Proprio il sacro è stato il tema della conferenza tenuta lo scorso 8 maggio da Sergio Givone, professore di Estetica all’Università degli Studi di Firenze e assessore alla Cultura del nostro comune, che ha introdotto con la sua relazione dal titolo “Il sacro nell’epoca della desacralizzazione” la mostra dei lavori di Enrico Savelli, scultore pistoiese contemporaneo le quali hanno trovato spazio nel refettorio dei Francescani arricchendo così l’Opera di Santa Croce.
A prendere inizialmente la parola è stata Stefania Fuscagni, la quale, oltre ad essere consigliere comunale di Fiesole e capogruppo del PDL dal 2007 è presidente dell’opera di Santa Croce. Fuscagni ha posto l’accento sull’intento di “demusealizzare” la Basilica nel senso che questa non debba solo prestarsi all’ammirazione di folle di turisti di passaggio ma possa essere fonte di un percorso all’interno dei suoi luoghi e attraverso le opere che questi ospitano che diventi l’analogo di un percorso anche interiore, che possa risvegliare quel soffio di spiritualità assopito o schiacciato, spazzato via dalla frenesia e dalla distratta o superficiale pragmaticità del nostro vivere quotidiano. La presidente dell’Opera ricorda come il 13 maggio sia una data ricorrente nella storia della Basilica: in quel giorno ricorre infatti la fondazione della Grande Basilica e nella stessa data la piccola chiesa ospita il Crocifisso del Cimabue. Secondo la Fruscagni è importante recuperare sia il significato civico della Chiesa ma anche quello artistico e religioso, anche la stessa funzione di messa in sicurezza, protezione e recupero delle opere non può non essere accompagnata da un senso del sacro, il cui emblema è dato dall’affresco che mostra le stigmate di San Francesco. (? Non so se ho capito bene qui). Bisogna cercare di essere contemporanei al nostro tempo, conclude Stefania, andare a scavare a guardare dentro il nostro passato, passato che incombe, pesa ma pare sempre più incapace di suscitarci emozioni potenti, di toccarci, di scuotere le corde più viscerali del nostro essere. Noi vogliamo essere contemporanei a noi stessi, ma come si fa a incarnarci nel nostro tempo, come si fa a leggerlo cercando di ridonargli quel valore sacrale andato perduto?
Sacro dunque. Dove è finito in un mondo che ne ha scardinato l’idea e gli stessi presupposti? In un mondo che sembra sempre più impazzire nella sua sfrenata corsa verso il progresso e la tecnologia e che sembra dimenticare le sue radici più profonde, le sue origini più spirituali, in un mondo che in nome della tecnica, della globalizzazione, del denaro diventato elevato a unica forma divina e dell’economia e della finanza assunte come uniche leggi in grado di controllare e determinare gli eventi, in un mondo in cui l’operari umano ha stravolto e continua a stravolgere quelle che sembravano incontrollabili fenomeni della natura, che ha piegato l’operari di quest’ultima alla sua insaziabile voracità e avidità, come e dove è possibile recuperare un senso del sacro, inteso in “senso” lato, o semplicemente recuperare qualcosa di più profondo, di più pregnante che possa ridare un senso alla nostra vista e al nostro mondo?
Queste le premesse da cui parte il professor Givone il quale esordisce presentando Savelli come un artista del terzo millennio che a differenza di molti altri – la maggior parte degli artisti contemporanei – ha osato portare alla luce, illustrare le grandi figure della tradizione religiosa, in un tempo che sembra pienamente aver fatto sue quelle parole dell’Estetica di Hegel che più o meno recitano così: “L’arte non arreca più quel soddisfacimento dei bisogni spirituali, che in essa hanno cercato e solo in essa trovato epoche e popoli precedenti. (…) L’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato (…) Non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si dà esistenza (…) la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. E per quanto possiamo trovare eccellenti le immagini degli dei greci, e vedere degnamente e perfettamente raffigurati il Padreterno, Cristo, Maria, tuttavia questo non basta più a farci inginocchiare”. Savelli osa invece ridare figura al sacro, spezzando uno dei dogmi della nostra modernità secondo cui non c’è più posto per esso, il sacro è stato liquidato, messo fuori gioco, la nostra contemporaneità fa benissimo a meno del sacro. Quest’ultimo si sarebbe eclissato, non sarebbe più cosa nostra. Ciò che resta sono tracce opache, pallidi segni destinati a scomparire del tutto. Ma, si chiede Givone, è proprio vero che la modernità sia del tutto volta a svuotare sé stessa dal senso del sacro? Se così fosse, come potremmo capire le opere di Savelli, che sono vere e proprie “epifanie di luce”, che sono una radicale contestazione di questo paradigma, di tale schema costruito dalla nostra modernità? E se invece tutto, anche ciò che è più apparentemente mondano, profano e ovunque, anche l’ovunque più secolarizzato, più de-sacralizzato contenesse un’anima religiosa, qualcosa che non potremmo definire se non col nome di sacro, come una perla nascosta dentro il guscio semichiuso di una conchiglia, ma che in qualche modo continua a emanare un po’del suo candido barlume?
I fenomeni intorno a noi, anche quelli più superficiali o addirittura squallidi, i fenomeni più tipicamente moderni ci invitano a mettere in discussione quel caposaldo, quello schema, quell’ “idolo” per cui il sacro non c’è più, se non in tracce sfocate. E se appunto tutto fosse intrinsecamente sacro? Se nel cuore della modernità, si celasse un afflato spirituale (non necessariamente religioso) come qualcosa di prezioso nascosto in uno scrigno? Citando l’Apocalisse, il professore continua: “in quel tempo anche sopra i sonagli dei cavalli sarà scritto < sacro al Signore> e le caldaie del Tempio del Signore saranno sacri come i bacini che sono davanti all’altare. Anzi tutte le caldaie di Gerusalemme e di Giuda saranno sacre al Signore (…) quanti vorranno sacrificare verranno e le adopereranno per cuocere le carni..”. Insomma, alla fine, proprio quando il sacro si sarà consumato, potremmo riscoprirlo e ritrovarlo ovunque se ci guardiamo intorno, anche nei luoghi o negli oggetti più prosaici, o più banalmente quotidiani. Nel 1964, prosegue Givone, Pier Paolo Pasolini aveva già messo in questione l’idea che nella modernità del sacro non ci sia più alcuna orma: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, perfino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.” Qui l’Assessore alla Cultura si ricollega alla cronaca degli ultimi giorni, quando abbiamo assistito ad un’altra delle frequenti violenze che accadono negli stadi, dovute proprio al furore, al fanatismo quasi religioso di molti dei tifosi, per i quali il calcio è paragonabile a una fede, un dogma indiscutibile e intoccabile. Questa violenza, associabile alla violenza dei fondamentalismi religiosi, proviene da profondità più nascoste, da un orizzonte più alto, questo furore che fa dire a molti “nessuno mi tocchi la squadra del cuore”, fa da spia al fatto che il sacro è ovunque e lo possiamo scorgere anche nei fenomeni più secolarizzati o desacralizzati come lo sport appunto. Con questo ovviamente non si vuole certo giustificare una violenza tanto cieca ed esplosiva ma quel fanatismo che è alle sue radici probabilmente richiama a una fede in qualcosa che si considera sacro e inviolabile.
Certi eventi tipicamente moderni non possiamo spiegarli se non ricorrendo a categorie che troppo sbrigativamente ci siamo buttati alle spalle. Tutti quanti abbiamo cominciato a patire (nel senso di pathos) quella spoliazione, quell’impoverimento, quella perdita, quella ferita che l’abuso della tecnica ha inflitto al nostro pianeta, visto non più come terra madre, che ci sostiene e ci dà nutrimento, quel pianeta che è il nostro pianeta, quella terra che era nostra culla, e che ci offriva i suoi doni procurandoci il sostentamento necessario, e che avrebbe continuato a regalarci bellezza e meraviglia persino negli angoli più reconditi, se non ne avessimo fatto una discarica o un basamento su cui cementificare e costruire selvaggiamente, deturpandola e violentandola, convertendo le leggi del suo libero corso, snaturandone il flusso e il clima. Ormai il nostro incessante “operari” non riesce più a considerare la terra come ciò che ha dato vita all’uomo, bensì la vede solo come qualcosa da sfruttare, da manipolare a suo piacimento, da piegare ai suoi più svariati fini e interessi pratici, tecnici, “umani troppo umani”, per dirla con Nietzsche. Queste pratiche, che nessuno di noi può pensare di interrompere e che nessuno mette in discussione – Givone per primo non vuole certo criticare certi progressi tecnici, tecnologici, scientifici del nostro tempo ovviamente, per tornare a un anacronistico recupero di un passato ormai irrecuperabile – dovrebbero però cercare di darsi una sorta di freno consapevole, o piuttosto una coscienza in modo che l’uso (che spesso eccede in abuso) del nostro “habitat” posso diventare più umano (stavolta in senso positivo) e saggio, più rispettoso, accostandoci a ciò che sostiene la nostra stessa esistenza – perché è la sua base, il suo contorno e la sua linfa – con maggior pudore forse, con una certa reverenziale cautela, come se davvero potessimo imparare a considerarla come qualcosa di sacro, di quasi intoccabile, o comunque non sempre toccabile. Eppure, anche se ce ne dimentichiamo, anche se siamo assordati dal rumore e la confusione dei nostri strumenti, del bombardamento mediatico, anche se abbagliati dalla luce dei neon o dei fari di un traffico sempre più intenso, insomma, anche se immersi fino al collo dentro questa corsa impazzita del nostro tempo, probabilmente siamo ancora in ascolto di un monito, una voce che è quella che il sacro da sempre ha rivolto agli uomini. In tempi arcaici l’Arca era intoccabile: “chi tocca l’arca muore”, o nella Grecia antica ad essere intoccabile era il cadavere, il soma, chi lo toccava moriva.
Oggi con il progresso della medicina figuriamoci se questo vale ancora. È come se spostassimo sempre più in là la soglia, il limite di ciò che si può toccare o fare. Ma il sacro appare ancora, come monito che proviene dalle profondità abissali della terra o dalle altezze infinite del cielo. Un monito a non fare questo, una voce che risuona dicendoci: “se fai o tocchi questo…ti perderai, smarrirai la via, imboccherai la strada del non ritorno, morirai”. E pure oggi, che sembra che nessun imperativo kantianamente categorico, che nessun monito possa trattenerci, possa bloccarci, darci un limite, possa solamente esser udibile, dato che abbiamo spinto il nostro uso ed abuso della terra oltre ciò che ci era concesso, ebbene quel monito parla ancora, con una forza e una violenza che in fondo, è impossibile mettere a tacere. Pascal Buckner, ne “Il fanatismo dell’Apocalisse”, continua il professore, ha scritto che sì, si può pure dare per assodato che l’inquinamento, il surriscaldamento ecc.. siano gli effetti degli abusi che gli uomini hanno prodotto, ma non c’è in questo una convinzione superstiziosa? Non dovremmo avere il coraggio di arrivare all’idea che giunti a un certo punto, a una certa soglia il sacro ci parli più di prima? Siamo proprio sicuri di esserci del tutto liberati di esso, piuttosto che paradossalmente esserci esposti ancor più impotenti ed inermi a quel monito, a quella voce del sacro? Siamo davvero sicuri che si tratti di mera superstizione con cui siamo soliti liquidarlo o sminuirlo? Ritornando all’esempio precedente del divieto di toccare il cadavere, questo divieto una volta era sacro e oggi è diventata semplice o addirittura ridicola superstizione. Tuttavia, pur senza deplorare il progresso dobbiamo prendere atto di aver spostato quelle soglie sempre più in là, di aver spostato i confini del legittimo e dell’illegittimo sempre un po’ più avanti, abbiamo allontanato l’orizzonte invalicabile sempre un po’oltre per non scontrarcisi troppo presto, ma quell’orizzonte rimane e resta invalicabile. E alla fine ci si imbatte, lo incontriamo.
Così accade quando pensiamo di poter intervenire sul genoma umano (e i progressi scientifici forse potrebbero permetterci di farlo), pensando di poter creare un uomo a nostra immagine e somiglianza, magari più potente, capace e intelligente di noi. Abbiamo spostato l’orizzonte fino a questo punto ma qui ci fermiamo, perché è come se sentissimo quella voce, quel monito che ci dice “No, tu non lo farai. No, non farlo, altrimenti morirai”; “tocca pure il cadavere ma non toccare l’uomo”. Certo, possiamo liberarci della superstizione, dell’ idea dell’ Apocalisse, della fine del mondo, della catastrofe, ma siamo poi sicuri che così facendo non ci consegniamo ancor di più a quel monito, a quella voce anziché seppellirla, silenziarla radicalmente? Il sacro, proprio nell’epoca del suo dissolvimento, proprio quando siamo convinti di averlo svuotato di senso,di averlo lasciato evaporare (o svaporare) come una bolla di sapone, veniamo a scoprire che solo nella sua voce, è custodito un senso possibile. E questa si fa sentire, quando per esempio, sempre a proposito dell’idea di intervenire sul genoma viene da chiedersi: “ posso davvero farlo? Ne ho il diritto o no? Posso costruire esseri umani a mia immagine e somiglianza? Posso rinunciare all’idea che l’uomo non sia solo un mezzo ma anche un fine?” sono domande che probabilmente provengono o risvegliano l’idea che qualcosa di intoccabile, di sacro esista ancora e che non tutto sia manipolabile, permesso, concesso.
È vero, viviamo in una natura resa sempre più artificiale, una natura ormai di secondo grado, di serie B, dove la vita è diventata più complessa e difficile. Paradossalmente disponendo sempre di più di strumenti per fronteggiare la natura ci troviamo in un mondo dove non è più lei a sfidarci ma la tecnica che noi stessi abbiamo creato. Ne siamo diventati schiavi, siamo al suo bieco servizio e molto spesso non riusciamo più a padroneggiarla a domarla. Vivere in un mondo dove non si hanno certe capacità tecniche divine impossibile oggi. Quindi sì, perché non creare uomini all’altezza del loro tempo, più di noi, uomini dotati di capacità tecniche e funzionali superiori alle nostre, con un’intelligenza più acuta e pratica, più forti e potenti, meno suscettibili alle malattie o all’invecchiamento, meno fragili e deboli di noi? Perché lasciare la creazione dell’uomo al caso (o alla provvidenza a seconda che si sia credenti o meno)? Perché in realtà questa è l’unica garanzia che l’uomo resti uomo, che l’uomo sia libero. Se creassi un essere umano in vista di un fine, uno scopo, una funzione (come appunto quella di vincere o meglio fronteggiare le sfide della modernità), quell’uomo non sarebbe più lui, non sarebbe libero perché vincolato a quello scopo e dunque non sarebbe uomo, la cui essenza è la libertà, non sarebbe più uomo morale né responsabile delle sue azioni (perché io lo avrei programmato, costruito in un certo modo) e quindi nemmeno imputabile per quelle. Avremmo creato qualcosa di più (un uomo più capace di padroneggiare la tecnica, più intelligente, più potente, meno esposto a malattie o fenomeni naturali ecc..) ma nello stesso tempo avremmo qualcosa di meno, perché avrebbe perso il suo essere uomo, la sua libertà, la sua moralità. Qui allora risuona l’eco di quella voce (“tu non lo farai perché altrimenti ti perderai!”), qui ci troviamo esposti vertiginosamente sul ciglio di una trascendenza che in qualche modo ci richiama a sé, di un’alterità che possiamo intendere come appartenente a Dio o alla Natura, ma che in ogni caso è un’alterità, una voce altra, un monito che è sacrale. Solo quella voce del sacro ci impedisce di superare certe soglie, di travalicare quell’orizzonte di cui prima abbiamo parlato. È la sola voce che ci avverte del pericolo, che ci induce a fermarsi, che ci sussurra che rischiamo, facendo certe cose, di imboccare una via senza ritorno. Questa voce che è un monito, e a cui da sempre abbiamo dato il nome di sacro (che ribadisco, non significa religioso), fa esplodere quel dogma, quel moderno schema di desacralizzazione che la modernità, anche inconsciamente ha intessuto nei secoli. Quello schema non tiene più o comunque non del tutto, non pienamente poiché si infrange in quella barriera, ancor più resistente.
La nostra storia, che proviene da quel “tu non toccherai quel cadavere” giunge a un’altra soglia, che ci dice: “tu non toccherai, non manipolerai il vivente”, come se questo fosse l’analogo di quel cadavere o di quell’arca che erano intoccabili. E non è né l’ecologia, o la sociologia, o l’antropologia a dirci questo, a imporci un limite. Nemmeno la filosofia, che anzi, ci ha ripetuto con una certa insistenza quella “canzone d’organetto” (per citare di nuovo Nietzsche) che stiamo vivendo in una completa secolarizzazione, in cui le cose sacre, le cose appartenenti alla tradizione religiosa, quelle che facevano parte di una Bibbia pauperum” e che hegelianamente facevano inginocchiare sono diventate solo museo, si sono musealizzate. Ma per de-musealizzare, per ritrovare il senso, il significato delle cose, dobbiamo ricorrere ad altre antenne, che per l’appunto sono quelle che si mettono in ascolto del (senso del) sacro. Al culmine della desacralizzazione operata dalla nostra contemporaneità ecco che il sacro, il senso del sacro appare di nuovo. Ciò che ci fa monito, ciò che ci avverte è l’arte. Arte che sì, ad eccezione di pochi come Enrico Savelli, sempre meno prende a tema, a proprio contenuto essenziale i racconti, le figure della tradizione religiosa. Ma per quanto poco oggi l’arte abbia come tema centrale quello religioso, tuttavia è lo strumento, per quanto desacralizzato, svuotato, reso povero, che ci fa ritrovare, toccandolo con mano, il sacro. In ogni sua manifestazione, anche in quella più apparentemente lontana dall’arte religiosa. Che sia un taglio di Fontana una struttura rugginosa di Kiefer, che sia una pietra congelata e messa a esposizione... In ogni caso l’arte ci dice che sì, è vero che siamo dentro un processo di impoverimento e svuotamento di senso, a fronte di una materia denudata di simbolicità, di carica significativa, una materia arida e inerte, tuttavia l’artista proprio questa materia la fa sua, la “incanta”, come se le facesse un sortilegio, si china a raccoglierne qualche pezzo, qualche frammento – sasso, tronco,pietra che sia, o addirittura qualche rifiuto – di questa materia secolarizzata, deprivata di ogni sacralità, e facendone un’opera, ci forza a guardarla con altri occhi, quella semplice cosa, quella pietra, non è più la stessa pietra. È come se dall’aldilà di un processo di perdita, di oscuramento ritrovassimo un significato, un senso profondo. Joyce, che aveva spinto questo processo di secolarizzazione fin dentro il cuore stesso del linguaggio, trasformandolo in linguaggio comune, con l’intento di de sublimare le parole per fare l’opposto esatto, portandole anziché all’elevazione, all’apice del sublime, alla bassezza più infima, al Bathos greco, dove suonano insensibilmente insensate, prive di significato e ridicole (come quelle che spesso utilizziamo nella vita di tutti i nostri giorni), ebbene, proprio lui ha scoperto e mostrato che proprio nel fondo di quella catastrofe linguistica baluginano degli sprazzi di luce, delle vere e proprie epifanie, come al di là di quelle parole appiattite sulla più misera banalità si sprigionasse un significato profondi, come se ci aggredisse un’esplosione di senso abbagliante, lancinante.
Avviandosi alla conclusione Givone cita le parole di Rilke, il quale, pur essendo ben consapevole che viviamo in un mondo in cui la bellezza è stata cancellata, o involgarita, degradata a bellezza di plastica, scriveva comunque tali parole: “Nel cuore di questo terribile si manifesta qualcosa come un destino”. Ovvero, un senso che ci appartiene, un mondo, un senso del “dover essere”. Le battute finali, il professore le prende in prestito da Bernanos, che, alla fine del suo celebre Diario di un curato di campagna”(storia di una caduta, una discesa agli inferi, un senso di perdita estrema) fa dire al protagonista, al culmine della perdita, della prostrazione, della bassezza: “ Ma allora tutto è grazia”. Si può dire questo proprio perché si è naufragato negli abissi del male, proprio perché, ancora hegelianamente abbiamo fissato e mantenuto insistentemente lo sguardo nel mortum, proprio perché abbiamo attraversato i labirinti del buio, dell’oscurità più cieca, solo dopo aver attraversato la tenebra più fitta si può ammirare la luce, solo chi ha vissuto il male e ne ha preso coscienza può avvertire il senso di una grazia, può percepire il valore di un senso di bellezza immenso. È in questa dialettica non unilaterale di desacralizzazione e sacro, di ombra e luce, i quali non esistono l’uno senza l’altro, che comprendiamo che nel cuore stesso di quella desacralizzazione il sacro, la luce continuano a vibrare e a farci tremare. Quel sacro, quel bagliore, sono gli stessi che persino la semplice pietra può emanare. E la pietra, la scultura di Savelli, davvero emana una luce che non può che richiamare il senso del sacro. Le sue eteree figure, che derivano da una “traduzione” in scultura del lezionario (antico e nuovo testamento) emergono dolcemente e quasi naturalmente dal biancore del marmo levigato e reso morbido, ondulato, o in alcuni punti lasciato grezzo. Queste forme ci colmano di un senso di grazia, di candore, di malinconica e struggente nostalgia per qualcosa che sentiamo pulsare ancora ma che crediamo perduto, irrimediabilmente. Gli occhi socchiusi della grande testa della Madonna nella scultura “La visione di Maria”, ci fanno intuire la sacra umanità, più che la divinità, di una giovane ragazza che nell’annuncio dell’angelo Gabriele (secondo le scritture) ha forse sentito tutto il carico e il dolore di un peso così grande. O nello sguardo sospeso della scultura di “san Francesco”, che sembra guardare in un tempo e un luogo lontani, irraggiungibili, anche noi possiamo intravedere la pace di una dimensione in cui l’attimo si è fermato, contratto in un’eternità senza tempo lo spazio si è espando ovunque e in tutto. Dinnanzi a queste figure, contraddicendo le pagine dell’ Estetica hegeliana, sembrerebbe di nuovo possibile inchinarsi, non perché si è credenti, ma perché si è di fronte a una bellezza che appare sacra.
Così lasciando scivolare gli occhi in quei volti aerei, in quelle forme partorite dalle onde del marmo e con esso confuse che sembrano quasi impalpabile, ma che verrebbe voglia di accarezzare, il sacro si fa ascoltare, quella sensazione che qualcosa di altro, di oltre, di inspiegabile ci sia. Un qualcosa che almeno per un momento, interrompa questa frenetica corsa che ci risucchia senza darci tregua, ci faccia tendere l’orecchio a “..quelle voci che scendono / sfuggendo a misteriose porte e balzano / sopra di noi come uccelli folli di tornare / sopra le isole originali cantando: / qui si prepara un giaciglio di porpora e un canto che culla / per chi non ha potuto dormire / sì dura era la pietra, / sì acuminato l’amore.” (Mario Luzi). Viene da chiedersi dove sia questo amore.. “e si guarda in alto” (M. Luzi); un alto che non per forza deve essere identificato con Dio, ma è quel senso più grande, più profondo che abbraccia, forse, tutti noi.