natalità è molto aumentato. Al contrario, sono proprio le difficoltà economiche che provocano un calo delle nascite e non tanto il fatto che ci siano più donne a lavorare.
Diritto di famiglia in Italia del 197 che ha portato ad alcune innovazioni importanti: la parità dei diritti dei coniugi; la stessa responsabilità, per entrambi i coniugi, nei confronti dei figli (la patria potestà, proveniente dal diritto romano, finalmente nel XX secolo, viene dunque abbattuta); parità dei diritti tra figli nati all’interno del matrimonio (i cosiddetti legittimi) e quelli nati fuori dal matrimonio (i cosiddetti illegittimi) e scomparsa dei termini stessi di legittimità/illegittimità nel riferirsi alla prole.

L’allungamento della vita e il calo delle nascite hanno inoltre portato a un cambiamento all’interno delle relazioni parentali: vi è una riduzione della parentela in senso orizzontale (cugini, fratelli, sorelle..) e un allargamento della parentela in senso verticale (bisnonni, nonni, nipoti..), tanto che alcuni sociologi hanno chiamato il XX secolo, “secolo dei nonni”.
Tutti questi mutamenti, ad ogni modo, contrariamente a quel che si pensa, non hanno portato alla fine della famiglia, nonostante la proliferazione sempre più numerosa di saggi con titoli apocalittici come “la morte della famiglia”, “La fine del matrimonio” e simili. La crisi della famiglia può essere ridimensionata proprio se acquisiamo uno sguardo storico attraverso il quale renderci conto che più che scomparire, la famiglia si è adattata a questi cambiamenti, ed è sopravvissuta per quanto in forme diverse dai secoli precedenti.

Altro mito da sfatare: molti si attaccano tanto all’idea della “famiglia tradizionale”. Ma che cos’è la famiglia tradizionale. Certo, per la Chiesa e per alcune forze politiche, la famiglia tradizionale è quella composta da un uomo e una donna, ma in realtà nel passato non c’è mai stata una “famiglia tradizionale” o un’idea di famiglia tradizionale. Ad esempio, non tutti si sposavano: il fenomeno dei single non è un motivo solamente di oggi; esistevano già fenomeni di convivenza o di concubinati, per quanto non fossero accettati dalle autorità religiose e secolari. Molto spesso ci si univa per solidarietà, soprattutto tra partners provenienti da ceti sociali poveri che dovevano fronteggiare difficoltà economiche, più facili da combattere che stando soli; l’instabilità stessa non è un fenomeno contemporaneo. Piergiorgio Curti (Associazione Lacaniana italiana di psicoanalisi) parla proprio di “instabilità strutturale” (ci sono vari esempi di fughe dal matrimonio, già a fine ‘600, come quella di Nicoletta Grillo). Un altro dato che è rimasto piuttosto costante è che spesso le domande di separazione venivano soprattutto dalle donne, in particolare per violenza maritale. Anche in questo dunque vediamo un parallelismo tra ieri ed oggi e ci rendiamo conto che questo fenomeno non appartiene soltanto alla nostra contemporaneità; altro aspetto di comunanza era l’esistenza di famiglie nucleari, soprattutto tra ceti poveri e un numero contenuto di figli stesso, spiegabile sia per la tarda età del matrimonio (26-27 anni) che per l’esistenza di metodi contraccettivi “naturali” (l’interruzione del coito.)

L’età d’oro del matrimonio, secondo i sociologi, si è avuta tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900, quando dopo il secondo dopoguerra si assistette a una fase di ripresa economica accompagnata da una nuova speranza e una nuova euforia generale. Quindi non è facile, andando a ritroso nel tempo della storia, trovare una chiara idea di famiglia tradizionale. Ricordiamo poi che nel passato la reale funzione del matrimonio era quella di stabilire alleanze, politiche, nel caso delle famiglie nobili o regnanti o economiche nel caso di famiglie di ceto popolare (unire due forze lavoro). quindi una “famiglia tradizionale” fondata sul reciproco interesse! È questa la famiglia tradizionale a cui ci si appella?! Sarà nel ‘700 che Rousseau teorizzerà, stabilendo così la cifra della modernità, il matrimonio come sfera intima, privata, fuori dagli interessi o ruoli pubblici, fondato sulla libera scelta degli individui che si uniscono e mirante a realizzare la felicità di ognuno dei suoi membri. La sfera della felicità privata, individuale viene dunque prima di quella pubblica, condivisa, fatta di ruoli e relazioni sociali.
Oggi, conclude Lombardi, che la speranza di vita per le donne è arrivata a 84, 4 anni per le donne e 79,9 per gli uomini (dati risalenti al 2013), come possiamo stupirci che i matrimoni durino di meno? Non sarà che forse si adeguano anch’essi a un’età della vita diventata troppo lunga?

Un altro dei molti interventi proviene da Elena Pulcini, docente di filosofia sociale presso l’Università degli Studi di Firenze. Nella storia filosofica dei sentimenti, esordisce la professoressa, sicuramente Jean-Jacques Rousseau ha svolto un ruolo significativo, addirittura è stato colui che, come già aveva accennato Lombardi, si può dire abbia dato origine a un archetipo moderno: il matrimonio come una sfera intima, privata, che unisce due soggetti per loro libera scelta e per perseguire la propria felicità individuale. Come, quando e perché nasce la famiglia fondata sull’amore? Chiede Pulcini. Due aspetti fondamentali sono da considerare nell’ambito di un’epoca (il ‘700) come quella in cui scriveva Rousseau: la nascita di un nuovo codice affettivo accompagnata dall’intuizione dell’ambivalenza dell’amore e del soggetto amoroso e la riabilitazione della natura umana che configura un’antropologia positiva e introduce anche una riabilitazione delle passioni e della dimensione corporea. La sensibilità diventa infatti fonte di una nuova identità e fonte stessa della felicità. Il ‘700 è infatti proprio “il secolo della felicità” – tanto che vi è una proliferazione ingente di saggi, romanzi, libelli che hanno come tema proprio la bonheur. La felicità diviene quasi una massima kantiana, quasi un obbligo morale e giuridico, un imperativo antropologico: devi essere felice. È in questo secolo che viene infatti teorizzato e scoperto il diritto alla felicità posta sullo stesso piano degli altri diritti tradizionali quali la vita, l’eguaglianza e la libertà (addirittura nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America ratificata a Filadelfia nel 1776 essa compare come suo articolo iniziale: “Noi riteniamo che […]tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati […] di diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità”). Idea inedita di felicità intesa come stato permanente, non come momento o stato d’animo provvisorio e fugace.

Tornando alle passioni, queste ultime sono riconosciute come fattore dinamico della vita psichica delle persone. Tuttavia non manca di notarne la potenziale pericolosità e ambivalenza. Esse devono essere “addomesticate”, ammansite, edulcorate e ridotte a sentimenti, per levigarne il carattere potenzialmente (auto)distruttivo. Da forze caotiche, disordinate, distruttive si trasformano (o devono trasformarsi) in sentimenti pacati, controllati, ordinati, domesticabili. Il sentimento diviene così quella giusta via di mezzo, quella mesotès di aristotelica memoria (In medio stat virtus sarà la traduzione scolastica del concetto greco citato) tra la fredda a calcolante razionalità (quella che caratterizzerà l’ homo oeconomicus), e la troppo calda e (s)travolgente passione. Tale è il nuovo codice degli affetti in cui è possibile rintracciare la cifra della modernità. Charles Taylor (filosofo e sociologo canadese) ha persino identificato il sentimento come “il perno della cultura della modernità” . è sul codice del sentimento che si fonda la visione della famiglia come sfera intima, affettiva, in contrapposizione a una sfera pubblica oggi sempre più dominata dalle leggi del mercato e del consumo, dalla competitività selvaggia e dalla ricerca del profitto a tutti i costi. Ad ogni modo è sul sentimento, nel 700, che viene a fondarsi l’amore e la sfera privata moderna, la famiglia moderna (sia coniugale che genitoriale/filiale). Non dunque la passione fonda la famiglia ma il sentimento, l’ amour-amitié, l’amore amicizia, o l’amore-stima, che risponde ad alcuni dei bisogni più urgenti e forti dell’essere umano: il bisogno di affettività e diritto dell’individuo di scegliere il partner che ritiene più adeguato; il bisogno della durata, della sensazione di avere qualcosa di duraturo e stabile nella propria esistenza; una coesione interiore e una condivisione forte con la dimensione collettiva. Il sentimento però non è qualcosa di innato, ma lo si conquista non senza un a volte dilaniante conflitto interiore che può portare persino alla scissione del sé. La passione infatti rimane comunque, una forza vitale, necessaria per la costituzione stessa dell’identità. Nel romanzo di Rousseau, “La nuova Eloisa” (titolo ispirato dall’amore tra Abelardo ed Eloisa appunto), la protagonista, Julie, si innamora appassionatamente del proprio precettore ma rinuncerà a questa passione, questo “amour fou” per sposare un uomo attempato che le consentirà però di tenere insieme la dimensione soggettiva e la dimensione pubblica. Preferisce una tranquilla serenità a una passione travolgente ma pericolosa e “condannabile”. Sicuramente l’amore-passione può avere delle conseguenze distruttive: isola gli amanti relegandoli in una dimensione un po’ovattata, fuori dal mondo, dalla società, dalla dimensione pubblica, amore focoso, senza misura che vive e si alimenta solo di sé stessa, passione che si riempie solo di sé stessa e si nutre solo di sé; non è duraturo né stabile, è una vertigine, un uragano, una tempesta, un vortice che trascina potentemente i due amanti con sé ma che una volta esaurito rischia di annullarsi del tutto, fuoco che una volta spento diventa solo fumo e cenere; può portare, anch’esso, alla scissione del sé.

Tutto questo, accade comunque soltanto all’interno del soggetto, si tratta di un conflitto tutto interiore, tra l’io e l’io e non in nome di norme imposte o sancite dalla comunità, dalla collettività. È una lotta lacerante tra esigenze e bisogni diversi di uno stesso io, che se da una parte si sente animato da una passione che lo scuote, che lo riempie, lo colma, una passione che innalza la vita ai suoi massimi livelli, dall’altra sente l’esigenza di una pace interiore ed esteriore, di un equilibrio tra la sua dimensione individuale e quella collettiva, che se da una parte sente la vita in maniera più forte del normale quando avverte dentro di sé un desiderio desiderante, il desiderio stesso che si alimenta di se stesso, dall’altra anela una stabilità affettiva ed esistenziale durevole e sicura, una comodità su cui adagiarsi tranquillamente e quietamente. Se da una parte è la passione a tenerlo vivo e ad accendere la miccia del suo sentire, del suo provare sensazione, dall’altra teme la propria distruzione, la propria rovina come soggetto e come persona inserita in un contesto sociale e aspira a una coesione interiore ed esteriore. Altra novità riscontrabile nel testo del filosofo francese è la dignità conferita alla donna, che acquista valore di soggetto. Attenzione però, per quanto apprezzabili potessero essere le intenzioni dell’autore nel delineare questa nuova dignità, suo malgrado essa ha contribuito a far introiettare la figura femminile come quella dedita all’altro e alla cura degli affetti, fuori dalla dimensione pubblica. Per Rousseau infatti la donna è soggetto, sì, ma è soggetto destinato ad essere per l’altro: un soggetto altruistico, dedito appunto alla cura dell’altro, un soggetto oblativo, che annulla la dimensione del sé più proprio e individuale.

La donna è moglie e madre, è colei che gestisce la sfera degli affetti e delle relazioni familiari, dunque colei che deve occuparsi della sfera privata. Tale visione ha lasciato le sue tracce anche nella modernità: la donna ha il potere di unire, di tenere insieme, di gestire i sentimenti e le relazioni, ma finisce così di esser relegata nel chiostro della dimensione privata e l’esclusione dalla sfera pubblica, concessa soltanto all’uomo. Questa costruzione dell’immagine della donna si traduce anche in un’evitabile perdita del diritto al pathos e all’eros: per gli uomini le passioni sono rivendicate come un diritto, una forza, una connotazione positiva, eroica, mentre nella donna tendono spesso a generare sensi di colpa, e ciò si traspone anche nella sfera pubblica e collettiva, in quanto la società borghese condannerà sempre e solo l’adulterio femminile e mai, o di rado quello maschile – basti leggere romanzi come “La lettera scarlatta”, “Madame Bovary” o “La nuova Eloisa” stesso. In quest’ultimo vi è senz’altro una critica, da parte dell’autore all’amore fatale, a favore di un amore amicizia ma in realtà nello stesso tempo Rousseau sembra abbattere il mito della passione distruttiva, che porta alla morte del sé. Infatti il romanzo si conclude con un’emblematica frase pronunciata dalla protagonista, che lascia intendere che forse la scelta di sacrificare questa passione intensa per un quieto sentimento, per una quieta felicità, uno stabile e duraturo affetto non è del tutto fioriera di appagamento profondo. “La felicità mi annoia” dice Julie. Una frase che esprime una sorta di stasi inorganica, un’anestesia dell’io più vero e intimo, un’anestesia di ogni slancio vitale, una condanna a morte, muta e silenziosa della potenza della vita, un’apatia annichilente. Da questa felicità noiosa emerge un incolmabile vuoto dell’essere, che ha abortito una parte profonda di sé, che ha soppresso e ammutolito il desiderio irrequieto ma vitale e con esso ha perso la forza e lo slancio che se gettano l’io oltre o fuori di sé nello stesso tempo lo vivificano e lo fanno essere. L’io è desiderio o non è. È mero involucro di niente. La vita del soggetto desidera e desidera desiderare o muore di una morte lenta. L’io muore dentro perché uccide una parte di sé, la più viva, la più forte, la più vera, la più potente. L’io si adagia sul vuoto svuotandosi di passione e desiderio. La scelta di Julie ha dunque richiesto la rinuncia a una parte autentica del proprio sé e questo tradimento che l’io fa a sé stesso in qualche modo lo annienta. Perché Julie avverte di aver perso qualcosa. Avverte di non sentire. Avverte che la sua felicità l’annoia, non la appaga. Avverte di aver perduto l’io autentico e profondo che la faceva sentire viva. Forse non felice ma di fatto, viva. Il problema di Julie sta nel suo non riuscire a tenere insieme l’amore e la passione, il desiderio e il matrimonio, l’anelito di seguire l’uomo che ama e di cui, anche da sposata torna ad esser l’amante, e l’esigenza di essere rispettata pubblicamente, il desiderio instabile, continuamente in tensione e costantemente eccedente e il bisogno di stabilità ed equilibrio..è possibile, chiede la filosofa, trovare una sintesi virtuosa tra questi due poli così apparentemente inconciliabili? Già nell’800 cominciamo a vedere, che questo è possibile – si leggano ad esempio i romanzi di Jane Austen, in cui quasi sempre il lieto fine sancisce l’unione matrimoniale di un amore sincero e forte. Nel ‘900 poi il processo arriva a compimento, grazie in particolare all’emancipazione femminile, a una relazione tra sessi più libera da gerarchie.

In ogni caso, quel che Rousseau sembra aver voluto suggerirci è di riconoscere l’ambivalenza dell’amore e l’impossibilità di viverla pienamente o in maniera appagante e completa. La sfida, conclude Pulcini, è quella di imparare ad abitare e gestire tale ambivalenza senza fingere che non esista, consapevoli degli aspetti chiaroscurali, delle sfumature infinite, ambigue, perennemente in precario e vertiginoso equilibrio, delle emozioni e delle passioni e cercar di vivere, nella maniera possibilmente più libera e incondizionata, la ricchezza inesauribile di una piena “democrazia delle emozioni”.

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Il pensiero di Althusser II: Antiumanesimo teoretico

A partire dalla seconda metà del Novecento il paradigma umanista, che ha dominato l’orizzonte culturale del mondo occidentale lungo tutta l’età moderna, è entrato in una crisi profonda che riflette una insoddisfazione crescente nei confronti della presunzione degli approcci di matrice cartesiana di porre l’essere umano al centro di ogni riflessione filosofica.

Non solo eventi storici dalla portata devastante come le guerre mondiali, i genocidi di massa, la corsa agli armamenti e la conseguente minaccia di distruzione atomica, ma anche radicali trasformazioni sociali ed economiche che hanno visto l’esaurirsi del sistema di produzione fordista, in un contesto di globalizzazione e di crescita delle disuguaglianze sia all’interno dei paesi industrializzati che fra paesi del sud e del nord del mondo, hanno contribuito a mettere profondamente in discussione l’ottimismo che ha contrassegnato quello che Habermas ha definito "il progetto della modernità". Alla prova dei fatti, la concezione che ha interpretato l’uomo come autonomo ordinatore della realtà, come il protagonista razionale e il deus ex machina di un processo storico, di una marcia trionfale di crescita e progresso tecnico che lo avrebbe condotto all’emancipazione e alla felicità assoluta, ha dimostrato tutta la sua inconsistenza.

È in questo clima di forte insofferenza verso gli insegnamenti tradizionali che comincerà a diffondersi, soprattutto in Francia, sia nell'ambito filosofico che delle scienze sociali, l'approccio strutturalista. Facendosi interpreti del disagio nei confronti della filosofia tradizionale, alcuni dei suoi principali esponenti quali Lévi-Strauss, Foucault, Lacan e Althusser sono riusciti nella sfida di coniugare l’insegnamento dei maestri Marx, Freud e Nietzsche, attenti nel descrivere le forze latenti che determinano il comportamento umano, con gli impulsi formalisti che provenivano dalla linguistica di Saussure, portando così a compimento un percorso teorico particolarmente fecondo di messa in discussione del concetto di uomo e di soggetto così come concepito dalla filosofia tradizionale, da Cartesio in poi.
Le riflessioni teoriche di questi autori tendano a minare profondamente l’immagine predominante dell’uomo che si è imposto nella modernità: se nel pensiero umanista l’essere umano è concepito come libero, capace di iniziativa e di apportare il cambiamento con la ragione, inserito in un flusso temporale costante che lo rivolge verso il progresso e la certezza di un futuro migliore, nell’ottica strutturalista è invece interpretato come profondamente determinato da elementi esterni e latenti in un contesto in cui le sue azioni si traducono nella continua riproduzione della realtà, ordinata, senza tempo e uguale a se stessa.

L'apporto specifico di Althusser alla critica antiumanista è di fondamentale importanza, tanto per la sua capacità di contribuire in maniera feconda alla riflessione strutturalista, quanto per quella di aggiornare il pensiero neomarxista di Gramsci e Lukács al contesto del dopoguerra e del pieno sviluppo della società fordista.
In primo luogo, l’obiettivo dichiarato di Althusser era quello di confutare la concezione del marxismo umanista secondo cui il pensiero dell’autore de "Il Manifesto" vada interpretato come una dottrina politica della libertà in cui viene enfatizzato il ruolo attivo e creativo di donne e uomini nel cambiare il mondo e rompere le catene dell’oppressione dello sfruttamento capitalista.

Secondo Althusser la teoria marxista è innanzi tutto una analisi scientifica della fase di dominazione capitalistica e non un pamphlet moralizzante. In quest'ottica, l'oggettività dell'impresa scientifica richiede uno studio rigoroso del sistema capitalistico e della società borghese, avulso da ogni forma di ideologia, soprattutto quella umanista. Porre al centro l'essere umano, e attribuirgli caratteristiche innate di razionalità, autonomia e coscienza, come fa la filosofia umanista, è una grave distorsione che impedisce una lettura della realtà estranea agli interessi di parte.

L'antiumanismo teoretico di Althusser è dunque innanzitutto questo: l'invito a studiare la realtà sociale considerando l'essere umano come uno degli elementi che la caratterizzano ma non come il centro da cui dipende tutto, il deus ex machina che ordina il mondo.
Seguendo la scia di Spinoza, Althusser riconduce alla categoria di ideologia anche il soggetto stesso, interpretato come una illusione del tutto immaginaria. Il Marx del Capitale, secondo Althusser, si libera dell’umanesimo e di un modo di filosofare incentrato sul soggetto per ridurlo, alla stregua di Spinoza, a mera ideologia che come tale deve essere espulsa da ogni teorizzazione scientifica. Questo sforzo è ravvisato da Althusser negli scritti di Marx dal 1845 in poi in cui il filosofo tedesco «rifiutando l’essenza dell’uomo come fondamento teorico […] bandisce le categorie filosofiche di soggetto, empirismo, essenza ideale ecc. da tutti i campi in cui regnavano» e, riconducendo l’umanesimo alla sua funzione pratica di ideologia, apre la strada a una conoscenza scientifica del mondo umano.

Spostare l'attenzione dagli uomini o gruppi sociali, per concentrarsi sui già dati rapporti di produzione che distribuiscono meccanicamente i ruoli e le funzioni che gli uomini ricoprono nella loro vita quotidiana, implica ripensare non solo la centralità del soggetto ma anche smantellare i presupposti di coscienza e autonomia che gli sono sempre stati attribuiti.
La libertà in questo frangente va vista come è una condizione di possibilità del sistema, non come una attribuzione o una caratteristica posseduta intrinsecamente dagli esseri umani. Questi ultimi, o le classi sociali nelle quali sono inseriti, non sono i soggetti della storia ma semplicemente dei portatori o supporti (Träger) dei rapporti di produzione. Fra le più importanti conseguenze di questa interpretazione sta una visione dell’individuo che, contrariamente a qualsiasi concezione filosofica legata all’umanismo, sia essa di matrice illuminista che socialista, non ha alcun peso nel determinare la storia, ma si limita semplicemente a riprodurre il compito che gli viene assegnato. Il cambiamento sociale, la rivoluzione non ha a che fare con l'azione illuminata di alcuni soggetti ma è una mera possibilità, peraltro intrinsecamente aleatoria, derivante da particolari e favorevoli situazioni strutturali come quella della Russia degli inizi del Novecento. Se il motore della storia è la lotta di classe, quest’ultima non ha nulla a che fare con la libera iniziativa degli individui che acquisiscono coscienza della loro condizione, piuttosto è l’esito dell’influenza reciproca fra le varie sfere della società all’interno della struttura. Non essendo il demiurgo della storia ma piuttosto subendone gli avvenimenti, l’essere umano subisce un radicale decentramento rispetto al centro della conoscenza e della realtà, ruolo al quale l’umanismo lo aveva eretto.

Ma questo “antiumanismo teoretico”, pur decentrando in maniera radicale e riducendo a mero meccanismo l’essere umano e rifiutando di considerarlo l’unità di analisi privilegiata di qualsiasi discorso scientifico, non rompe in maniera decisiva con il progetto illuminista e modernista di una conoscenza oggettiva che si erga a baluardo nei confronti di tutti i tentativi mistificativi delle forme di oscurantismo ideologico che riproducono le disuguaglianze sociali.
Certo, come ammette lo stesso Althusser, non è facile essere marxisti in filosofia, non è facile armonizzare la contrapposizione fra il pensiero scientifico e quello ideologico, ma è da questa distinzione che occorre partire per evitare che la critica al positivismo, all’umanesimo, allo storicismo, al razionalismo cartesiano non si riduca a mero nichilismo. Solo una critica teoretica, rivolta ai fondamenti della concezione umanista della filosofia occidentale, può, mettendo da parte ogni connotazione moralista, far comprendere quale è il posto dell’uomo nel mondo: ciò significa a un tempo rimarcare la sua mancanza di libertà rispetto alle regole strutturali che lo avvolgono ma, allo stesso tempo, permette di liberarlo dalla fallacia ideologica nel quale è stato rilegato dalla concezione umanista.

Sebbene ad oggi l'enfasi posta da Althusser sulle forme di dominazione a cui si deve piegare l'uomo, incapace di generare cambiamento in quanto inserito in ruoli che ripete all'infinito, appaia eccessiva e troppo sminuente nei confronti della capacità dell'uomo di promuovere il cambiamento, non deve sfuggire l'intento di Althusser che non è tanto quello di negare la possibilità che l'essere umano apporti un contributo per determinare la sua liberazione, quanto quello di liberare l'uomo dalla presunzione di pensare di essere al centro dell'universo. L'idea borghese dell'uomo così come teorizzata da Cartesio fino a Kant, come vedremo quando Althusser ci parlerà degli Apparati Ideologici di Stato, è un meccanismo di dominazione perché nel farci credere di essere soggetti liberi e già autonomi, distrugge lo spirito critico e rende docili: immaginandosi come soggetti già intrinsecamente votati alla libertà, diventa meno lucida la nostra capacità di comprendere che in realtà siamo assoggettati a una forma di dominazione sottile che facendoci credere di essere liberi, genera in realtà consenso e riproduce lo status quo.

Ecco allora che appare chiaro l'obiettivo di Althusser: resistere all'umanesimo in quanto strumento ideologico funzionale al capitale, analizzare il capitalismo per quello che è, ovvero un sistema di sfruttamento, non dovuto alla "cattiveria" della classe dominante, ma legato a elementi strutturali come la proprietà dei mezzi di produzione e la presenza di rapporti di produzione. Solo rimanendo ancorati all'analisi scientifica ci si può permettere di sfuggire alla trappola ideologica di considerare l'uomo come razionale demiurgo della propria libertà e si può aprire le strade al vero cambiamento sistemico.

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Martedì, 26 Maggio 2015 00:00

Ricordando Pietro Chiodi #1

Fuori si sentono voci tranquille di passanti e grida di bambini. Un terribile pensiero mi prende. Perché mi sono impeganato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti più sani e forti di me vivono tranquilli sfruttando la situazione in ogni modo? […] Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: <È meglio morire che sopportare questo >. Sì è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve. Una strana pace mi invade l’animo a questo pensiero. Ripeto dentro di me: < Non potevo vivere accettando qualcosa di simile. Non sarei più stato degno di vivere
da “Banditi” di Pietro Chiodi

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Giovedì, 21 Maggio 2015 00:00

A Firenze il Festival delle Religioni

Quanto v'è di certo nella morte è un po' mitigato da quanto v'è d'incerto: è un indefinito nel tempo, che ha in sé qualche cosa dell'infinito e di ciò che chiamiamo eternità.
Jean de La Bruyère

In questi giorni (15-16-17 maggio) si è tenuto, in vari luoghi di rilevanza della città di Firenze (Palazzo Vecchio, Gabinetto Viessieux, Biblioteca delle Oblate, Sinagoga e altri), il Festival delle religioni, organizzato dalla dottoressa in filosofia Francesca Campana Comparini, che come sottotitolo ha avuto “anadareoltre”, perché, come si legge nel volantino “è arrivato il momento di andare oltre, di prendere coscienza non solo della pluralità dell’esistenza ma di riconoscere il nostro volto in quello di chi ci sta di fronte, come disse Levinas. Oltre il fanatismo, oltre la mortificazione della vita, della razza, delle idee e infine dell’uomo.” Tra le varie conferenze che hanno visto ospiti importanti e noti quali Zygmut Bauman, Piergiorgio Odifreddi, Valdo Spini, Vincenzo Cantone, Ennio Morricone e tanti altri, presso l’Altana delle Oblate c’è stata quella che vedeva come relatori Paolo Ruffini, giornalista e direttore di TV2000, Vito Mancuso, teologo e scrittore di successo e Sergio Givone, filosofo di Estetica presso l’Università degli Studi di Firenze ed ex Assessore alla Cultura. Comparini dà avvio al dibattito citando le parole di Sant’Agostino: “non uscire da te stesso; rientra in te: nell’intimo dell’uomo risiede la verità, e se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso […] Tendi pertanto là dove si accende il lume vero della ragione” e poi passa la parola a Ruffini.

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Giovedì, 19 Febbraio 2015 00:00

Eros, Agape e Philia: Armido Rizzi allo Stensen

“La pienezza dell'amore del prossimo è semplicemente l'essere capaci di domandargli: "Qual è il tuo tormento?" (Simone Weil)

È il teologo e filosofo gesuita Armido Rizzi a concludere il ciclo eros, philia, agape organizzato dalla fondazione Niels Stensen di Firenze. Lo studioso di teologia esordisce prendendo spunto dall'occasione offerta dalla data del 14 febbraio, il giorno degli innamorati. Non tutti sanno infatti che San Valentino, morto appunto il 14 febbraio del 1273 diventò il protettore degli innamorati perché celebrò l'unione di un pagano e una cristiana.

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Mercoledì, 18 Febbraio 2015 00:00

Eros, Agape e Philia: dio e amore

“Un’impazienza d’ali, dentro di me, improvvisa. / È l’impulso del volo, se non ancora / La direzione del volo. Qualcosa / Mi ha chiamata, qualcosa in me risponde. / Io che rispondo sono sconosciuta / A me stessa come la voce che mi chiama”
Cristina Campo

Proprio nel giorno dedicato agli innamorati si conclude il ciclo di incontri filosofico-spirituali organizzato dall’Istituto Stensen, che hanno per tema l’amore. O meglio le sue tre coordinate: eros philia agape.

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Martedì, 27 Gennaio 2015 00:00

Memorie dal sottosuolo

Mi davo alla depravazione solitariamente io, di notte, di nascosto, pavidamente, sudiciamente, con una vergogna che non mi lasciava nei momenti piú ripugnanti e che anzi in quei momenti giungeva fino alla maledizione. Già allora portavo nell'anima mia il sottosuolo. Avevo una tremenda paura che in qualche modo mi vedessero, m'incontrassero, mi riconoscessero. E giravo per vari luoghi molto oscuri.
(da “Memorie del sottosuolo” di F.Dostoevskij)

 

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Mercoledì, 17 Dicembre 2014 00:00

Remo Bodei : Età della vita, età delle cose.

Nell’ambito di “Leggere per non dimenticare”, ciclo di incontri culturali a cura di Anna Benedetti, mercoledì 10 dicembre la Biblioteca delle Oblate ha aperto le porte a un ospite illustre, il noto filosofo Remo Bodei, professore di filosofia alla University of California, dopo aver insegnato diversi anni alla Scuola Normale Superiore e all’Università di Pisa, che ha presentato il suo nuovo libro, dal titolo “Età della vita, età delle cose”. A introdurre il professore e il suo ultimo lavoro (preceduto da titoli importanti come Ordo amoris, Paesaggi sublimi, Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri e molti altri) è stato il Sindaco di Firenze, Dario Nardella.

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Venerdì, 18 Luglio 2014 00:00

Un viaggio attraverso terra e melos

Sorridi voluttuosa terra dal fresco respiro! Terra di dormienti, liquidi alberi! Terra del tramonto andato - terra delle montagne dalle vette di nebbia! Terra del vitreo scorrere della luna piena tinta di blu! Terra dello splendore e dell'oscurità che screziano l'acqua del fiume! Terra del limpido grigio di nuvole più vivide e più chiare per amor mio! Terra che si stende lontano a gomito - terra ricca di meli in fiore! Sorridi, il tuo amante arriva, Prodiga, tu mi hai dato amore - perciò io a te do amore! Oh indicibile, appassionato amore
Walt Whitman

Io sono colei che è la madre naturale di tutte le cose. Signora e reggitrice di tutti gli elementi, la progenie iniziale dei mondi, il culmine dei poteri divini, regina di tutti coloro che popolano gli inferi prima ancora di quelli che affollano il cielo […] per mio volere si dispongono i pianeti in cielo, le salubri brezze marine e e i lamentosi silenzi infernali […]”Come ha scritto Robert Graves nel suo La Dea bianca, questi versi, tratti dall’Asino d’oro di Apuleio compongono “il più completo e ispirato ritratto della grande dea di tutta la letteratura antica”.

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Lunedì, 17 Marzo 2014 00:00

Non fare filosofia per scherzo.

Non fare filosofia per scherzo, ma sul serio; perché non abbiamo bisogno di apparire sani ma piuttosto di esserlo veramente.
Epicuro

Esatto. La filosofia non è uno scherzo, non è un passatempo per oziosi intellettualoidi che si divertono in malo modo perdendosi in sillogismi, ragionamenti, saggi e fenomenologie dello spirito. Forse tra gli amanti della filosofia ci sono anche costoro, ma la filosofia in sé è qualcosa di più. La stessa etimologia ce lo insegna: il termine infatti è di origine greca ed è l’unione di due parole, φιλος dal verbo φιλεĩν che significa amare e dalla parola σοφίɑ che vuol dire sapienza. Quindi filosofia vuol dire amore per la sapienza e filosofo è colui, appunto, che ama o è amico del sapere, della saggezza. Non è il saggio o il sapiente, non necessariamente, ma colui che tende, aspira alla saggezza o alla sapienza perché la ama. Non è una pratica elitaria da intellettualoidi che si divertono a mandare in tilt le teste dei “profani” con i loro sofismi labirintici e i loro sillogismi logici. O comunque, può anche esserci chi ne fa questo uso, ma non è esso quello più importante e necessario. La filosofia, come qualsiasi attività che mette in gioco le nostre capacità di ragionamento, di critica, che permette di fare un po’ di ginnastica al cervello, che ci misura con idee e autori che ci hanno preceduto o che ci accompagnano tutt’ora, che ci incanta con la portata del loro lume o con la bellezza della loro scrittura, ci aiuta a pensare, ci apre la mente, o ci riempie gli occhi (nel caso dell’arte per esempio).

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