Alessandro Zabban

Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

Venerdì, 20 Ottobre 2017 00:00

Ramones, fuori dagli equivoci

The Ramones: atipici eroi del punk

I don't like playing ping pong
I don't like the Viet Cong
I don't like Burger King
I don't like anything
And I'm against it
I'm against it
Well I'm against it
(Ramones - "I'm Against It")

Fin dalla sua inaugurazione nel 1973, Il CBGB del Lower East Side di Manhattan si presentava come uno dei locali più sporchi e ripugnanti di New York. L'aspetto era quello di una fogna nauseabonda, le pareti erano coperte di graffiti, la puzza di piscio era ovunque. Nell'indifferenza generale, Hilly Kristal, il proprietario, vi lasciava liberi di scorrazzare e defecare i suoi cani. La sua passione lo spinse a dar vita a quello che sarebbe dovuto essere un music club dedicato al Country, al Blues e al Bluegrass (da cui l'acronimo CBGB) ma si rese ben presto conto che i pochi appassionati di quelle sonorità non si sarebbero presentati in quel posto nemmeno per sbaglio. Decise così di dare fiducia ai gruppi rock underground del posto nella speranza di attirare un pubblico giovane e più ricettivo. Fu così che fra il '74 e il '77 gruppi e artisti come Television, Blondie, Patti Smith, Talking Heads, The Heartbreakers, Suicide e Ramones si esibirono a più riprese sul palco di quello che stava ormai diventando, insieme al Max's Kansas City, il punto di riferimento di una delle più importanti scene musicali del globo.

Genealogia dell'ordoliberalismo - III parte: L'uomo come impresa individuale

Qui la parte I, qui la parte II.

Abbiamo visto nell'articolo precedente come il neoliberismo di matrice tedesca non sia un banale ritorno alle concezioni ottocentesche del laissez faire quanto piuttosto la ricerca di un nuovo ruolo e di un nuovo attivismo dello stato, non più incaricato di ridistribuire le risorse ma bensì di garantire il funzionamento di una economia di mercato vista non come naturale ma come un artificio complesso e delicato in cui ingranaggi devono essere continuamente lubrificati dall'intervento statale.
Ma un nuovo protagonismo pubblico non basta, occorre ripensare anche la società e occorre ripensarla dal punto di vista del mercato. Un nuovo ordine economico fondato sul meccanismo della concorrenza non può reggere se le comunità umane provano a resistere alle sue logiche. Non si può pensare di far funzionare un sistema fondato sulla competizione permanente se gli individui si oppongono alla società mercantilista e se indugiano in atteggiamenti solidaristici o collettivisti. Persino nelle moderne società industriali avanzate, il rifiuto di conformarsi completamente ai meccanismi economici cari a Eucken e soci resta diffuso. Compito dell'ordoliberalismo è quello allora di unire alla politica economica una gesellschaftspolitik, ovvero una politica della società (piuttosto che una politica sociale) volta a proporre un modello bio-economico che conformi l'individuo al meccanismo della concorrenza e alla logica dei mercati.

Nel loro ambizioso e brillante saggio "La Nuova Ragione del Mondo", gli studiosi francesi Dardot e Laval interpretano l'ordoliberalismo come una forma di razionalità che afferma l'interdipendenza di tutte le istituzioni e di tutti i livelli della realtà fra di loro. In particolare:

«tra gli obiettivi della politica è prevista una azione sulla società e sul quadro vitale individuale, che dovrebbe avere lo scopo di rendere i due piani conformi alle necessità del funzionamento del mercato. La teoria ordoliberale indica quindi un ridimensionamento della tradizionale separazione tra Stato, economia e società concepita dal liberalismo classico. Esso abbatte le barriere fra i vari piani, considerando tutte le dimensioni dell'uomo come elementi indispensabili al funzionamento della macchina economica» (P. Dardot & C. Laval, La Nuova Ragione del Mondo, DeriveApprodi 2013, p. 221).

La parola chiave per molti economisti ordoliberali è quella di adattamento. Se il capitalismo, come sosteneva anche Marx, ha la capacità di rivoluzionare continuamente i modi e le strutture di produzione, dall'altro gli individui non si adattano spontaneamente a quest'ordine mutevole, perché le credenze culturali e le pratiche sociali tendono a cambiare molto meno rapidamente del mercato. Su questa base si giustifica una politica focalizzata sulla vita individuale e sociale complessiva: affinché la concorrenza funzioni, occorre trovare un nuovo sistema di vita per tutta l'umanità. L'adattamento va allora inteso come adeguamento dei modi di vita e delle mentalità alle condizioni di funzionamento di un sistema intrinsecamente variabile e fondato su un regime di concorrenza spietata e generalizzata, adattamento che concepito in questi termini necessita appunto di un intervento statale e giuridico capillare.

Ma quale sistema di vita si ipotizza? Che tipo di società auspicano gli ordoliberali? Non certo quella fondata sulle merci e sul consumo, già criticata da Sombart all'inizio del Novecento (vedi la I parte dell'articolo), che rischierebbe di riproporre quella società di massa, dello spettacolo e consumistica che per gli ordoliberali era un'aberrazione da attribuire all'interventismo statale che a sua volta era l'anticamera della degenerazione nazista. Al contrario, con le parole di Foucault:

«[l]a società regolata in base al mercato, a cui pensano i neoliberali, è una società in cui a dover costituire il principio regolatore non è lo scambio delle merci ma sono i meccanismi della concorrenza. Sono questi meccanismi che devono avere la superficie più estesa e il maggiore spessore possibile, che devono occupare inoltre il maggiore volume possibile nella società. Ciò significa che non si cerca di ottenere una società sottomessa all'effetto merce, bensì una società sottomessa alla dinamica della concorrenza. Non una società di supermercato ma una società d'impresa. L'homo oeconomicus che si vuole ricostruire non è l'uomo dello scambio, l'uomo consumatore, ma l'uomo dell'impresa e della produzione» (M. Foucault, La Nascita della Biopolitica, 3a ed. Feltrinelli 2017, pp. 129-130).

Non l'uniformità della merce dunque, ma la molteplicità e la differenziazione delle imprese. Fra gli esponenti della corrente "sociologica" della Scuola di Friburgo, Röpke è sicuramente colui che ha dato il maggior impulso nel teorizzare la perfetta società di mercato. I suoi vagheggiamenti di una "economia umana" in cui il tessuto sociale sarebbe composto da piccole e medie imprese agricole e artigianali secondo il modello dei villaggi della campagna di Berna, riflettono l'utopia di una società di liberi cittadini imprenditori che potendo scegliere in piena autonomia su come gestire la loro attività economica e le proprie strategie di consumo si emanciperebbero dall'omologazione che caratterizza le masse urbane proletarie. Se si vuole scongiurare una "società delle formiche" tipiche del collettivismo socialista ma anche del capitalismo fordista, occorre, a detta di Röpke, generare quella libertà che solo un sistema di imprese in competizione può garantire. Per gli ordoliberali infatti la libertà va di pari passo con la concorrenza, vista, quest'ultima, non solo come il legame interindividuale più efficiente economicamente, ma anche come ciò che permette all'individuo di affermarsi come essere libero, autonomo e responsabile. C'è dunque un progetto umanista di fondo, un tentativo di tratteggiare i contorni di un capitalismo in cui l'uomo, in quanto imprenditore di se stesso e della propria vita, si riapproprierebbe così delle sue facoltà soggettive autentiche. Gli individui che pensano come pensa un impresa, cioè in termini di profitti, entrate/uscite, investimenti e quant'altro, non solo sono più produttivi ed efficienti ma sono anche più liberi e più propriamente umani. Siamo in presenza di una sorta di metafisica della concorrenza e del mito dell'impresa come fondamento di una società di individui liberi economicamente e politicamente.

Non è difficile notare da questo punto di vista delle ambiguità nel sistema teorico ordoliberale. Gli intellettuali di Friburgo, come abbiamo visto, si pongono il problema di una società che da una parte si uniformi alle regole del mercato e che dall'altra eviti le nefaste conseguenze in termini di massificazione, consumismo, urbanizzazione selvaggia, omologazione tipiche dei regimi capitalisti e socialisti a loro contemporanei. Una società in cui lo Stato interviene non per ridistribuire ma solo per garantire alla macchina economica di funzionare correttamente, una società in cui il legame sociale è mantenuto grazie alle logiche concorrenziali, una società in cui ogni individuo è libero in quanto proprietario e imprenditore, una società in cui l'autenticità si può ricostruire ridando dignità a un lavoro sottratto alla schiavitù della spersonalizzazione fordista, una società deurbanizzata e a misura d'uomo, è una società vista dagli ordoliberali come l'unico antidoto possibile alla decadenza spirituale. Ma il paradosso è che nel tentativo di sottrarre la società agli effetti negativi delle logiche di mercato, gli ordoliberali in realtà non fanno altro che proporre una società ancora più sotto l'effetto delle strutture economiche, poiché l'individuo viene ritagliato proprio sul modello del mercato, come un imprenditore della propria vita che deve ragionare in termini economicisti in ogni aspetto della sua esistenza. Si è tentato di immaginare una società libera dalle degenerazioni del capitalismo ottocentesco e fordista, proponendo un modello in cui però ogni aspetto dell'esistenza si misura secondo criteri economici e che assomiglia molto più a un insieme atomistico composto da una molteplicità di individui in lotta fra di loro che al regno della libertà. Ciò che dovrebbe essere esterno al mercato, è in realtà proprio fatto su misura delle sue logiche. È ora più chiaro quello che vuole intendere Foucault: per cercare di sottrarre l'individuo alla mercificazione e alienazione, lo si è rinchiuso nella gabbia della logica concorrenziale e imprenditoriale.

Si forma così un nodo inestricabile laddove si vorrebbero mettere insieme due elementi inconciliabili, da una parte una società uniformata sul modello del mercato, dall'altra libera dai suoi effetti più negativi. Alla fine anche la variante sociologica di Röpke conduce verso una proposta in cui la società è del tutto in balia dei meccanismi economici. Non si sta parlando semplicemente di quella che Habermas denunciava come la colonizzazione dei mondi della vita da parte della razionalità strumentale e neppure tanto dei meccanismi che strutturano l'uomo a una dimensione di Marcuse: qua siamo in presenza di un progetto di trasformazione antropologica attivamente messo in pratica dalla fine degli anni settanta volto a realizzare un tutto concorrenziale in cui il criterio della competizione sia la logica di fondo non solo dell'economia ma anche della politica, della società, dell'esistenza dell'individuo a ogni livello e grado. L'obiettivo diventa il governo delle condotte individuali a partire dall'universalizzazione del modello dell'impresa. Non si tratta di un complotto, né di un piano pensato a tavolino e messo in atto da un gruppo di studiosi e politici. Si tratta di alcune concezioni che sono diventate dominanti e che hanno prodotto specifiche pratiche e atteggiamenti, che peraltro non hanno un carattere di sistematicità ma che a seconda del contesto possono subire rallentamenti, deviazioni, interruzioni. Ne è prova il fatto che non tutte le ricette ordoliberali siano state realizzate e non tutte abbiano funzionato. Non c'è un soggetto onnisciente che pianifica ogni politica neoliberista e che ha sotto controllo tutti i suoi effetti, ma c'è una classe dirigente globale coadiuvata da specifiche istituzioni e da specifici think tank, che muove una lotta di classe dall'alto avvalendosi di una serie di strategie e di tecniche di varia natura per mantenere la sua egemonia.

Sicuramente molti esponenti della Scuola di Friburgo non sarebbero contenti di vedere il tipo di realtà sociale che si è venuta formando a partire dagli anni ottanta. Non solo il sogno di una società come se la immaginava Röpke non si è mai potuto realizzare ma la governamentalità liberista non ha neppure messo un freno a quella mercificazione e omologazione consumistica che era il bersaglio della critica ordoliberale. Così, il mito della concorrenza generalizzata e totalizzante ha prodotto effetti ancora più profondi e radicali sull'essere umano di quanto gli stessi ordoliberali probabilmente si aspettassero. È sotto l'occhio di tutti come lo smantellamento del sistema previdenziale e la messa al bando delle politiche redistributive abbia creato un sistema in cui l'individuo è chiamato a un continuo calcolo individuale su tutto perché deve assumersi quei rischi che prima era lo Stato a prendersene carico. La privatizzazione del servizi e la commercializzazione virtualmente di ogni aspetto della realtà significa vedere la sanità e l'istruzione come un investimento che il singolo è chiamato a fare oppure no a seconda di un calcolo costi/benefici; allo stesso modo il nostro corpo, il nostro tempo, le nostre relazioni sociali e affettive devono essere massimizzate e ottimizzate secondo i medesimi criteri. Quella che apparentemente è una libera scelta è il frutto di un sistema concorrenziale generalizzato al quale non ci si può sottrarre se si vuole vincere la "partita" nella giunga neoliberista. Un mondo in cui se non sei continuamente attivo e intraprendente vieni declassato e sorpassato, obbliga a dover scegliere, a dover continuamente ricorrere a calcoli utilitaristici in ogni ambito. Un soggetto che non sia continuamente attivo e pronto a cogliere le migliori opportunità sembra inconcepibile. È la logica della micro-impresa individuale in un ordine di concorrenza perfetta che arriva a interessare finanche gli aspetti psicologici più profondi. L'interiorizzazione di questi meccanismi concorrenziali e imprenditoriali che vengono continuamente riattivati dalle narrazioni del Nuovo Management o dai guru della Silicon Valley, producono nuove forme di soggettività docili e disciplinate sia nel tempo libero, dove le energie sono rivolte alla scelta dei prodotti commerciali o affettivi migliori, che nel lavoro dove per il singolo lavoratore l'obiettivo è quello di raggiungere standard qualitativi sempre più alti, migliorare la propria "impiegabilità", essere più produttivi degli altri in un sistema in cui i nuovi strumenti di valutazione sono sempre più capillari, specifici e individualizzati. Sotto il paraocchi ideologico della responsabilizzazione, dell'autonomia e della realizzazione di sé, si crea un meccanismo competitivo che comporta una corsa affannosa a raggiungere il massimo dell'efficienza produttiva infliggendo dei costi psicologici enormi in termini di ansia, stress e autostima, che vengono poi arginati il più possibile dai nuovi prodotti del benessere (palestra e attività fisica, corsi di meditazione, regimi dietetici, tecnologie di "quantified self") che quella che il sociologo ed economista William Davies chiama molto puntualmente "l'industria delle felicità" è ben lieta di venderci.

Come affermano brillantemente Dardot e Laval, il neoliberismo non è un ritorno a un capitalismo senza regole, non è semplicemente distruzione regolativa, istituzionale e giuridica, è almeno altrettanto produzione di relazioni sociali, di forme di vita e di soggettività. Il neoliberismo punta a totalizzare, a fare mondo, tutte le dimensioni dell'esistenza umana. Non è semplicemente una modalità di organizzazione economica ma anche una forma di governo dello stato, della società, delle condotte individuali. Per questo l'obiettivo finale del neoliberismo, così come concepito dagli ordoliberali ma anche dai teorici della scuola austriaca, è quello di configurarsi come unica razionalità governamentale possibile, negando ogni possibile esternalità critica, ritenuta inammissibile. Il disegno egemonico avrà trionfato quando il neoliberismo si sarà imposto come una seconda natura, una normalità interiorizzata che impedisce anche solo di ipotizzare un'alternativa.

Genealogia dell'ordoliberalismo - II parte: Il Governo della Società

Qui la parte I, qui la parte III

Se l'ordoliberalismo, da fenomeno accademico di nicchia, può imporsi già nell'immediato dopoguerra come la scuola di riferimento per la programmazione economica tedesca, serviranno molti anni prima che questa nuova dottrina possa imporsi anche a livello simbolico, che possa essere accettata in maniera diffusa dalla società tedesca. Il sessantotto rappresenterà, da questo punto di vista, un momento di svolta. Il fallimento delle agitazioni in Germania, che culmina con il tragico episodio dell'attentato al leader del movimento studentesco Rudi Dutschke, significherà la fine delle speranze di generare un movimento rivoluzionario di massa. Qualche irriducibile passerà così a una temeraria lotta armata il cui destino sembrava già scritto (come nel caso della RAF), mentre la maggior parte si riallineerà con l'SPD che, già da qualche anno, col congresso di Bad Godesberg (1959), aveva accettato l'economia di mercato e ripudiato il marxismo.

Genealogia dell'ordoliberalismo - I parte: le origini del pensiero ordoliberale

Qui la parte II, qui la parte III.

Cosa è l'ordoliberalismo? Quale è la sua genesi? Quale funzione svolge nell'ambito più ampio del neoliberismo attuale? Porsi queste domande significa riflettere sulle più vaste trasformazioni nella logica del capitalismo contemporaneo, implica andare a scovare quella frattura epistemologica nell'arte liberale di governare che ha sancito l'emergere di nuove modalità di intendere il rapporto fra stato ed economia. Questa analisi in tre parti prenderà le mosse dalla ricostruzione genealogica della governamentalità ordoliberale proposta da Foucault in Nascita della Biopolitica, per poi provare a trarne tutte quelle implicazioni sociali e politiche che possano aiutare a comprendere meglio certi meccanismi insiti nella dominazione capitalistica attuale, in questa "nuova ragione del mondo", per usare un'espressione cara a Dardot e Laval, che definisce i contorni dell'ontologia socio-economica nella quale viviamo.

Lunedì, 03 Luglio 2017 00:00

La Gabbia dei Trattati

La Gabbia dei Trattati
Il saggio di Matteo Bortolon sui trattati di libero scambio

«Uccidere o fare del male in modo aperto è potenzialmente inefficace, suscita ripulsa e senso di ingiustizia, ed è dispendioso; opprimere attraverso meccanismi più anonimi (come l'innalzamento dei prezzi dei generi alimentari o il taglio ai redditi medio-bassi) suscita meno opposizione e rende difficile individuare l'avversario. Un tratto di penna, sprofondando milioni di persone nella miseria, può fare più morti di una colonna armata».

Venerdì, 27 Gennaio 2017 00:00

The xx: verso un nuovo equilibrio

The xx: verso un nuovo equilibrio
Recensione del nuovo album I See You della band londinese

Fra le punte di diamante della scena musicale britannica, i londinesi The xx si erano imposti come una delle band più interessanti dell'alternative già col folgorante omonimo album d'esordio del 2009, una eccitante fusione di cadenze new wave sincopate e scure, di linee melodiche dream pop ovattate e introverse e di ritmiche r'n'b pulsanti e avvolgenti per uno dei dischi indie più giustamente celebrati dello scorso decennio. Il meritato successo di quel disco che, a modo suo, ha fatto scuola, è però storia passata. Già l'insipido e piuttosto deludente Coexist (2012) riporta la band sulla terra, nonostante i successi di vendita, e rende palese la necessità di un cambio di rotta: appare insomma evidente che la mera e stanca riproposizione di quel sound non avrebbe più pagato, almeno dal punto di vista artistico. Non devono allora stupire i cinque anni che separano questo nuovo I See You (2017) dal suo predecessore. Una lenta gestazione che testimonia la difficoltà e l'incertezza sulla strada da percorrere.

Per alcuni, ancor prima che per la scomparsa di illustri artisti come David Bowie e Leonard Cohen, che ci hanno salutati regalandoci il loro ultimo testamento musicale, il 2016 in musica sarà ricordato per il trionfo dell'atteggiamento poptimista.

Mai come quest'anno l'egemonia nelle classifiche delle riviste musicali più rinomate (NME, Pitchfork, Paste, Noisy, Rolling Stone, ecc...) è stata conquistata da grandi pop star e in particolare dei grandi divi della scena hip-hop e R&B. Non solo in testa alle classifiche di vendita dunque, ma anche agli apici di quelle stilate dai critici, musicisti come Beyoncé, Rihanna, Solange, Kanye West, Drake monopolizzano la scena ridicolizzando la vecchia dicotomia alternative/commerciale e mettendo d'accordo cerchie sociali molto diverse fra di loro.

Venerdì, 14 Ottobre 2016 00:00

Mitski, la sorpresa dell'anno

Mitski, la sorpresa dell'anno
Recensione del folgorante Puberty 2, solidissimo pasticche di cantautorato indie

Una delle sorprese più piacevoli del 2016 è il sanguigno e febbrile Puberty 2, piccola grande gemma di cantautorato rock alternativo che impone Mitski Miyawaki come la stella in ascesa di un movimento di musiciste indie, prevalentemente americane, che negli ultimi anni ha partorito lavori di ottima qualità, dal gothic rock ruvido di Chelsea Wolfe, al dream folk vittoriano di Marissa Nadler, passando per l'alt-rock muscoloso di Angel Olsen e la wave artistoide di St. Vincent. Ciò che è stupefacente è che rispetto a questo ampio e variegato ventaglio di artiste, Puberty 2 ha la presunzione di porsi proprio alla convergenza stilistica fra queste varie anime del cantautorato contemporaneo, riuscendo di fatto a intercettare sensibilità e approcci variegati per ricollocarli entro una proposta forse non estremamente originale, ma tremendamente stimolante e solida.

Si può allora parlare di un mash up di influenze e di tendenze che trovano il minimo comun denominatore nell'approccio diretto e sofferto di una Mitski espressionista e irrequieta come non mai che si spoglia di ogni patina di mistero per mettere completamente a nudo le sue angosce e paure e i suoi desideri più reconditi che affondano nella disperata ricerca di una felicità che non si riesce mai ad afferrare. Sebbene si tratti già del quarto lavoro dell'artista nippo-statunitense, la freschezza, l'immediatezza, la spontaneità e la densità musicale presente in questo disco farebbero pensare a un esordio tanto ispirato quanto fulmineo.

Puberty 2 rappresenta una seconda adolescenza almeno in due sensi. Innanzitutto, la musicista problematizza in maniera più matura e profonda le trasformazioni che si accompagnano all'età adulta, mettendo in luce contraddizioni, stati d'animo, contrasti fra sogni e responsabilità, momenti di debolezza e coraggiose decisioni di autonomia. D'altro canto, la maturità non è solo personale ma anche e soprattutto artistica laddove si ha una nuova presa di coscienza che influenza profondamente sia i testi, che si elevano decisamente dalla media di quelli delle cantautrici indie contemporanee, sia anche la musica stessa che raggiunge livelli di consapevolezza e rifinitura eccellenti.
Che questo lavoro rappresenti un cambio di ritmo notevole nella produzione artistica della 26enne Mitski è stato messo in luce da più parti e rimarcato dagli elogi della critica specializzata. Così, meritatamente, sembra proprio che la carriera di questa giovane ragazza sia arrivata a un momento di rottura decisivo che dal semi-anonimato dei primi tre lavori, porta dritto al relativo successo che il music business alternativo può offrire a un cantautorato che ha molto più da spartire con i Pixies e Lisa Germano che non con Bob Dylan o Joan Baez.

La propensione di Mitski alla contaminazione emerge lampante fin dai primi ascolti. Il disco si apre con la dichiarazione di intenti di "Happy" che in realtà è un lacerante resoconto di una brutale storia di abbandono, geniale numero di scuola wave e art rock alla St. Vincent, un sofferto mid-tempo dalle splendide linee melodiche intervallate da synth vigorosi e dolenti intermezzi di sax. La tensione nervosa va persino aumentando nella splendida cavalcata adrenalica indie pop di "Dan The Dancer". Gettate la coordinate, non resta che abbandonarsi al resto del disco che si prodiga meravigliosamente tanto nei meandri di un rock raccolto, dimesso e dolente ("Once More to See you": Lisa Germano filtrata attraverso Anna Calvi e Julia Holter), quanto in quelli di un indie rock ruvido e spigoloso (la corrosiva e isterica "My Body is Made of Crushed Little Star", bel numero grunge fra le Hole e Kate Bush e sopratutto "Your Best American Girl" prodigioso momento di sofferta epicità alla Car Seat headrest che è anche un memorabile inno di autoaffermazione).

Passando fra sognanti elegie notturne ("Fireworks", la più vicina all'eleganza folk senza tempo di Marissa Nadler e sopratutto "A Burning Fire", commovente commiato che richiama a gran voce la dolce solennità di Hope Sandoval) e languide giornate spese ad autocompatirsi ("Crack Girl", fra Lana del Rey e i Portishead), si arriva al capolavoro del disco che è l'elegante e straziante ballata "I Bet On Losing Dogs", momento di delicato abbandono e serena rassegnazione che si colloca fra i migliori pezzi del 2016.
Con Puberty 2 Mitski si impone come una delle più rappresentative cantautrici contemporanee. Nella sua ricerca di un equilibrio fra il suo animo folk e la sua vena indie, sta la grandezza di questo disco. Le doti vocali innegabili, i testi irrequieti e la spiccata ricerca melodica fanno il resto, elevando nell'olimpo delle grandi una ragazza di appena ventisei anni che ha ancora margini di miglioramento.

voto: 8,5/10

Sabato, 22 Ottobre 2016 00:00

Il ritorno sperimentale di Bon Iver

Il ritorno sperimentale di Bon Iver
recensione del nuovo disco "22, a million" del grande folksinger

Cosa è rimasto del Justin Vernon che registrava in totale solitudine un album già epocale come For Emma, Forever Ago (2007), nella sua baita nelle montagne del Wisconsin? Dal geniale folksinger che si nasconde dietro il moniker Bon Iver e diventato presto oggetto di culto da parte di un vasto pubblico alternativo, non ci possiamo più aspettare le spettrali, intimistiche e scarne ballate folk autunnali degli esordi, né a dirla tutta, la ricerca della dimensione più corale e aperta del convincente Bon Iver, Bon Iver (2011).

Questo perché Vernon si vuole ormai affrancare del tutto dagli stilemi del folk (persino dall'indie-folk) che aveva fin qui esplorato e rivisitato con estrema lucidità. L'esigenza è quella di spingere la sua formula folk straniante e destrutturata alle estreme conseguenze. La rottura del canone implica abbracciare pienamente l'incompiutezza e l'indeterminatezza, come del resto sembra aver fatto anche il suo amico e collega James Blake il cui spettro aleggia fra le note di questo misterioso nuovo lavoro intitolato 22, A Million. Ma non si tratta solo di incorporare nel suo stile le suggestioni che vengono dall'elettronica underground (sopratutto quella britannica: nu soul e dubstep) e dall'r'n'b contemporaneo (Kanye West, Kandrick Lamar). Qua siamo in presenza di un lavoro di amalgamazione che definisce le coordinate di un folk sperimentale senza confini e frutto della torrenziale creatività di Vernon che fonde linguaggi musicali diversi con apparente naturalezza e disarmante semplicità pur - e qua sta la grandezza - rimanendo fedele a se stesso, alla sua musica tormentata e profonda che ricerca una resurrezione esistenziale nelle note senza tempo della sua stessa musica.

I primi ascolti possono risultare alquanto stranianti. Bon Iver si avvale di arrangiamenti elettronici complessi e stratificati, fonde melodia cristallina con cacofonie "glitch" (si ascolti la pietra grezza "715 - CRΣΣKS" e i beat obliqui e disagiati con accompagnamento di sassofono di "10 d E A T h b R E a s T " ), mentre gli effetti e i filtri vocali, a tratti vistosi, infondono un generale senso di inquietudine e di radicale astrattezza. Ma Vernon non si è affatto estraniato dietro una supposta plastificazione musicale, bensì ricostruisce una dimensione intimistica facendo emergere dal profondo la sua anima folk, dando priorità assoluta al coinvolgimento emotivo (l'incanto senza tempo di "29 #Strafford APTS" o del lacerante congedo di "00000 Million").

Il disco, pieno di canzoni tanti preziose quanto impronunciabili, vede l'uso del simbolo del tao, ovvero l'unione di ying e yang: il movimento che unisce gli opposti creando armonia, secondo la filosofia cinese. Ma nel disco il processo di ricerca di un ordine (esistenziale e di senso) sembra in pieno divenire, lontano da qualsiasi soluzione. Siamo un presenza di una opera di musica pienamente postmoderna, liquida e sfuggente ma non di un manifesto del postmodernismo. L'ansia per l'indeterminatezza, i continui riferimenti ai luoghi della prossimità, gli ossessionati e frequenti riferimenti alla simbologia cristiana, il bisogno di redenzione che emerge candido ed esplicito dalle sue liriche, ripropongono quella sofferenza intimistica che tanto aveva toccato il cuore dei tanti ascoltatori che si erano avvinati a Bon Iver con "For Emma". Emotivamente, Vernon è sempre nello stesso posto di dieci anni fa, in quella baita di montagna nel Wisconsin, intento a mettere in musica le sue angosce più profonde e forse quelle di un'intera generazione.

voto: 8/10

Scintille di vita: 4 significativi album italiani degli ultimi mesi

Il periodo di relativa stagnazione estiva, con la quasi totale assenza di produzioni musicali di rilievo sia nell'ambito italiano che internazionale, permette di concedersi il tempo necessario per guardarsi indietro e andare a ripescare alcuni album che nei mesi precedenti sono passati un po' inosservati ma che sono meritevoli almeno di una citazione.
Fra nuovi virgulti dell'indie rock italiano (Mary in June), ricerche elettroniche (Cosmo, L I M) e rigurgiti progressive (Winstons), diamo uno sguardo a quattro progetti musicali di questo 2016 che vale la pena ascoltare con attenzione.

 

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