Nell’Antico Testamento, a differenza di come forse può pensare la vulgata comune, non si parla mai di immortalità dell’anima, bensì di resurrezione dei corpi. Ad esempio né nel Libro della Sapienza né nel Libro dei Maccabei si parla di immortalità dell’anima, la vita finisce con la morte e al massimo, nell’al di là, negli inferi vi sono solo ombre. Quello dell’immortalità è un concetto che si è sviluppato tendenzialmente nelle civiltà più ricche e potenti (come l’Egitto o la Mesopotamia), mentre la cultura e la civiltà ebraica è sempre rimasta quella di un piccolo popolo, non è mai diventata tanto ricca né potente e in essa la vita si conclude con la morte. Inoltre non esistono neanche parole per designare anima e corpo: nell’Antico Testamento per esempio si parla di carne non di corpo, indicando con essa, l’aspetto più fragile, debole della persona, questo lo si può vedere anche nel Nuovo Testamento – si pensi anche solo all’incipit di Giovanni: “Il verbo si è fatto carne.” Per quanto riguarda l’anima, essa è la traduzione di qualcosa di un po’diverso da ciò che comunemente intendiamo noi con quella parola: essa designava il soffio, il respiro, la respirazione o in alcuni casi persino la gola, lasciando in questo caso cadere l’accento sull’aspetto materiale d tale concetto – ribadendo perciò la concretezza del pensiero biblico. È insomma il fatto che io posso respirare che mi permette di rimanere in vita, quando il mio soffio, il mio alito, il mio respiro si spengono ecco che “spira” anche la mia vita.
Passando al versante corporeo, Ska afferma che nell’Antico Testamento non c’è un pensiero sistematico sulla biologia o la fisiologia del corpo umano. Ci possono essere delle allusioni: si sapeva che la vita era nel sangue, ma l’idea che sia il cuore a far circolare quest’ultimo è un’idea che proviene dagli studi della medicina greca; oppure, si credeva che il cuore fosse la sede del pensiero e della decisione, anziché il cervello; i reni invece venivano considerati sede delle emozioni, dei movimenti passionali..insomma, non esisteva una corrispondenza con le reali funzioni biologiche. Sempre mostrando come il pensiero ebraico sia alquanto pragmatico e concreto piuttosto che riflessivo, il professore, prosegue dicendo come ad esempio esista sì una poesia ma non una poetica, uno studio su cosa sia la poesia e le sue differenza con la prosa o la retorica – per questo bisognerà aspettare Aristotele coi suo sistematici trattati sulla poetica e la retorica appunto. Stessa cosa dicasi per la grammatica, non ne esiste una scritta in tempo biblico, ma si svilupperà solo a partire dalle grammatiche greche o dei grammatisti arabi. Il pensiero ebraico dunque è più analitico, sintetico, poco sistematico. Sempre tornando sulla questione de corpo: non si riflette su di esso, per sapere come si organizzi, su come possano funzionare le sue parti, membra, arti, organi ecc…e soprattutto, non se ne parla come di una totalità unificata, un tutt’uno, un unico insieme. Il concetto stesso di persona non affiora nell’Antico Testamento, bensì per identificarla se ne prende in considerazione soltanto una parte, così che ad esempio dire “vedo il viso del re”, equivaleva a dire di aver visto il re in persona. Si tratta cioè di un uso metonimico – la parte sta per il tutto – un uso che diventa così concreto/realistico e metaforico allo stesso tempo, tanto che risulta difficile tracciare tra questi due aspetti una frontiera netta, i due finiscono per compenetrarsi e confondersi indissolubilmente. Ad esempio la mano di una persona indicava molto spesso anche la capacità o il potere di quella persona. Esistevano circa 200 parole per designare le diverse parti del corpo, 100 delle quali venivano usate più abitualmente. Qualche esempio: Isaia, capitolo 52, v. 7: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la Salvezza, che dice a Sion: ˂Regna il tuo Dio˃”. In questo caso ciò che è bello non sono i piedi quanto il messaggio, ma per uso traslato diventano belli i piedi del messaggero che corre sui monti per portare la buona notizia; Salmo 110, 1: “Il signore (Dio) disse al mio signore (re): ˂Siedi alla mia mano destra, affinché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi˃”. Sedere alla destra del Signore significa occupare evidentemente un posto privilegiato, degno; Samuele cap.14, vv. 23-24: “Loab dunque si alzò, andò a Ghesur e condusse Assalonne a Gerusalemme. Ma il re disse: ˂Si ritiri in casa e non veda la mia faccia˃. Così Assalonne si ritirò e non vide la faccia del re”: non vedere la faccia del re significava cadere in disgrazia; Genesi, racconto di Abramo e Sara, 12, 13: “quando fu sul punto di entrare in Egitto disse alla moglie Sara: ˂Sei bella, non devi dire agli egiziani che sei mia moglie (…) ma mia sorella, affinché il mio soffio rimanga in vita grazie a te ˃. Qui appunto significa che Abramo potrà continuare a respirare e quindi a vivere grazie al fatto che Sara non confessando si essere sua moglie farà sì che gli egiziani non lo uccidano. Infine, in molti episodi troviamo espressioni de tipo “esamina il mio cuore” che equivale a dire: “conosci, esamina, penetra i miei pensieri, le mie decisioni”, essendo il cuore, come già detto, sede di questi ultimi. Un altro esempio simpatico è il passo del Libro dell’Esodo in cui Dio si rivela a Mosè dentro la fessura di una grotta sul monte Sinai e si legge: “Il Signore, il signore misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazie e fedeltà (…)”. La cosa simpatica è che la traduzione letterale dell’espressione “lento all’ira” sarebbe in realtà “lungo di naso”, questo perché la collera la si identificava con il fumo che esce dalle narici, quindi esser lungo di naso significava esser paziente, metterci più tempo a sprigionare fumo dal naso e infatti in un altro passo in cui Dio, stavolta si infuria con Mose, se si traducesse letteralmente si dovrebbe scrivere: “Allora il naso del Signore cominciò a fumare, a bruciare”(per l’ira appunto).
Nel Nuovo Testamento invece il pensiero cambia un po’, ha un’evoluzione, soprattutto sotto l’influsso della filosofia greca. Nel capitolo 12 della prima lettera di San Paolo ai Corinzi, si legge: “Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” Il corpo diventa un tutt’uno, un’unità organica in cui le parti sono funzionali vicendevolmente e tutte facenti parti, per quanto diverse, di un unico insieme. Sempre in Paolo si legge un passo sull’ufficio dello stomaco, inizialmente considerato pigro dalle altre membra ma infine esaltato perché grazie ad esso il nutrimento viene portato a tutte le altre parti del corpo che risente molto dell’eco dell’ Apologo di Agrippa di Tito Livio, di cui è celebre la nota metafora organicistica per mostrare come la società sia proprio come l’organismo, il cui buon funzionamento complessivo deriva da quello di ciascuna delle sue parti e di queste ultime ne garantisce la sopravvivenza: “Capitò un giorno che le membra umane, indignate e stanche di essere sfruttate dallo stomaco, ordirono un complotto contro di lui, decidendo all’ unanimità di non fornirgli più cibo. Esse lo ritenevano un fannullone che se ne stava in ozio a godersi il frutto del loro lavoro e che, quindi, ben meritava di essere lasciato morire per fame. Rimasto digiuno, lo stomaco cominciò a sentirsi male con somma gioia delle congiurate che assaporavano la desiderata vendetta. Passato qualche giorno, le condizioni dello stomaco si aggravarono ulteriormente fino a non dar più alcun nutrimento al corpo. Le membra si indebolirono e furono colpite da uno strano malessere i cui sintomi più evidenti erano fiacchezza, stanchezza e languore. Il decadimento sembrava irreversibile e se lo stomaco era veramente malandato, gli altri organi non gli erano da meno. Le membra compresero solo troppo tardi che il loro deperimento era in relazione con l’agonia del loro mortale nemico il quale, in effetti, si era rivelato essere meno strozzino del previsto, poiché aveva saputo ben distribuire forza e vigore.” Il corpo torna sicuramente anche nella celebre frase pronunciata da Gesù durante l’ultima cena: “Questo è il mio corpo dato per voi”. È interessante notare come nel testo originale e in tutte le altre lingue ad eccezione della nostra, l’espressione usata nell’Eucarestia, sia quella del dono e non del sacrifico come diciamo noi italiani. “questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. In ogni caso, per tutto il mondo biblico, mangiare alla stessa tavola, condividere il pane significa entrare in un comune patto, esser parte di una comunità, una famiglia, un gruppo ben assodato e solidale che condivide gli stessi principi legami e gli stessi diritti e doveri, quindi il dono che offre Gesù testimonia la sua fiducia in quella comunità di discepoli, il suo gesto, di spezzare il pane e offrire il suo corpo, è indice del suo esser pronto a salvaguardare l’unità di quel gruppo e la stessa unità si basa proprio su quel dono, che altro non è che la vita offerta, data per loro e per tutti i fedeli in futuro. È più un dono che un sacrificio.
Né in Matteo, né in Marco, né in nessun altro evangelista viene descritto il corpo risorto, ma quando si passa al Vangelo di Luca vi è un passo in cui Gesù risorto appare a casa di Emmaus, spezza il pane per condividerlo con i discepoli e poi sparisce. In un altro appare a Gerusalemme mostrando le ferite della sua carne subite durante la crocifissione e i buchi lasciati dai chiodi. Infine è celeberrimo il passo di Tommaso l’incredulo presente in Giovanni e così mirabilmente e suggestivamente rappresentato da molti pittori, a cominciare dal meraviglioso quadro del Caravaggio: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»”. Secondo Ska, tutti questi passi stanno ad indicare la materialità, la concretezza del corpo risorto di Gesù, che addirittura è ancora lacerato e sanguinolente, porta ancora su di sé le tracce evidenti della sua passione, della straziante sofferenza subita. Ma sia a mio avviso che da alcuni interventi da parte del pubblico in sala, rimangono troppe contraddizioni. Innanzitutto come fa Gesù a passare attraverso le porte se il suo corpo è materiale? Sembrerebbe piuttosto etereo, simile a quello di uno spirito o di un fantasma, un corpo evanescente e immateriale capace di attraversare le porte chiuse; e ancora: nell’espisodio di Tommaso, Gesù invita semplicemente l’apostolo a mettere le sue mani nel suo costato e nelle sue ferite ma nulla ci dice che egli l’abbia fatto davvero, anzi l’esclamazione enfatica di Tommaso – mio Dio, mio Signore – lascerebbe piuttosto pensare a un suo ritrarsi pieno di vergogna e senso di colpa di fronte all’invito del suo maestro a toccarlo, sentendosi indegno di metter effettivamente le proprie mani dentro la carne di Gesù e quasi scusandosi per aver dubitato – non questa l’interpretazione di Caravaggio che invece mostra in maniera quasi disturbante la vera e propria penetrazione abissale e quasi erotica, delle dita sporche di Tommaso che vanno a scavare quasi, nella ferita di Gesù la quale ricorda persino la forma di una vulva. Ma resta il fatto, checché ne direbbe Michelangelo Merisi che Gesù, dopo le parole del discepolo dice: “ poiché hai veduto hai creduto”, non “poiché hai toccato, hai creduto”. Infine, sempre in Giovanni andrebbe ricordato l’episodio, altrettanto noto del Noli me tangere, in cui Maria Maddalena dopo che all’appello personale rivoltole da Gesù, “Maria”, che permette alla donna di riconoscerlo dopo averlo inizialmente scambiato per il giardiniere (e anche qui sorge il dubbio: se il corpo di Gesù era tale e quale a quello che aveva in vita e in punto di morte, come mai né lei, né in altri passi i discepoli, lo riconoscono?) gli si “avventa” probabilmente per abbracciarlo, in un moto di affetto, commozione, di amore – bisogna rammentare come tra lei e Gesù ci sia sempre stato un rapporto anche molto fisico, a cominciare dall’episodio che vede la donna lavare i piedi del suo Signore con un prezioso unguento, tanto da prendersi il rimprovero di Giuda, o mettersi a sedere a suo fianco, benché donna e quindi meno autorevole rispetto ai discepoli uomini, nella concezione del tempo –ma Cristo la blocca dicendole: “Non mi toccare, sto andando al Padre”.
Cosa significa questo divieto? Forse che il suo corpo non è più toccabile, o perché materiale o no che sia ormai fa parte di un’altra dimensione, che non è più quella contingentemente umana ma divina, sta dileguando verso il mondo di Dio. Quest’ultima è la spiegazione che fornisce anche Padre Ska, secondo il quale, Gesù risorto indipendentemente dalla tangibilità o meno del proprio corpo non farebbe più parte – concretamente – di questo mondo. Inoltre secondo lui la resurrezione del corpo di Gesù e la resurrezione del suo spirito vanno di pari passo e significano la stessa cosa. Per resurrezione andrebbe intesa non solo e non tanto l’effettiva resurrezione del corpo del Cristo, quanto la possibilità che il suo messaggio, il suo Vangelo possa continuare a vivere nella comunità de discepoli e, tramite loro, in quella dei fedeli. A risorgere è il vangelo di Gesù, la sua parola, ancor più pregnante e significativa laddove la sua presenza tangibile e concreta è dileguata per lasciare il posto allo spirito, e dunque alla fede, tanto più forte laddove non può essere credenza perché non può basarsi su una prova fisica della sua esistenza materiale. “beati coloro che pur non avendo visto crederanno”, si legge sempre in Giovanni: questa è la cosa fondamentale della resurrezione, la vita del messaggio di Gesù oltre la sua morte e la sua presenza fisica, anzi possibile forse soltanto dopo il dono del suo corpo, della sua stessa vita. L’altra questione importante sono le ferite. Nel senso che Gesù è la sua ferita, è o per lo meno è anche la sua sofferenza, la sua passione, il suo senso di abbandono che ha provato sulla croce: Mio Dio, perché mi hai abbandonato?” e a cui non riceve risposta. Dio tace, non si pronunci. Secondo Sca quelle parole, come il pianto di Gesù quando apprende della morte di Lazzaro nonostante poi lo resusciti, più che a indicare una feroce insensibilità di Dio nel primo caso, o un’ignoranza del Cristo della propria capacità di far miracoli, indicano piuttosto la sua umanità, piange come un normale essere umano che ha perso una persona cara. Umanità che si evidenzia anche nel fatto che quando risorge, non vuol dar prova della propria resurrezione tramite eventi straordinari, facendo miracoli ad esempio – benché potesse benissimo farli – bensì, attraverso semplici gesti quotidiani, come quello di spezzare il pane o mangiare pesce insieme ai suoi discepoli come mille altre volte aveva fatto con loro in vita. Questo è il messaggio per il professore: Cristo, la sua presenza, va ricercata nella bellezza della semplicità e del quotidiano, nella liricità di gesti comuni e abituali, che troppo spesso si danno per scontati. Anche in questo caso si può trovare un parallelismo con l’epica greca: nell’Odissea, Ulisse viene riconosciuto dalla serva che gli sta lavando i piedi solo grazie alla cicatrice su un piede che ella vede e che solo lei conosce. Ulisse è la sua cicatrice, segno che lo distingue da tutti gli altri, è quella ferita, così come Gesù è anche la fessura sulle mani lasciate dai chiodi. Sempre nell’Odissea Ulisse può farsi riconoscere dall’amata Penelope non compiendo gesti eroici o eclatanti ma semplicemente rivelandole il segreto del letto matrimoniale che ha costruito col ceppo di un ulivo; o al padre raccontandogli un ricordo di infanzia che solo loro due potevano sapere. È questa semplice realtà quotidiana che ha valore e in essa si possono riconoscere le tracce di colui che è venuto a mancare, ma che rivive, almeno spiritualmente, per chi ha fede, nei piccoli e reiterati gesti o ricordi della nostra vita. Ciò che dunque conta, non è la presenza materiale del corpo di Cristo, perché è solo quando questa non ci sarà più che i discepoli possono diventare veramente “adulti”, crescere nella forza di una presenza che non è più corporea ma è diventata spirito e parola, messaggio da ripetere, da fecondare, fino a farla arrivare alle generazioni future, che solo in base a questo Vangelo possono credere.
Un altro aspetto interessante dell’affascinante relazione di Ska è che in nessun passo del Vangelo si parla di colpa o peccato originale, attribuibile a un unico individuo, Adamo, e piombata su tutta l’umanità rendendola – quasi a priori e per una logica di contagio che si trasmette di generazione in generazione – intrinsecamente e irrimediabilmente peccatrice. Non si parla neanche di redenzione, non viene mai detto che Gesù è venuto per redimerci da questa atavica colpa adamitica (se non in quell’unica espressione “il sangue versato per voi”), perché secondo il professore, prima di poter parlare di peccato, di colpe, di negatività bisogna aver sperimentato, vissuto la positività, la salvezza. La prima esperienza da fare è quella della positività di Dio, della sua grazia, della sua misericordia e della sua carità, della meraviglia del creato e solo dopo allora se ne può scoprire la negatività. Per poter parlare di peccato universale bisogna prima aver conosciuto l’esperienza della salvezza universale, almeno spiritualmente, intimamente. A mio parere questa risulta un po’una contraddizione, dato che come si può parlare di salvezza laddove non c’è stato un evento negativo da parlare, cosa si salva se ancora non si è fatta l’esperienza del salvabile? Non ci sarebbe bisogno di salvarsi dalla carità, dalla misericordia, dalla bellezza del creato e dalla positività del messaggio divino, ci si deve poter salvare soltanto laddove si è avvertito un male, una colpa, una negatività, che poi questa sia originale o individuale poco importa. Ritengo che però sia proprio questa la forza di discussioni “spirituali”, indipendentemente dal credo personale di ciascuno: che aprano interrogativi cui è difficile e nello stesso tempo vitale per molti, trovare una risposta. Ma le sole domande ci arricchiscono, anche quando non c’è o non può esserci soluzione. La soluzione poi ognuno può darla o meno dentro di sé, con gli strumenti che ritiene più soddisfacenti, che siano quelli della fede o quelli della ragione, ma è il dubbio insondabile e seducentemente insolubile che forse ci rende veramente e meravigliosamente umani.
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