Venerdì, 10 Novembre 2017 00:00

Attualizzare la Rivoluzione di Ottobre. Spunti per riattivare la filosofia della praxis

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Uno dei marxisti italiani più rigorosi, Antonio Labriola, nel 1897 definiva la filosofia della praxis riprendendo le Tesi su Feuerbach, in seguito Gramsci chiarì come «l’essere non poteva essere disgiunto dal pensare, l’uomo dalla natura, l’attività dalla materia, il soggetto dall’oggetto; e se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell’astrazione senza senso». Quindi, l’uomo stesso tramite questa filosofia viene concepito come una «serie di rapporti attivi (un processo)», tali che esso «non entra in rapporto colla natura semplicemente per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica» (Quaderni del Carcere). Ora quello che accadde durante la Rivoluzione d’Ottobre ce lo ha spiegato Gramsci attentamente ed è ben condensato nel suo articolo La Rivoluzione contro il Capitale (vedi qui), dal quale emerge come da questa filosofia sia necessario porre come «fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma la società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale». Solo così si può intervenire concretamente sulla Storia rivoltando i rapporti di forza esistenti, non subendoli più passivamente lasciandosi porre come subalterni rassegnati. In base a questa filosofia gli uomini infatti «comprendono i fatti economici e li giudicano e li adeguano alla loro volontà», in poche parole fanno la Storia anziché lasciarsi gettare dal dominio di classe nel tritacarne della Storia.

Quello che sta accadendo ad un secolo di distanza dalla Rivoluzione bolscevica è riassumibile in un ritiro delle masse dall’azione collettiva, in un ritorno all’individualismo più sfrenato determinato da una fase capitalistica in cui l’espansione ha lasciato spazio all’austerità e ci si ammazza sempre più volentieri per raccogliere due briciole in terra.
Il futuro non è certamente più roseo, basta dare una breve occhiata a ciò che ci aspetta come uomini in un sistema produttivo sempre più automatizzato e organizzato sulla massima produzione di plusvalore. La ridistribuzione della ricchezza viene cancellata e questo è il principio fondante dell’attuale epoca storica basata sull’austerità, il tardo capitalismo, dove tutto, anche la materia o l’essere più impensabile, inesorabilmente, diventa merce. La produzione di massa viene disarticolata da ormai oltre un trentennio, al fine di incrementare il plusvalore, ma con gravi rischi per il sostentamento di una massa di persone in crescita vertigionosa e con competenze tutt’altro che elevate. Non è un caso che il debito pubblico degli Stati cosiddetti “sviluppati” sia schizzato alle stelle proprio con il venir meno del fordismo, cioè per mantenere il tenore di vita raggiunto durante gli anni Settanta. La favoletta raccontata da chi dà la colpa ai baby pensionati la lasciamo a chi vuol crederci. La crisi di un sistema di welfare è ben più complessa della sola gestione pensionistica, tra l’altro concepita come un sistema assicurativo in cui c’è chi ha versato troppo poco e perciò bisogna far tirare le cuoia alle generazioni successive per colmare il buco. Detto questo, abbandonerei le ovvietà per concentrare l’analisi sul come intervenire sul presente per determinare una qualche forma di mutamento dello stato delle cose.

Il punto è che la tecnica è anche politica, dunque per modificare i sistemi produttivi, cosa che chiunque continui a dirsi socialista non può smettere di volere, è necessario entrare nella modifica dei processi sociali e di ridistribuzione.
Ce lo ricordava già Gramsci tra le righe del suo articolo citato in precedenza, quando diceva che il proletariato per migliorare le proprie condizioni avrebbe dovuto obbligare la borghesia «a migliorare la tecnica della produzione, a rendere più utile la produzione perché sia possibile il soddisfacimento dei suoi bisogni più urgenti». Qui la corsa affannosa verso «il meglio», non era una semplicistica quanto alienata rincorsa all’incremento della produttività, quanto piuttosto un «incremento alla somma dei beni che serviranno alla collettività». Il miglioramento qualitativo è determinato dall’uomo e non dalla tecnica che domina l’uomo intrappolandolo in una sorta di delirio isterico determinato dalla frenesia del produrre sempre più beni effimeri. Lelio Demichelis, nel suo ultimo saggio Sociologia e tecnica del capitalismo ricorre alla figura del Grande Inquisitore di F. Dostoevskij per spiegarci l’essenza del potere moderno mosso dal dominio della tecnica sull’uomo: «un potere che governa su uomini cui chiede obbedienza/adattamento, accettazione della realtà nella sua immodificabilità (pur essendo trasformista per natura e vocazione, il tecno-capitalismo non muta le sue strutture e la sua razionalità di fondo)».

Porsi il problema, mica da poco, di attualizzare la Rivoluzione d’Ottobre è anche e soprattutto fare i conti con questa mega-macchina che annichilisce sempre più l’uomo, pervadendone ogni rapporto e relazione nonché la sua stessa essenza. Senza mai dimenticare che, in questo modo di produzione, tutto questo viene fatto ad un unico scopo: accrescere il capitale. Questo accrescimento muove il sistema produttivo, non la ridistribuzione ed è precisamente per questo motivo che il capitale è in opposizione al lavoro. Le persone senza reddito e diritti hanno subito un continuo incremento con lo smantellamento del fordismo, mentre l’accumulazione capitalistica è avanzata a vele spiegate. Da questo si può ben capire come la liberazione da lavori ripetitivi e meccanici non sia divenuta automaticamente, spinta dalla mano invisibile di Smith della perfetta allocazione delle risorse, un miglior investimento del tempo libero su se stessi per accrescere la propria produttività in termini di valore aggiunto. Se questo meccanismo avesse funzionato anche solo in minima parte oggi non ci troveremmo di fronte ad ondate migratorie globali e all’implosione delle finanze pubbliche e private degli Stati a economia avanzata, in cui evidentemente i lavori creati dalla cosiddetta “terziarizzazione” non hanno nemmeno pareggiato i conti con la perdita di lavoro determinata dal venir meno del “lavoro vivo” negli altri settori.

Siamo invece di fronte ad un sistema autopoietico che emargina forza-lavoro e crea debito e finanziarizzazione pur di continuare ad esistere. Difficilmente imploderà su se stesso, per questo occorre abbandonare il più possibile la tentazione di abbracciare il crollismo. Occorre invece impegnare ogni sforzo intellettuale e pratico verso l’abbattimento di questo modo di produzione rivolgendosi alla creazione di un modo di produzione più umano. La Rivoluzione d’Ottobre ci ha insegnato che questo modo di produzione si può abbattere e che la creazione di un nuovo modo di produzione, per quanto imperfetto possa essere (lascio quindi da parte tutto il dibattito sulla NEP e le aperture al libero mercato in uno Stato socialista) è senz’altro preferibile al modo di produzione occidentale lasciato a se stesso.

Cent’anni dopo vale quindi ancora la pena seguire quella strada, da troppi superficialmente considerata vetusta, in quanto senza quella Rivoluzione che instaurò un nuovo modo di produzione nemmeno il benessere conosciuto dai nostri padri sarebbe esistito. Noi occidentali in economie avanzate finora abbiamo raccolto i risultati di quell’esperienza solo indirettamente e vivendo all’ombra di quell’episodio storico abbiamo lasciato che si continuasse a spingere sull’acceleratore della crescita dei profitti, accontentandoci della ridistribuzione che pian piano veniva ridotta dalle classi dominanti con l’allontanarsi sulla linea temporale da quella data storica. Oggi che il mondo sta decisamente virando verso altre centralità, quelle determinate dalle evoluzioni del modo di produzione asiatico, sarebbe almeno il caso che qualcuno dei più convinti nell’abiura del socialismo reale si facesse venire qualche dubbio, prima di essere definitivamente cancellato anche dalla Storia stessa che sta virando verso altri orizzonti geopolitici. Quanto a chi continua a professare gli ideali della Rivoluzione bolscevica è il caso di guardare con disincanto negli occhi chi continua a voler intestardirsi sul mercato lasciato a se stesso come fattore di progresso per l’umanità. Esiste un mondo fuori dall’Occidente e in gran parte ha più futuro di noi in quanto basato su un modo di produzione non puramente capitalistico.

Immagine da http://cultura.biografieonline.it

Ultima modifica il Giovedì, 09 Novembre 2017 15:36
Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.

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