Anche Stefano Righetti ribadisce che il valore di questo libro sta nell’essere tutt’altra cosa rispetto a quei libri che vogliono essere una sorta di mappa concettuale o di guida introduttiva al pensiero di un autore. Il libro di Iofrida e Melegari traccia un quadro del pensiero foucaultiano complessivo ma ponendosi l’idea di fare un bilancio di questo pensiero e riproponendo la lettura che di Foucault è stata intrapresa negli ultimi anni a Bologna, uno dei centri più interessanti e più floridi nell’ambito di studio del pensiero del filosofo francese. Il libro è una restituzione di questa lettura interpretativa sviluppatasi nei circoli intellettuali e accademici bolognesi e quindi il lavoro dei due autori è anche un lavoro di metodo. Metodo che si dà per oggetto insieme ai contenuti dell’opera. A Bologna, infatti, prosegue Righetti, si è trattato di lavorare sul pensiero di Foucault in una prospettiva che tiene conto dell’orizzonte e del contesto storico-politico in cui si è sviluppato il pensiero dell’autore francese. Si tratta perciò di un taglio storico, teorico e critico sul pensiero degli autori della filosofia contemporanea a cui appunto si aggiunge anche una prospettiva di metodo. È un approccio che Righetti non disdegna di definire “storicismo italiano”, nonostante la denigrazione che quest’ultimo possa aver avuto negli ultimi tempi.
Infatti, anche laddove viene dato grande respiro ai punti di vista più prettamente politici non viene mai a mancare questo sguardo storico, teorico e critico. Nel libro emergono anche, prosegue Righetti, i forti riferimenti e le fonti nascoste del pensiero foucaultiano, non sempre facili da individuare proprio per una mancata esplicitazione da parte dell’autore francese. A detta di Berni però, nonostante la complessità, e spesso la “flessibilità” e i cambiamenti costanti insiti all’interno della ricerca foucaultiana, è possibile rintracciare nel libro di Iofrida e Melegari, una certa costante, che è quella della questione del linguaggio e soprattutto del rapporto tra il “linguaggio dionisiaco” del primo Foucault (quello, per capirci, di “Storia della follia”) e del linguaggio- istituzione, del linguaggio disciplinare, del linguaggio, per usare termini nietzschiani (Nietzsche, anche a parere degli autori, è una delle fonti principali di Foucault, soprattutto del primo Foucault), apollineo, contrapposto appunto a quello dell’irrazionale, letterario, dionisiaco. Il percorso di Foucault, per quanto ricco di cambi di rotta, di inversioni di pensiero, è, secondo Righetti, tutto articolato all’interno del linguaggio proprio perché per l’appunto si intravede, nella sua ricerca, un costante confronto tra vita-potere-linguaggio. Si avverte, fin dall’inizio una tensione, una sorta di dualità continua tra linguaggio istituito, linguaggio-istituzione, linguaggio discorsivo/disciplinare/performativo e invece un linguaggio che ipostatizzato ai suoi estremi cerca di dar voce a ciò e a chi non ha e non può aver voce: il linguaggio del silenzio, il linguaggio dell’irrazionale, il non linguaggio del folle e della follia che trova appunto come suo immediato contrapposto il linguaggio della scienza, della razionalità cartesiana. La sfida del (primo) Foucault, sebbene in questa spinta così estrema di dar voce e linguaggio al silenzio e al non linguaggio è proprio quella di inserire tale silenzio e tale non linguaggio all’interno del linguaggio stesso, in un paradosso apparentemente insanabile. Nel percorso iniziale di Foucault infatti vi è un tentativo di arrivare alla parola muta della follia, di ricondurre il linguaggio al silenzio, al non linguaggio, ma, come sopra accennato all’interno del linguaggio stesso, portandolo all’estremo dei suoi limiti fino a superare questi ultimi.
L’altro estremo è quello di portare il linguaggio alla verità che l’esistenza stessa dice e mostra, nell’ottica di un linguaggio che emana dalla vita, dall’esistenza. Acquisisce importanza, allora, in questa spinta estremistica del linguaggio portato al punto in cui esso stesso si “esaurisce” o tocca comunque la sua “impotenza”, diventando parola dionisiaca, l’elemento della letteratura, che si pone come un linguaggio esteriore, un qualcosa di oltre, di ulteriore e di esteriore, di differente, rispetto al linguaggio istituito, rispetto al sapere-potere. Tanti sono pertanto gli influssi letterari (e filosofici) da cui prende alito l’analisi foucaultiana, a cominciare da Blanchot e Bataille. La lotta però viene tutta giocata sempre all’interno della struttura linguistica e discorsiva, si sviluppa tutta all’interno del linguaggio, che rimane imprescindibile anche laddove si cerca di superare la sua struttura istituzionale, disciplinare e performativa, la sua struttura di linguaggio-potere, linguaggio-istituzione. Se mi si può permettere un paragone forse pindarico e magari fuorviante (di cui mi assumo la libertà), è un linguaggio che mi parrebbe vicino all’espressione mellvelliana dello scrivano Bartleby che col suo “I would prefer not to” si inserisce in quella zona di indistinzione, in quel limbo che rende impossibile qualsiasi tipo di decisionalità, portando ai suoi estremi la razionalità del logocentrismo, della discorsività, e rendendo a sua volta anche indiscernibile, come ci ricorda Agamben, seguendo la definizione di matrice aristotelica di potenza (la dunamys infatti è anche potenza di non, potenza di non essere, potenza che in contiene la possibilità di non essere e, scusatemi il gioco di parole, è potenza e al contempo impotenza, e che solo realizzandosi nell’atto, decide di abbandonare la sua potenza di non essere, donandosi nell’atto come potenza di, facendosi dunque dono di se stessa), il suo confine tra potenza e impotenza, tra potenza di e potenza di non. Anche in Foucault, a me pare, il linguaggio sembra, in questa fase, spingersi alla sua impotenza di non essere linguaggio, per lo meno non linguaggio rintracciabile in un logos, in un potere discorsivo, istituito, razionale. È linguaggio spinto fin oltre i suoi confini linguistici, che tocca il confine ultimo del non linguaggio, della parola muta, dionisiaca e irrazionale del reietto, del folle, il linguaggio muto della follia, non racchiudibile all’interno di alcun discorso logico e linguistico ma che pur sempre, per l’autore francese si sviluppa e si (non) articola all’interno del linguaggio, sebbene linguaggio estremizzato allo spasmo, al limite della sua tensione, laddove la parola cede il suo posto a ciò che non ha voce e, se una voce rimane, è quella dell’irrazionale, dell’ “anti-logos”: Foucault cerca di rendere la follia “soggetto" del suo libro tentando di restituirgli parola, nel tentativo appunto, pregevole e impossibile, di scrivere una storia della follia in se stessa. La difficoltà maggiore ovviamente sarà quella di fare una storia della follia come ci dice Foucault «prima di ogni cattura da parte del sapere». Ciò che qui è in gioco quindi sta nell'evitare la trappola dell'aggressione razionalista e oggettivistica, sta nel mantenere il discorso senza alcun sostegno assoluto di una ragione o di un logos, nel rifiuto di articolarsi in una sintassi della ratio. Per questo si tratta per Foucault di legare la follia del silenzio, fare l'archeologia di questo silenzio, risalire all'origine di questo silenzio, della parola interdetta dei folli”1. La critica di Derrida sarà proprio quella relativa all’impossibilità di uscire da questa razionalità del logos, dalla ragione che comunque rimane il parametro anche per parlare di follia o di sragione: “Per Derrida la crisi classica si sviluppa a partire da e dentro la tradizione elementare di un logos che non ha contrari, ma porta in sé e dice ogni contraddizione determinata; esclude inoltre, […], che si possa fare storia del silenzio della follia respingendo in blocco la lingua della ragione e cioè la lingua dell'ordine perché non si può dar alla follia stessa (intesa non come un argomento, ma come soggetto parlante), se non ponendosi già dalla parte della ragione stessa perché la ragione non è un ordine di fatti, potremmo dire è inoltrepassabile”2.
Alla fine degli anni ’60 (anche grazie all’esperienza del ’68) e all’inizio degli anni ’70 questa dimensione però sembra non bastare più a Foucault, che pare incentrato maggiormente alla lotta politica, attiva. In questa fase l’autore francese sembra voler uscire dall’orizzonte stretto del linguaggio e attraverso il piano sociale e di lotta si discosta dal linguaggio letterario che in questo momento non costituisce più per lui un’alterità o una reale alternativa rispetto al sapere-potere, proprio perché rimane esso stesso a far parte di questa struttura disciplinare. Il linguaggio letterario, il linguaggio irrazional-dionisiaco non è più qualcosa di altro rispetto al sistema discorsivo-performativo, al sistema del linguaggio-potere, del linguaggio istituzione, non rappresenta più un contro-potere, non è più trasgressivo. Foucault trova allora adesso un altro modo per “contrapporsi” a questo sapere-potere, rintracciandolo nella filosofia analitica poiché legge in essa l’unica possibilità di annidamento della critica. Deriva da ciò la necessità di utilizzare, contrariamente all’uso letterario e dionisiaco del linguaggio, come era stato nel primo tempi, un linguaggio più neutro, più freddo, più asettico che si trova ad accompagnare però ogni lotta politica e sociale. Viene delineata un’elaborazione di una “microfisica del potere” che si esercita ovunque e a ogni livello: “Ai suoi occhi, la lezione proveniente dagli eventi del ’68 aveva indicato la strada: i movimenti avevano rigettato materialmente l’ordine della società disciplinare affermando dal basso, e con radicalità globalmente diffusa, che «non si accettava più di essere governati in un certo modo». Per dirla con Gilles Deleuze, quelle lotte avevano rappresentato «la messa a nudo di tutti i rapporti di potere, ovunque essi si esercitassero, cioè dappertutto». In questo modo, esse avevano squadernato apertamente il “concreto” stesso del potere – sosteneva Foucault – fin nelle maglie più fini della sua rete. Recepirne le indicazioni significava allora elaborare una “microfisica del potere” in grado di superare l’ossessione teorica della sovranità e di mostrare come la concretezza dei poteri e dei saperi avesse prodotto, storicamente e materialmente, l’assoggettamento delle menti e dei corpi: il governo di tutti e di ciascuno”3. Per restare nell’ambito della questione linguistica, adesso non si tratta più quindi del linguaggio del dionisiaco, del linguaggio letterario, del linguaggio-vita (seguendo le orme di Balnchot, Bataille..). Anche l’opinione sulla scienza in questa fase cambia: la scienza non è più un mero dispositivo di potere, un dispositivo di verità, ma proprio perché procede a tentativi e spesso mette in questione sé stessa, contiene in sé la possibilità di una critica e di un’autocritica, non risultando una struttura che si vuole semplicemente imporre e auto-imporre. La critica principale in questa fase è invece spostata all’esterno della struttura linguistica, del discorso, perché diretta verso il potere della polis, il potere dello Stato e delle istituzioni e si viene a creare una coincidenza tra soggetto-linguaggio e verità. Emblema di tale coincidenza è rappresentato per Foucault dai cinici greci, il cui esempio pratico di esistenza dice e mostra la verità: il soggetto nella sua pratica di vita, afferma/dice e soprattutto mostra la sua verità, in questa “parresia”in cui la vita coincide con ciò che essa stessa è in grado di dire (e mostrare), coincide con la sua verità realizzando quel passaggio che permette al linguaggio di sgorgare dalla vita stessa.
Un punto di forza del libro di Iofrida e Melegari sta anche nel concludersi con la questione fondamentale su cosa possa significare oggi il pensiero di questo grande autore francese e su come possa proporsi una sua attualizzazione.
Prendendo la parola Stefano Berni individua alcuni “assi problematici”, o per meglio dire, che potrebbero aprire una interessante discussione, all’interno dell’opera dei due autori. Il primo di questi è la ricezione letteraria da parte del primo Foucault da cui sembra partire per costruire il suo progetto, secondo una tesi già portata avanti da Judith Revel, secondo cui già nel primo Foucault ci sarebbero le premesse per il secondo, per il terzo ecc... Come se tutta la sua ricerca fosse il risultato di qualcosa che già era in germe fin dalle prime fasi di analisi teorico-filosofica: la letteratura cioè come elemento che dà avvio al progetto foucaultiano di liberazione, di trasgressione, di rottura di un sistema, di creazione di un “soggetto rivoluzionario”, che si incarna proprio in coloro che non hanno voce, in quei folli che spingono il linguaggio oltre la sua struttura logico-discorsiva. In questa costruzione “libertaria” del soggetto si può scorgere, chiede Righetti, un accostamento a “Eros e civiltà” di Marcuse che parla di liberazione dei reietti, dei sotto-proletari? Altro punto critico è la dialettica/dicotomia tra ragione e sragione: qui si riconosce una trasposizione della contrapposizione nietzschiana tra dionisiaco e apollineo.
La cosa però che spicca è che non si può uscire dal logocentrismo, dalla sfera del linguaggio, nemmeno appunto dando parola ai reietti, ovvero dando parola a chi non ha parola, alla non parola. In Foucault, osserva Righetti, anche stando alla lettura che se ne fornisce nel libro, non si esce dal linguaggio, così da rendere verosimile la “critica” di strutturalismo a volte additata al pensiero foucaultiano. Così come pare verosimile la critica di Derrida sul fatto che anche nel tentativo di voler spingere il linguaggio al silenzio della follia, di volerlo perciò spingere oltre la ragione, in questa dialettica, appunto, tra ragione e s-ragione, non si può, di fatto, uscire dai presupposti del logos, della ragione di stampo cartesiano, che rimane paradigma di ogni follia, di ogni discostamento da ciò che non è riconoscibile come logos, come Cogito, che comunque rimangono termini di paragone, norme cui si contrappone per negazione ciò che in essi non ha posto. Il cogito si afferma tanto più laddove viene negato dal (non) discorso, dalla (non) voce del folle, che però per essere considerata come tale è proprio con quell’altra “follia” della ragione e della razionalità cartesiana che deve avere a che fare: “la separazione ragione/follia diventa la possibilità di far emergere il senso del Cogito, fino a riconoscerlo come un paradigma storico di razionalità: non si può parlare della follia se non in virtù di quest'altro tipo di follia che permette agli uomini di non essere folli e cioè in rapporto alla ragione”4.
Un altro nodo che Berni sviscera nel testo di Iofrida e Melegari è l’individuazione di Weber come fonte (implicita, dato che Foucault ha sempre ben tenuto nascoste le sue fonti) del pensiero foucaultiano (o per lo meno di una parte del suo pensiero), che, insieme a Marx rappresenterebbe un suo imprescindibile riferimento. Infine, conclude Berni, un altro punto interessante da affrontare sarebbe il problema della dialettica foucaultiana, questo “strano hegelismo”: Hegel è infatti presente nella ricerca di Foucault ma è un hegelismo mediato dal pensiero francese (soprattutto nel primo Foucault). Foucault non riesce a uscire da questa sorta di “panlinguismo”, da una specie di “ontologizzazione del linguaggio” a scapito della natura. È vero però che negli ultimi scritti è forte il passaggio a un discorso incentrato sul corpo, sul piacere, sulla carne, sulla natura (in una riscoperta della grecità) ravvisando in questo una rottura con il discorso della conoscenza, ma dall’altro lato si avverte nell’ultimo Foucault anche una riscoperta dell’illuminismo: vi è da un lato l’impossibilità di uscire dalla ragione ma dall’altro questo dinamismo continuo, questi movimenti vertiginosi della ragione stessa, danno vita a una sorta di illuminismo critico, a un criticismo verso una razionalità pura e che si auto-dispiega, autoreferenziale e auto-comprensiva, in quanto si tratta di una razionalità che è perennemente in fieri, costantemente in discussione con sé stessa e continuamente alla ricerca di se stessa.
A questo punto la parola passa ai due autori. Il primo a provare a rispondere o comunque a cogliere alcune delle sollecitazioni emerse durante le due introduzioni è Diego Melegari. Innanzitutto il giovane filosofo ammette che la lettura del pensiero foucaultiano affrontata nel libro vuole inserirsi e muoversi all’interno di un orizzonte storico-culturale e politico. Dando ragione all’interpretazione introduttiva di Righetti, anche Melegari riconosce che se si può scorgere un filo conduttore, una linea guida nel libro la si può individuare proprio in questo rapporto tra linguaggio-vita e linguaggio-istituzione, o, usando termini foucaultiani, tra verità-lampo (che è quella che mette in luce “ciò che fa un’epoca e al contempo la disfà”) e verità cielo (la verità con pretesa universale, che vuole dire l’essere delle cose)5. Ma, continua Melegari, lasciando emergere alcuni punti insolubili, o comunque critici, della ricerca foucaultiana, anche se la “verità, irrompe come un lampo, nelle maglie del potere”, la “deflagrazione” dell’esistente, del costituito e dell’istituito non porta però a nuovo esistente, a nuove istituzioni, a nuove collettività, a un nuovo “comune”. Parafrasando Baudelaire (che Foucault stesso legge) “il presente coglie l’eterno al suo interno” laddove qui l’eterno non è inteso come l’immutabile, bensì come qualcosa che continuamente apre varchi, che produce scarti, ma che rimane incastonato nel cuore stesso del presente. Per quanto riguarda la dialettica, Melegari sottolinea che nella “dialettica focucaultiana”, a differenza di quella hegeliana, il positivo e il negativo si danno allo stesso tempo senza che vi sia aufhebung, la conservazione e il “toglimento” (o superamento) di ciascuno dei momenti dialettici, per dirla in soldoni (e banalizzando molto). Non vi è contrapposizione ma appunto “convivenza” tra positivo e negativo, così che ad esempio il potere immediatamente costituisce soggettività e immediatamente produce disciplina; o così come immediatamente l’atto rivoluzionario della Rivoluzione francese libera i reietti della società e immediatamente si costituisce anch’esso come un dispositivo, un meccanismo disciplinante, o infine come il concetto di neoliberalismo che al contempo produce e consuma libertà, in una sorta di (solo apparente) paradosso. Se questo “valzer degli opposti” ha grandi meriti dal punto di vista epistemologico e di indagine teorico-filosofica può incorrere in grossi limiti dal punto di vista politico di costruzione appunto di altre collettività, di alternative politiche a quei sistemi e dispositivi disciplinanti e performativi rendendo anche difficile la collocazione politica dello stesso filosofo francese, tanto che qualcuno, in maniera alquanto strumentale, è arrivato a farne una sorta di difensore del neo-liberismo, poiché il filosofo francese sembrerebbe considerare questa visione politica meno burocratizzata e capace di offrire agli individui maggior autonomia e meno controllo disciplinato e disciplinante da parte dei dispositivi e degli apparati istituzionali e statuali.
Ritornando al tema del linguaggio Melegari ribadisce quanto il problema linguistico sia centrale e come anche il linguaggio usato dallo stesso Foucault cambi durante le sue fasi di ricerca, come si può evincere da “Archeologia del sapere” in cui il linguaggio stesso si fa archeologico, archivistico, ponendosi come una vera a propria auto-riflessione sui modi e i metodi di lettura (e di scrittura) dell’archivio. Si avverte qui un rapporto di quasi aderenza con i testi antichi per poi irrompere però con attualizzazioni radicali. Per quanto concerne il rapporto con Max Weber tirato in ballo dalle incalzanti suggestioni di Berni, Melegari afferma che in tanti passi dell’opera foucaultiana si evince il riferimento al sociologo tedesco, soprattutto perché Foucault individua nelle analisi di quest’ultimo una lettura del capitalismo diversa da quella marxiana, soprattutto nel rapporto tra capitale e forme istituzionali. Infine sul parallelismo con Marcuse il giovane studioso si trova poco d’accordo, soprattutto su un punto essenziale: in Foucault salta completamente la categoria di rivoluzione. Se della totalità del processo rivoluzionario rimane in Foucault l’atto rivoluzionario vero e proprio, l’atto di rottura, dello scontro, della lotta, la radicalità del momento della sollevazione, dell’irruzione, ciò che si perde è però il suo potere trasformativo, il processo trasformativo in sé, la potenzialità di una trasformazione globale che proviene della rivoluzione.
Prende infine la parola l’altro autore del libro, Manlio Iofrida, che per cominciare, si dice fiero dell’appellativo di storicismo affidato alla sua opera da Righetti. “La mia formazione”, afferma Iofrida “rappresenta una parte di metodo fondamentale di questo libro”. Lo storicismo, sebbene criticato da molti come approccio, per il professore bolognese ha invece il merito di mettere in luce anche l’elemento inconsapevole della storia: la storia non è fatta solo dagli uomini, dal motore della loro razionalità, ma vi è anche un fondo irriducibile di natura (si veda anche Shelling in questo), di passività. Iofrida si riconosce anche nell’analisi di Righetti sul rapporto tra vita-linguaggio come linea direttrice nell’itinerario, pur fatto di salti e di cambiamenti, foucaultiano e se c’è un passaggio al linguaggio analitico questo, più che riconducibile all’analisi di Russell sembra emanare più da quella di Wittgenstein sui giochi linguistici, sul linguaggio cioè che si apre all’ “extra-linguistico”. Rimangono certo nella ricerca di Foucault degli snodi non facilmente scioglibili: la vita è un aprirsi a, uno scambio con qualcosa di altro da sé o è piuttosto un continuo contrapporsi? A partire dagli anni ’70 ad esempio la vita diventa una semplice resistenza al potere e quindi, in questa passività la vita diventa essenzialmente afona. Iofrida parla, collegandosi a questo discorso sul potere, anche di “Sorvegliare e punire”, capolavoro storico-politico e filosofico sull’evoluzione e i sistemi del diritto penale, diritto che diventerà, nelle sue progressive sofisticazioni una delle matrici di verità della modernità occidentale: il diritto, avvalendosi della figura del testimone, dell’indagine, di tutto un compendio di prove oggettive, istituisce un dispositivo di verità “obiettiva”, producendo un sistema di meccanismi discorsivi che creano – creare inteso nel senso forte di strutturare, non nel senso di inganno fittizio – la verità. Il vero cambiamento avviene nel ’78 con “Sicurezza, territorio, popolazione”, in cui entra in crisi l’idea di pura lotta tipica degli anni ’70, concetto che il primo Foucault riprendeva dell’idea di vita come pura lotta di matrice deleuziana. Si assiste a una rottura anche quindi col pensiero di Deleuze, in particolare rispetto al concetto di vita come polemos e a un ritorno a Kant e all’illuminismo (per quanto, come detto sopra, a un “illuminismo critico”). In questa fase anche il potere governamentale non è più solo dispositivo di potere, di disciplinamento dei soggetti, di verità disciplinante ma diventa anche un aprirsi: il governo non è più mero dominio sugli individui ma si trova a dover rispettare e assecondare delle leggi, a dover rapportarsi, fenomenologicamente, con un’alterità da sé. Alla fine però, secondo Iofrida, riprendendo l’idea della convivenza tra positivo e negativo, è in ultima analisi il negativo a prevalere nel pensiero foucaultiano. C’è sempre un fondo di tragicità in Foucault, tragicità che si evince anche dall’uso che il filosofo francese fa di Nietzche, e che anche in questo, lo distanzia da Marcuse. Il Nietzsche di Foucault è il Nietzsche dell’“Origine della tragedia” - mentre in Marcuse c’è una vitalità tutta positiva - per poi passare al nietzschianesimo di “Geneaologia della morale” (dagli anni ’70), contro cioè l’idea metafisica di un’ archè, di un principio originario, di una sostanza prima, di un “ursprung” a favore invece dell’idea di un gioco perenne di forze (che starebbe anche all’origine della guerra) che generano i fenomeni dell’esistente.
1 https://mondodomani.org/dialegesthai/va02.htm
2 Ibidem
3 http://tysm.org/nuovo-fascismo-o-neoliberalismo-michel-foucault-e-laffaire-croissant/
4 Ibidem
5 S. Ferrando, Michel Foucault. La politica presa a rovescio. La pratica antica della verità nei corsi al Collège de France, FrancoAngeli, Milano 2012, cit., p. 119