Lunedì, 07 Aprile 2014 00:00

Attraverso la storia del buddismo

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Colui che non si può esprimere con la parola, ma grazie al quale la parola è espressa ecco: è il Brahman; e non ciò che qui si venera come tale.
Colui che non si pensa col pensiero, ma grazie al quale il pensiero è stato pensato, ecco: è il Brahman; e non ciò che si venera come tale.
Colui che non si vede con lo sguardo, ma grazie al quale gli sguardi vedono, ecco: è il Brahman; non ciò che si venera come tale.
Kena Upanisad

Tra gli interessanti incontri che si sono susseguiti all’Auditorium Stensen, che fanno parte del percorso “Soma-Psiche-Pneuma – corpo, anima, spirito”, sabato 29 marzo è toccato a Francesco Sferra accompagnarci nelle regioni dell’intraumano, affascinanti ma complesse, nella concezione buddista.
Sferra, professore di sanscrito all’Università Oriente di Napoli, curatore de “La rivelazione del Buddha” e direttore della raccolta “Manoscripta buddica” (lavoro di filologia e recupero di manoscritti antichi), introdotto dal professor Federico Squarcini ha scandagliato appunto il mondo “intra menia”, dentro di noi, in quella (o meglio quelle) che sono le tradizioni buddiste, di cui molto spesso, abbiamo un’idea un po’troppo semplificata.

La tripartizione corpo-anima-spirito è rintracciabile in India senza troppe differenze e la si ritrova anche nel Buddismo, ma il loro rapporto può variare molto sia da tradizione a tradizione o tra le diverse scuole di pensiero, ma anche da maestro a maestro all’interno della stessa tradizione. Al momento della nascita del buddismo (V-IV sec. a.C), grazie anche alle “testimonianze” presenti nella letteratura epica del II, III sec. d.C, sembra molto plausibile è quello Upanishadico (da Upaninişad, la cui radice, sad significa vedere e Upa e ni vicino: “sedersi vicino, ma più in basso” rispetto a un maestro da cui accogliere gli insegnamenti), tale modello è l’Uno, tendente cioè all’unità. Il secondo modello è invece il Sangha (? Forse non si scrive così!!) indica il numero, l’enumerazione, dà importanza alla tassonomia: si cerca di numerare i vari principi che formano la realtà. Si può quindi identificare questo secondo modello come il due, con tendenza al dualismo.
Nel primo modello esiste un principio individuale, l’Ȃtman (la radice an significa respirare) che viene identificato con un principio cosmico, assoluto, universale chiamato Brahman: “Il soffio del soffio, l’occhio dell’occhio, la mente della mente... coloro che conoscono questo, conoscono il Brahaman”. Esso non è percepibile, non ci si può attaccare, non oscilla, è un vento, un soffio, è l’innato e l’imperituro: Atman non nasce e non muore, è il senza paura. “Sì, in verità tutto questo è Brahman, questo Atman è Brahman”. Ma questo sei tu: “tat tvam asi: quello [ātman-Brahman] sei tu”. Tu sei l’universo, il cosmo, non c’è distinzione.

I maestri del Sangha (che più che mistici sono un po’ assimilabili ai presocoratrici) trovano invece inconciliabile l’Uno, perché ciò che è pura consapevolezza non può essere soggetto a cambiamento, divenire alla morte, come invece è soggetto il condizionato, la materia. Esistono dunque due polarità: da una parte la materia e dall’altra lo spirito, le quali non comunicano tra di loro. È un sistema pluralistico e il lato spirituale non è unitario, bensì è un insieme di una miriade di individualità coscienziali – purusha.
Tra la componente mente/spirito (Purusha) e la componente materia (Prakrta) c’è un dualismo e la cosa che forse più ci sorprende è che tutto ciò che per noi sembra connotare maggiormente la parte psichica o spirituale, come la memoria, le sensazioni, la capacità percettiva, la capacità di rielaborazione dei dati percettivi, i sentimenti ecc.. fanno parte non del purusha bensì della materia, del condizionato. Questi elementi “materiali” si possono suddividere in tre: il Buddhi che è la mente intesa come facoltà di percezione; il Manas che indica la capacità di coordinare i dati della percezione e l’Ahamkara che è il senso dell’ io a cui ricolleghiamo ogni esperienza e ogni percezione. C’è insomma una radicale distinzione tra il sanscrito (che etimologicamente significa ben fatto, perfetto, essendo composto dalla radice sam – con – e krta – fatto, creato – ) che è ciò che è condizionato e quindi soggetto a nascita e morte e comprende tutte le categorie di corpo e psiche, e l’ asanscrito, l’incondizionato, qualcosa che esiste da sempre e non è sottoposto a divenire e distruzione. L’unico incondizionato su cui qualsiasi tradizione buddista converge è il Nirvana (che possiede il significato di estinzione).
I due modelli sono entrambi presenti al momento in cui nasce il Buddismo, ma inizialmente questo si avvicinava maggiormente al secondo, salvo poi nel corso dei secoli fino ad oggi, identificarsi di più con quello upanisadico. Mentre però in entrambi i modelli si parla di un principio spirituale, l’atman appunto, i buddisti oggi non ne parlano : “signore, noi non lo troviamo”, asseriscono i monaci.

Questo principio è afasico, non si può dire e quindi è meglio restare, wittgensteinamente in silenzio. Nella letteratura filosofico-religiosa indiana infatti il punto è stato sempre quello di descrivere come funzionasse il prakrti, il condizionato di cui sperimentiamo la molteplicità. Il brahman invece rimane l’indicibele, l’inafferrabile verbalmente e mentalmente, esso è al di là della parola. Possono essergli forniti degli attributi ma questi dicono tutto e niente (inafferrabile, indicibile…), così che i buddisti preferiscono non parlarne (salvo che poi tra gli attributi comparirà quello di beatitudine: “Conoscenza e beatitudine è il brahman, | premio per chi dona, sublime meta | per chi persevera, ciò conoscendo.”, sebbene si tratti comunque di una beatitudine senza oggetto, è un principio intrinsecamente beato).
Esistono anche i materialisti indiani che potrebbero parlare dell’atman/brahman ma lo ridurrebbero al corpo, alla psiche. Ci sarebbero 4 principi originari – acqua, terra, aria, fuoco – e la coscienza si produce a partire da questi, trasformatisi in forma corporea. “Non c’è prova che il sé sia distinto dal corpo (…) e noi non percepiamo l’Atman (intesa come spiritualità). Il sé è soltanto il corpo qualificato dalla coscienza.”


Una studiosa inglese, Sue Hamilton, prosegue Sferra, ha scritto che i buddisti, soprattutto quelli antichi non sono interessati a cosa c’è, bensì a come funzioni ciò che c’è. La materia, il condizionato non vengono descritti in termini ontologici ma viene indagato il loro funzionamento. Ai buddisti interessa capire come funziona quella cosa che chiamano atman-brahman e non cosa sia, essa c’è perché da ciò che ci viene trasmessi dai testi antichi o da quello che viene testimoniato nei veda (i testi autorivelati, privi di un’autorialità umana) qualcuno li ha sperimentati, esperiti direttamente, perciò resta comunque concessa la possibilità che qualche, perciò resta comunque concessa la possibilità che qualche yogi avanzato possa verificare direttamente l’esistenza di quel principio che la tradizione ha tramandato per rivelazione, ma gli uomini che ancora non hanno raggiunto livelli tanto alti, possono solo limitarsi a conoscerne il funzionamento più che a sviscerarne l’ontologia. Tant’è che il condizionato, la materia in quest’ottica non è vista affatto in maniera negativa, anzi, essa stessa è d’aiuto nel percorso del purusha verso la liberazione. Quest’ultimo è vero che può giungere ad essa soltanto in uno stato di isolamento, quando si è svincolato dai legami della materia, dalla seduzione della ballerina che danza nel samsara – il ciclo di nascita, vita, morte e nel significato più tardo sta ad indicare l’ “oceano dell’esistenza”, la vita terrena e materiale – ma questa stessa ballerina è necessaria affinché lo spirito possa rendersi conto della sua diversità rispetto alla materia e spezzi il legame samsarico. La materia è al servizio del purusha. Ciò non esclude per alcuni maestri, il fatto che un principio incondizionato debba esserci. Una dimostrazione dell’esistenza di tale principio è fornita dalla logica indiana, secondo la quale “ciò che esiste deve necessariamente produrre un effetto per esistere”, dietro la quale vige un principio di economia: se qualcosa non produce degli effetti non è economico né sensato che quella cosa esista. L’atman ha degli effetti e perciò deve esistere secondo i trattatisti per i quali ci vuole un principio unitario che unifichi. Per i buddisti invece questa idea di unità è solo illusoria poiché per essi c’è invece una serie infinita di “micro percezioni” (ben circa 5000 percezioni dirette già soltanto in un secondo) di qualcosa, che per comodità discorsiva e vitale, considero come un oggetto unitario (come una bottiglia, che però in realtà non è una ma frutto di queste miriadi di percezioni). C’è un flusso continuo e diversificato di percezioni diverse e ininterrotte che è solo la mia mente che tende a far convergere sotto un’unica e identica forma, dandomi l’impressione di unità. Quest’idea però non spiega come mai in assenza di un principio unificatore non rischiamo di perderci in questi flussi ininterrotti né come si possa passare da un flusso esperienziale-percettivo a un altro.

Un’altra considerazione che dà prova dell’esistenza di tale principio è di carattere strettamente grammaticale: dato che psiche e corpo sono strumenti – Karaka, assimilabili a funzioni sintattiche espresse dai casi – ovvero, se sono produttori di effetti e svolgono azioni ci deve necessariamente essere un soggetto agente che svolga tali azioni o che formuli quelle espressioni linguistiche. Il modo corretto (samscrito, ben fatto) di pensare e quindi di parlare, dato che il linguaggio deve rispecchiare adeguatamente le trame profonde della realtà, farne vibrare le corde, presenta frasi che per essere perfette richiedono un soggetto d’azione, un verbo e dei complementi che sarebbero impossibili senza l’agente, il quale al massimo può essere implicito ma sempre deve esserci. Dunque, essendo corpo e psiche dei karaka, dei fattori, da qualche parte deve esserci un agente, ed ecco che questo non può essere che l’atman.
Sferra giunge poi a parlare dei cinque Skandha, o gruppi di aggregati: - forma o elementi corporei, fisici; tonalità affettiva dell’esperienza; tutte le funzioni percettive; le funzioni emotive, mentali, volitive; la coscienza stessa. Possiamo dunque suddividere questi elementi in quattro componenti psichiche: attenzione (forma), sensazione, percezione, coscienza.

Prima di tutto la forma: io, soggetto conoscitore oltre a rappresentarmi la forma (per esempio, un vaso), devo possedere la capacità di percezione iniziale, la possibilità di creare un contatto tra le mie facoltà sensoriali e le forme oggettuali. Io sono come una specie di faro che getta un fascio di luce sulle forme e le illumino, le focalizzo, le presentifico alla mia attenzione, le faccio entrare nel mio campo percettivo. Il secondo passaggio dopo questa capacità di polarizzare di dirigere i miei fari luminosi su una certa forma, una volta che la riconosco le attribuisco un nome, come ad esempio “vaso”. In questo passaggio agisce ovviamente anche l’elemento della memoria, ovvero faccio riferimento, inevitabilmente, a una precedente esperienza depositata da qualche parte, sto recuperando dal mio vissuto una data esperienza che funge da “etichetta” che andrò ad applicare funzionalmente all’esperienza attuale e che mi fa dire che quella data forma, che già ho percepito in altre esperienze e che si è sedimentata nel mio trascorso memoriale, è un vaso. Dopo di che scatta, a livello più o meno cosciente, il “giudizio estetico”, se quell’oggetto mi piace o no. E qui si parla perciò di sensazione – terza capacità mentale. Dopo di questa ecco che subito subentra il desiderio di appropriazione di tale oggetto (se mi piace) o di allontanamento (nel caso non mi piaccia). Se mi piace lo voglio, desidero che sia mio, voglio appropriarmene, in caso contrario mi sottraggo da esso.

La mente dunque unifica degli istanti e crea degli “astratti” (astratto vaso, astratto bottiglia, astratto bicchiere ecc..). il primo astratto che la mente crea è l’ io/tu. L’io in cui ci identifichiamo, cui associamo i nostri vissuti, i nostri flussi esperenziali, le nostre percezioni, le nostre sensazioni e impressioni e i nostri sentimenti. Ma l’astratto io non è eticamente neutro come può esserlo l’astratto bicchiere. Certo, l’io ci serve, lo utilizziamo in maniera funzionale, ma la problematica scaturisce dal fatto che non ci limitiamo ad un uso per così dire strumentale, vitale di questo astratto, piuttosto essa emerge non appena da questo uso funzionale passiamo all’identificazione con esso. Noi operiamo un passaggio ulteriore nel rapportarci all’io, identificando cioè quella modalità, taciuta per i buddisti, dell’ Atman con la psiche, senza fermarci alla soglia anteriore nel considerarla semplicemente come meccanismo funzionale per vivere, come “comodità” esistenziale. Un passo recita più o meno così: “O monaci, esistono sei modi di vedere […] una persona ordinaria […], inesperta e indisciplinata concepisca la forma materiale così: questo è mio, questo sono io, questo è il mio sé (Atman). Così vede la sensazione, così vede la percezione ecc.. [quei cinque aggregati che costituiscono il condizionato]. Chi non conosce il nostro insegnamento cercherà di appropriarsi di quelle cinque modalità nei termini di mio/tuo.”

Il problema nasce dunque dall’identificazione dell’Atman con il mio sé, e questo non può che creare dei tragici abissi, dato che il mio corpo invecchia, è preda del divenire e quindi soggetto, prima o poi alla morte e con esso il mio sé. Il giusto comportamento sarebbe quindi quello di non pensare nel modo “quello è mio, quello sono io, quello è il mio sé” ma vederli semmai come semplici funzioni. È soprendente che già nel II, III sec. a. C questi buddisti si resero conto del grande equivoco del passaggio (non per forza legittimo) dall’uso di “io” alla proprietà di questo “io”, un conto è dire io mi chiamo Tommaso, altra cosa è dire “Io sono Tommaso”... rifletterci su non è cosa da poco, apre infiniti labirinti del pensiero e della filosofia moderna e contemporanea e il fatto che già allora quest’aspetto era stato problematizzato non può che destarci ammirata meraviglia.

“Un monaco chiese: può esserci agitazione (ansia, preoccupazione) per ciò che non esiste all’esterno? Sì, rispose il maestro “può esserci”. “Può esserci agitazione per ciò che non esiste all’interno?” “Sì, può esserci. Questo è il sé, è il mondo. Dopo la morte sarò imperituro, durerò per l’eternità. Questo uomo è il Buddha, che insegna l’abbandono di tutti i punti di vista, ossessioni, passioni, attaccamenti (…)”. Sarò annichilito se mi identifico con il sé, perché prima o poi il mio corpo morirà e anche le mie sensazioni e percezioni e tutto ciò che questo sé comprende. “Voi potrete ottenere quel possesso che permanente, imperituro, eterno, non soggetto a cambiamento, non condizionato, che non si vede; potrete aderire a quella dottrina del sé che non determina sofferenza? La vedete? Neanche io vedo quella dottrina […]”. Tutto ciò rimanda a quell’idea prima accennata che noi, uomini normali, non possiamo che parlare del condizionato (in cui secondo il modello dualista non c’è l’atman, o comunque, se esiste niente ha a che fare col condizionato, essendo incondizionato) del sé non si può parlare, né tantomeno ci si può identificare se non a livello funzionale.

A un certo punto però il modello dualistico (che separa condizionato da incondizionato) scoppia. Cambia soprattutto il concetto di vacuità, di vuoto. Esso non è più inteso come vuoto, come mancanza, come assenza, bensì come pienezza, che è essenza, presenza di tutte le cose in tutte le cose. “Non c’è niente che sia pieno di sé stesso se non tutto il resto”. Vuoto di atman, nel senso ce non c’è niente che abbia un suo io o un suo atman opposto ad altri io e altri atman, ma c’è una trasparenza assoluta: ogni cosa è piena di tutte le altre. Anche la materia è vuota di natura propria ma allora è come il Nirvana stesso; certo, le mancherà quel livello di auto rappresentazione ma ne condivide la stessa natura: tutto è in tutto, in pratica tutto è spirito, dato che anche il condizionato, la materia partecipa della sua stessa natura, sebbene a gradi di auto rappresentazione differenti e inferiori. A livello dell’esperienza ci sono solo differenze di grado di auto-rappresentazione ma tutti, esseri viventi e esseri inanimati condividono una stessa identica natura. Non c’è atomo che non la condivida. Si tratta qui di una rivoluzione totale, da “assenza di”si passa a “presenza di” infusa in ciascun elemento, un vuoto che è pieno, un pieno che è vuoto. Da vuoto come vuoto a vuoto come pienezza: natura condivisa da tutte le cosa, animate e non. Tutto partecipa della natura del Buddha. “Egli contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti i profumi e tutti i gusti. Egli abbraccia l'intero universo; egli è oltre la parola e oltre i desideri. Egli è il mio ātman all'interno del mio cuore, egli è Brahman. Andandomene di qui io mi fonderò in lui. Colui che dice così invero non ha dubbi.”

La “lezione” di Sferra è stata intensa e profonda e anche se oggi tendiamo forse a semplificare o banalizzare la complessità di queste antiche tradizioni e delle loro numerose evoluzioni, il professore stesso afferma che anche il solo lanciare spunti, stimoli, “informare”, è importante per aprirsi ad esse. Anche quelle pratiche così attuali, come la mindfulness nella neuroscienza contemporanea, che consiste nell’uso dell’ “accatastamento intraumano buddista” (come lo chiama Squarcini) come paradigma da sperimentare in discipline e tecniche psicoterapeutiche, per quanto inevitabilmente riduttiva della ricchezza e complessità di tale accatastamento può comunque essere utile laddove serve a creare maggior interesse, maggior informazione e a gettare dei semi che progressivamente potranno fiorire e diventare piante più rigogliose di cui raccogliere frutti più maturi e consapevoli. Si semplifica, indubbiamente, ma nello stesso tempo ci si apre un po’di più, ci si spinge un pochino più avanti verso quelle porte per ora socchiuse, ma che possono spalancarci l’immensità e l’incanto di un mondo tanto lontano, per noi occidentali, quanto affascinante e gravido di insegnamenti con cui riempirci l’atman, l’essenza, il nostro “soffio vitale”.

Immagine tratta da: www.turistipercaso.it

Ultima modifica il Domenica, 06 Aprile 2014 22:37
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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