Venerdì, 22 Gennaio 2016 00:00

Lenin e la guerra

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Luigi Vinci dal numero cartaceo di Novembre

Lenin e la guerra

Il luglio del 1914 segna uno spartiacque storico: la guerra sconvolge l’Europa, ne spiazza il movimento operaio, che si era illuso di impedirla, lo rompe, determina un cambiamento radicale nella riflessione, negli orientamenti, nel comportamento delle sue correnti. Il movente scatenante della guerra fu l’attentato di Sarajevo da parte di un irredentista slavo-meridionale, che uccise l’erede al trono d’Austria-Ungheria e la moglie di questi. Il motivo politico sostanziale fu la tendenza espansionista delle maggiori potenze europee, cui si aggiungevano irredentismi italiani e una pluralità di irredentismi slavi che mettevano a repentaglio la tenuta austro-ungarica. Il motivo strutturale consistette nei mutamenti sostanziali del capitalismo. Nel corso della “lunga depressione” 1873-95 esso aveva generalizzato processi di gigantismo industriale, formazione di trust, integrazione tra finanza bancaria e industria, intervento anche finanziario dello stato nella in sede di politica industriale e infrastrutturale, ma anche nuove classi medie ggressivamente

orientate alla propria ascesa sociale. Parimenti ai primi del Novecento il capitalismo aveva quasi completato la spartizione coloniale o semicoloniale del pianeta, rimanevano da acquisire quasi solo una Cina, una Persia e i territori non turchi di un Impero Ottomano: tutte realtà in dissoluzione ma in grado di reagire militarmente. La spartizione coloniale aveva comportato tensioni e contenziosi, un’influenza crescente degli apparati militari sulla politica, continue campagne nazionaliste, soprattutto imponenti politiche di riarmo. Infine operò dal lato della guerra la convinzione da parte di tutti i futuri contendenti che essa sarebbe stata una passeggiata di pochi mesi e sarebbe stata vinta. La convinzione di tutti i grandi stati di essere invincibili produsse grotteschi errori. L’Austria-Ungheria ritenne che la Russia non sarebbe intervenuta e che la guerra alla Serbia si sarebbe conclusa con la sua annessione nel giro di qualche settimana. La Russia riteneva che il proprio enorme esercito avrebbe rapidamente sfondato il fronte austro-ungarico e che la guerra si sarebbe conclusa nel giro di qualche settimana con un allargamento territoriale sia russo (sul versante della Galizia) che serbo (sul versante della Bosnia-Erzegovina).

La totalità dei partiti e delle correnti del movimento operaio fu colta di sorpresa. Quasi tutte le correnti l’avevano considerata possibile ma improbabile. L’impossibilità era stata dentro solo all’ipotesi di Bernstein di una capacità civilizzatrice profonda della lotta del movimento operaio anche riguardo alla stessa borghesia, tale quindi da condurre il pianeta alla capacità di prevenire crisi economiche, sociali, politiche incontrollabili e devastanti. Ma anche Kautsky aveva sfiorato questa tesi, teorizzando l’entrata in campo di una tendenza “ultra-imperialista” del capitalismo che avrebbe portato all’ammorbidimento degli antagonismi interstatali economici e politici. In ogni caso tutte le correnti del movimento operaio si erano illuse della possibilità di impedire o quanto meno di bloccare la guerra, il grosso di esse affidando questi risultati a un’inevitabile travolgente mobilitazione pacifista dei proletariati. Inoltre le correnti rivoluzionarie davano per scontato che i gruppi dirigenti socialdemocratici e quelli sindacali alla guerra si sarebbero senz’altro opposti tutti quanti. Il 4 agosto del 1914 smentirà ogni cosa: in quel giorno al parlamento della Germania il gruppo parlamentare socialdemocratico votò a larghissima maggioranza a favore dei “crediti di guerra” richiesti dall’Imperatore Guglielmo II (solo due parlamentari votarono contro), e a breve distanza di tempo analogamente si comportò in Francia il gruppo parlamentare socialista. Questo voto fu giustificato dalla dirigenza socialdemocratica tedesca affermando la che la Germania dovesse difendersi dall’aggressione dei veri imperialisti franco-tedeschi e dagli autocrati russi, e analogo discorso venne fatto in Francia (dove i socialisti addirittura entrarono a far parte del governo) e in altri paesi. Si schierarono con le relative borghesie anche i partiti del movimento operaio o loro maggioranze degli altri paesi entrati in guerra.

A prima vista quest’esito risulta sbalorditivo. L’inizio del Novecento aveva avviato un grande dibattito sia nel movimento operaio che nelle componenti pacifiste della politica occidentale a proposito di quello che il liberale inglese Hobson aveva battezzato “imperialismo”. Questo dibattito aveva affrontato le grandi trasformazioni nella struttura del capitalismo che avevano sollecitato l’espansione coloniale e semicoloniale delle sue maggiori potenze, inoltre aveva constatato come queste trasformazioni proponessero un passaggio dalle tensioni delle spartizioni coloniali alla possibilità di conflitti su assai più vasta scala tra coalizioni di stati. L’austromarxista Hilferding aveva scritto nel 1913 un testo decisivo di analisi al riguardo, Il capitale finanziario. Rosa Luxemburg aveva sostenuto sempre nel 1913 ne L’accumulazione del capitale che il capitalismo imperialista poteva continuare a svilupparsi solo acquisendo continuamente nuovi territori caratterizzati da modi di produzione più arretrati e distruggendoli; il militarismo, le guerre e le annessioni erano perciò diventate necessità assolute per le grandi potenze. L’opinione di Lenin non era che lo sviluppo capitalistico necessitasse assolutamente di guerre di espansione, conveniva tuttavia che i governanti fossero orientati dalle richieste della grande industria di materie prime e di mercati e da quelle delle alte gerarchie militari. Contemporaneamente la II Internazionale era stata unanime fino al maggio del 1914 nel dichiarare, attraverso i suoi congressi e le sue conferenze, che avrebbe mobilitato i proletariati europei nella loro interezza contro ogni guerra mossa da potenze imperialiste. Fin dal suo II Congresso, tenuto a Bruxelles nel 1891, la II Internazionale aveva affermato che la guerra era uno strumento capitalistico e che il proletariato doveva impegnarsi a fondo sul terreno dell’antimilitarismo. Il VII Congresso, tenuto a Stoccarda nel 1907, aveva ragionato analogamente. Oltre vent’anni dopo Bruxelles il Congresso straordinario di Basilea, indetto nel 1912 dato il dilagare di venti di guerra, aveva dichiarato unanimemente che il proletariato avrebbe reagito all’eventuale guerra imperialista dichiarando “guerra alla guerra”; la guerra imperialista avrebbe infatti sollevato l’indignazione della totalità dei proletariati e ciò avrebbe consentito un’“esplosione rivoluzionaria” che i partiti della II Internazionale avrebbero guidato alla vittoria. A ciò tuttavia si univano una situazione largamente di inerzia e uno spappolamento degli obiettivi tattici. Molti partiti in realtà non facevano altro che un po’ di denuncia dei rischi del militarismo. Alcuni agitavano l’obiettivo della riduzione della ferma militare, altri quello della riduzione concordata degli armamenti.

La guerra ovviamente impose alle correnti rivoluzionarie un ripensamento globale. Il partito bolscevico si era affidato fino alla vigilia della guerra, per via del tipo di formazione teorica dei suoi quadri, alla posizione della socialdemocrazia tedesca e in essa, più precisamente, alle posizioni del suo leader Kautsky. Questi appariva ai bolscevichi un valido continuatore del tentativo di Engels di attualizzazione del marxismo così come un valido difensore del marxismo dalle illusioni portate dal gruppo “revisionista” di Bernstein. La comprensione delle ampie trasformazioni nella composizione della società avvenute in Europa occidentale, sostanzialmente inesistente in Engels e in Kautsky ed esistente solo in Bernstein, sfuggiva a rivoluzionari impegnati in un teatro enormemente diverso come quello russo. Tuttavia è da parte di Lenin che si ebbe fin dall’autunno del 1914 la svolta teorica e politica più radicale e più valida. Non appena riuscì a trasferirsi nella Svizzera neutrale dall’Austria, dove si era rifugiato per evitare la deportazione in Siberia, egli cominciò a mettere a fuoco una nuova concezione rivoluzionaria. Il bolscevismo aveva sempre fatto affidamento su una rivoluzione europea per portare la Russia al socialismo; data l’arretratezza di questo paese, quanto era possibile farvi autonomamente era una rivoluzione democratica appoggiata dal proletariato in cambio di riforme sociali. Nel nuovo contesto di una guerra mondiale imperialista Lenin cominciò invece, in più scritti, a porre come realistica, perciò come tema pratico numero uno, la prospettiva della trasformazione di questa guerra, da parte proletaria, in guerra rivoluzionaria: quindi la fattibilità nel breve periodo di una rivoluzione socialista nel complesso dei paesi sviluppati; quindi, per quanto riguardava la Russia, la fattibilità di un aggancio della sua rivoluzione democratica a questa rivoluzione socialista; quindi la fattibilità di una rapida trascrescenza della rivoluzione democratica russa in rivoluzione socialista. E questo tanto più appariva praticabile in quanto in Russia il complesso delle forze democratiche-libarali e in larga parte quello delle forze socialdemocratiche e socialrivoluzionarie (il partito cui andava la fiducia contadina) si erano schierati a favore della guerra, mentre stava crollando rapidamente l’adesione o l’indifferenza rispetto alla guerra nella massa contadina, i cui figli al fronte morivano a centinaia di migliaia, e mentre gli operai, spremuti come limoni e le cui famiglie la guerra affamava, radicalizzavano la loro opposizione a essa, allo zarismo e alla borghesia. La rivoluzione democratica in Russia non avrebbe potuto, in queste condizioni, che essere il risultato della rivolta dei contadini, contro la guerra e per la terra, degli operai, contro la guerra e per condizioni di lavoro meno massacranti e approvvigionamenti alimentari sufficienti, delle minoranze nazionali oppresse, per l’autodeterminazione, dei soldati-contadini e dei marinai-operai, per tornarsene a casa: cioè il risultato di una rivolta di popolo cui una borghesia obbligata a essere sempre meno democratica non avrebbe dato alcun contributo reale anzi si sarebbe opposta con tutti i mezzi.

Intanto però occorreva fare chiarezza sulla natura fondamentale della guerra, contro le operazioni di mistificazione ideologica operate dai gruppi dirigenti del movimento operaio che la guerra giustificavano e appoggiavano, il cui effetto più pericoloso era di alimentare nel proletariato soprattutto occidentale posizioni scioviniste o comunque di disorientarlo, demoralizzarlo, disorganizzarlo. Argomenta ampiamente Lenin come lo scopo reale della guerra delle varie borghesie, autocrazie e caste militari europee fosse la distruzione delle potenze nemiche e la conquista delle colonie nonché di territori europei di queste potenze. Conclude Lenin come dovere dei proletariati di tutti i paesi fosse perciò difendere la loro unità, il loro internazionalismo, le loro concezioni socialiste contro lo sciovinismo delle borghesie di tutti i paesi.
Lenin subito dopo inoltre lancia la proposta di una nuova internazionale rivoluzionaria: egli infatti ritiene che la II Internazionale non solo si sia di fatto dissolta (ufficialmente avverrà solo nel 1916) ma che sia nella sua parte prevalente irrecuperabile. Lenin inoltre opera un primo abbozzo di analisi dei fattori della capitolazione della II Internazionale e dei suoi partiti fondamentali dinanzi alla guerra. Da tempo, egli scrive, i loro opportunisti contestavano la tesi di un passaggio inevitabilmente solo rivoluzionario al socialismo e teorizzavano un percorso fatto di riforme graduali da realizzare anche collaborando con partiti borghesi. Da tempo essi avevano adottato posizioni “sentimentali piccolo-borghesi” di tipo astrattamente pacifista nella lotta al militarismo e al riarmo, e perciò contestato la necessità della guerra rivoluzionaria dei proletari di tutti i paesi contro la borghesia di tutti i paesi. Da tempo avevano trasformato l’utilizzazione del parlamentarismo e della legalità borghese nel feticismo di questa legalità e contestato l’obbligatorietà delle forme illegali di agitazione e di organizzazione nei periodi di crisi. In Russia, prosegue Lenin, il liberalismo borghese, una parte dei populisti, i socialisti-rivoluzionari e i socialdemocratici di destra avevano fatto proprio lo sciovinismo. I bolscevichi, al contrario, non solo non erano interessati alla vittoria della Russia ma erano per usare il crescente malcontento popolare dinanzi alla guerra per fare la rivoluzione: dunque erano perché la Russia zarista fosse sconfitta (una sconfitta drammatica della Russia era già in corso: nelle giornate tra fine agosto e primi di settembre le truppe tedesche avevano travolto sul fronte polacco-lituano intere armate russe, avevano fatto centinaia di migliaia di prigionieri ed erano avanzate in profondità lungo il Baltico). La sconfitta dell’esercito russo avrebbe determinato l’indebolimento del governo, perciò aiutato la liberazione dei popoli da esso asserviti e facilitato la guerra alla borghesia; invece una vittoria della Russia avrebbe portato al rafforzamento della reazione mondiale.

Infine Lenin indica quale debba essere la “parola d’ordine” della totalità delle forze rivoluzionarie socialiste in campo: la “trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile”. Solo con questo mezzo, egli sottolinea, il proletariato avrebbe potuto effettivamente compiere passi decisivi verso il socialismo. E, come passi preliminari sulla via della guerra civile, occorreva assolutamente rifiutare di votare i continui crediti di guerra, uscire dai governi borghesi, creare organizzazioni illegali in quei paesi dove fossero state abolite le libertà costituzionali, operare alla fraternizzazione tra i soldati in opposte trincee, rompere la tregua sociale, appoggiare ogni specie di attività di massa del proletariato, dei contadini e di tutto il popolo.

Il 1915 vede Lenin alzare ulteriormente il tiro. Pacifismo e “propaganda astratta della pace”, egli afferma, sono diventati “forme di mistificazione”. In regime capitalistico, e in modo speciale nella sua fase imperialista, le guerre sono inevitabili. Né il movimento operaio poteva seriamente negare l’importanza delle guerre rivoluzionarie, come, per esempio, quelle condotte dal 1789 al 1871 per l’abolizione dell’oppressione nazionale e per mettere fine all’autoritarismo monarchico, le quali avevano portato alla creazione di stati borghesi nazionali, né il movimento operaio poteva negare l’importanza delle guerre di difesa di proletariati che avessero conquistato il potere politico. Perciò una propaganda per la pace non accompagnata dall’appello all’azione rivoluzionaria delle masse poteva solo seminare nel proletariato illusioni e tenerlo fermo (qui il tiro è rivolto da Lenin anche contro la posizione assunta dal Partito socialista italiano a fine maggio del 1915 cioè al momento dell’entrata in guerra dell’Italia: posizione che non era di adesione alla guerra ma di suo rifiuto, tuttavia al tempo stesso di rifiuto del suo boicottaggio). Parimenti, prosegue Lenin, era un grave errore affermare la possibilità di una “pace democratica” senza che la preparassero una serie di rivoluzioni proletarie.

Nell’ottobre del 1915 Lenin anticipa anche quella che sarà la sua tesi insistita, martellante, nel 1917, che constaterà come la rivoluzione russa di febbraio non avesse fermato la partecipazione russa alla guerra, avendo assunto il potere politico forze democratico-liberali e componenti ultramoderate della socialdemocrazia e dei socialisti rivoluzionari. Lenin quindi contesta che si debba contrastare lo zarismo rivendicando la formazione di un’Assemblea costituente: essa avrebbe dato in quel momento un risultato favorevole al blocco dei partiti che volevano la prosecuzione della guerra. La Russia, scrive Lenin, è rapidamente diventata l’“anello debole della catena imperialista”, dunque spetta al proletariato russo e alla sua socialdemocrazia rivoluzionaria, rompendo con ogni mistificazione, di avviare il processo rivoluzionario europeo, in altre parole il compito di facilitare la rivoluzione socialista nei paesi avanzati d’Europa. Lo strumento di questa rivoluzione anticipatrice russa e al tempo stesso la forma dello stato avrebbe quindi dovuto essere anche in Russia quella sovietica, già sperimentata nel 1905, cioè l’esercizio diretto del potere da parte di operai, contadini e soldati.

Sempre nel 1915 Lenin partecipa a una conferenza internazionale a Zimmerwald (5-8 settembre), nella Svizzera neutrale, promossa dal Partito Socialista Italiano. Ma in questa conferenza prevalsero le posizioni del “centro”, la cui posizione consisteva solamente nelle parole d’ordine “pace senza annessioni e riparazioni” e “autodeterminazione di ogni gruppo nazionale” ed escludeva invece la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, parimenti rifiutava l’obiettivo di una nuova internazionale rivoluzionaria. D’altra parte la sinistra che in questa Conferenza si raccolse attorno a Lenin (gruppi socialisti operanti in Italia, Svizzera, paesi scandinavi, Germania, Olanda, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Bulgaria, Polonia) era assai debole; inoltre tra la posizione bolscevica e quella di altri gruppi di sinistra c’erano divergenze importanti. La sinistra si presenterà invece più compatta alla successiva Conferenza di Kienthal, sempre in Svizzera” (24-30 aprile 1916): ma rimaneva debole. La posizione bolscevica era certamente penetrata in molti partiti, il principio che le forze ostili alla guerra e orientate a rovesciarla in rivoluzione socialista potessero unirsi, cooperare, aiutarsi a vicenda era stato affermato, ma rimaneva il sostanziale carattere minoritario di queste forze.
La III Internazionale potrà nascere solo nel 1919, a Ottobre del 1917 cioè a rivoluzione socialista russa avvenuta, appunto sulla scia di questa straordinaria vittoria proletaria e dello sviluppo di movimenti rivoluzionari animati dal proletariato in Germania e Ungheria e dagli operai del triangolo industriale italiano. Nel frattempo in molti paesi la guerra imperialista si era trasformata in guerra rivoluzionaria, da parte operaia e degli eserciti al fronte, non più disposti a massacrarsi tra loro.

Ultima modifica il Giovedì, 21 Gennaio 2016 17:00
Beccai

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