Domenica, 09 Giugno 2013 23:13

Ulrich Beck: di Europa e catastrofi

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Tra le varie figure di prestigio che in questi giorni abbiamo avuto l'onore di ospitare nella nostra Firenze in occasione dell'evento organizzato da Repubblica – La Repubblica delle idee - è stato presente anche Ulrich Beck, noto sociologo tedesco, famoso soprattutto per il suo concetto di rischio globale e che ha analizzato la crisi dell'euro, non senza posizioni piuttosto critiche nei confronti del suo governo e delle decisioni della cancelliera Merkel.

Sotto il magnifico soffitto del Salone dei Cinquecento di Palazzo della Signoria, il sociologo, cadenzato dagli interventi, le domande e le riflessioni di Riccardo Stagliano, giornalista di Repubblica e Wlodek Goldkorn, di origine polacca e responsabile culturale de L'Espresso, ha provato a delineare e approfondire il lato socio - culturale del fenomeno della globalizzazione.

La nostra è una società del rischio, ha esordito Staglianò, viviamo in un momento in balia di catastrofi, intesi in tutte le possibili accezioni: incidenti nucleari, riscaldamento globale, e, ovviamente, crisi finanziaria. La parola che più è risuonata, insieme al nome del nostro Machiavelli (pronunciato dal sociologo con sempre molta cautela), è stata cosmopolitismo. Questa, secondo Beck, può essere la miglior risposta, la soluzione più adeguata ai problemi che la nostra società, la nostra economia, la nostra politica, la nostra cultura e persino il nostro vissuto quotidiano stanno vivendo. La prima questione che il giornalista di Repubblica pone all'ospite verte sul fatto che in la Budensbank tedesca decide sul destino della Grecia, decisione che nell'ultimo libro di Beck, “Europa tedesca”, non viene accolta molto positivamente.

Secondo il sociologo tedesco oggi stanno accadendo cose che anche solo fino a qualche settimana fa sembravano inimmaginabili. Il fatto che i tedeschi, continua, prendano decisioni sulle sorti di un altro paese, compromette la democrazia europea. Negli ultimi 10/20 anni assistiamo a eventi di portata mondiale (si pensi all'attacco alle Torri Gemelle del settembre 2001, a Fukushima, alla crisi attuale..) che poco prima era impensabile accadessero, non rientravano nelle nostre previsioni future. I nostri concetti non bastano più a far fronte a queste “catastrofi”, non riescono a star dietro ad una realtà che è in continua trasformazione. La maggior parte dei teorici e sociologi dicono che stiamo vivendo un'epoca di radicale cambiamento di ordine politico e sociale, che i concetti di cui disponiamo non riescono a catturare, a cogliere. L'Europa in cui viviamo si è già trasformata, assistiamo a uno slittamento di potere notevole – sebbene i tedeschi non amino usare la parola power, bensì prediligono responsabilità – e a divisioni cui non eravamo abituati. La prima dicotomia che si è sviluppata durante la crisi europea è stata tra paesi che hanno l'euro e quelli che non l'hanno, a cui si è aggiunta però un'altra, più drammatica scissione, ovvero quella tra paesi che prestano soldi ad altri paesi e quelli che questo denaro lo ricevono. C'è un ribaltamento di logiche economico-politiche-diplomatiche che produce sempre maggiori diseguaglianze. Oggi la Germania ha assunto la suprema posizione di potere, è ormai il paese europeo più importante dal punto di vista del piano economico. Eppure il suo è un impero “casuale”: non si è imposto militarmente o con qualche atto di forza, non è stato pianificato, è semplicemente accaduto. E basta. La Merkel ha saputo prendere in mano la situazione (e non necessariamente in maniera positiva, anzi) e ha creato una sorta di nuovo stile politico che adesso detta le regole a (quasi) tutti i paesi dell'eurozona, e plasma le loro economie. Ha diffuso o imposto un modello cui si sono accodati tutti gli altri paesi. Il suo, provoca Beck, è uno stile politico misto di Machiavelli e Machiavelli.

Di fronte a questa realtà che si sta trasformando a una velocità incontrollata e incontrollabile, che trascende la nostra capacità di analisi, di comprensione, che va al al di là dei nostri concetti e delle nostre istituzioni, quello che dobbiamo cominciare a domandarci è: perché l'Europa? Qual'è il suo significato nel nostro secolo?
La crisi che l'Europa sta attraversando, tende a sottolineare il sociologo, non è economica, o per lo meno non soltanto, ma è soprattutto politica. Osserviamo che le decisioni politiche che vengono prese non sono più decisioni pubbliche, ma economiche e finanziare. Stiamo lasciando l'Europa in mano agli economisti e non sappiamo come riappropriarcene.
Staglianò, approfittando della citazione di Machiavelli da parte del tedesco, evidenzia che dobbiamo comunque tener ben presenti le circostanze e il contesto politico-sociale entro i quali il noto fiorentino scriveva e ai fatti a cui aveva assistito che hanno condizionato la sua riflessione storico- politica – la discesa dei francesi in Italia, percepita, a causa della loro inaudita violenza come qualcosa di apocalittico, al fallimento del modello “teocratico” di Savonarola e alla conseguente nascita di nuova idea di politica – di fronte a tutto questo, prosegue il giornalista, la cancelliera appare una politica “standard”, normale, e per di più abbastanza miope, dato che la sua idea di politica percorre un binario corto, che va dalle elezioni alle elezioni, senza intravedere più in là di questo breve periodo, una politica incapace di pianificare reali e concrete previsioni o strategie per il futuro e soggiogata anch'essa dal potere economico e finanziario. Dunque che cos'è la politica oggi in Europa?

Beck si trova concorde sull'osservazione di Staglianò, riguardo Machiavelli e la differenza abissale che lo separa dalla Merkel, lasciando il fatto che poi oggi non ci sono grandi pensatori politici del calibro dello scrittore fiorentino il quale ha sviluppato una nuova logica di potere e una distinzione tra questa e l'azione pratica. Tuttavia qualche somiglianza con la Germania esiste. C'è un simile fragile ordine che non appena lo si supera rischia di rompersi.
Oggi l'idea dell'Europa del XIX secolo si sta sgretolando, il capitalismo è simile – Max Weber diceva che possono esistere insieme capitalismo e “Stato Nazione” - ma anch'esso oggi si sta modificando e svincolando dai giochi di potere, diventando sempre più autonomo. A tutto questo, si rammarica Beck, non c'è una reale risposta di teoria politica, perciò dobbiamo reinventare una nuova idea di politica in termini europei. Bisogna cercare di riprendere in mano la politica europea. Non c'è bisogno di più Europa, ma c'è bisogno di un'altra Europa. Un'Europa che dia risposte all'insicurezza sociale, all'incertezza della popolazione, dato che ancora non abbiamo un' “Europa sociale”; un'Europa dei lavoratori.

Wlodek Goldkorn interviene citando Carl Schmitt, secondo cui per poter scolpire la propria identità nazionale abbiamo bisogno di nemici, e in mancanza di questi, inventarne di nuovi. Oggi, i nostri nemici, purtroppo sono diventati gli stranieri, gli immigrati, le minoranze etniche, religiose o sessuali, che diventano il capro espiatorio di una società che non sapendo come rialzarsi e in preda ad angosce e timori tende a schiacciare le sue frustrazioni e le sue paure sul più debole, su quelli che vengono considerati relitti, residui o rifiuti da , allontanare o eliminare per sentirsi più forti e al sicuro. Cosa si può fare allora per disinnescare queste paure ed impedire che movimenti xenofbi , ipernazionalisti , simil-fascisti, o neo-nazisti (si pensi al caso di Alba Dorata), approfittando del momento di incertezza e insicurezza globale prendano il sopravvento, canalizzando la paura nella paura del diverso, dell'altro?
La risposta di Beck è chiara e netta: non abbiamo bisogno di un Europa pensata nella categoria amici/nemici. È vero che l'Europa è soggetta a malintesi, nel suo modo di esser percepita. Non c'è un'unità territoriale ma un generale processo di cambiamento che coinvolge, bene o male, tutti i suoi paesi membri e non solo. C'è un sistema di Stati-nazione con politiche giuridiche coordinate ma non c'è bisogno di uno “Stato- Nazione” allargato, unico e magari assolutistico che si ovatta in sé stesso e considera nemici tutti coloro che stanno fuori ad esso. Dopo la II Guerra Mondiale abbiamo assistito a una specie di quasi miracolo: l'Europa è stato l'unico esempio ad aver dimostrato che coloro che poco prima erano stato i nemici sono diventati i nostri vicini di casa. È vero che poi ci rendiamo conto che questi vicini non sono poi così vicini, nel senso che non li conosciamo bene, li e ci ammantano di pregiudizi, stereotipi ecc.. ma tutto questo non deve indurci a creare dei nuovi nemici, a rinchiudersi nelle intolleranze, nel 'prepotente ed escludente individualismo e nelle celle più o meno dorate dei nostri nazionalismi o dei nostri preconcetti.

Goldkorn riprende la parola citando stavolta la famosa scrittrice e giornalista Naomi Klein, la quale durante una conferenza a Francoforte aveva affermato che l'Europa è una sorta di mostro, una fortezza infrangibile che ha innalzato alte mura per coltivare l'illusione (ingenua) del proprio benessere, minacciato dalla paura dell'altro che sta fuori. Che cos'è davvero l'Europa, chiede il giornalista de L'Espresso, è davvero un grande mostro corazzato o invece ha successo proprio in quel tipo di forma contraria, in quella sorta di “camaleontismo”, per cui non le definizioni e le divisioni (etniche, sociali, religiose, nazionali..) scompaiono e non fa perciò differenza sapere se si è francesi o tedeschi, in quanto tutti cittadini europei? Questo cosmopolitismo è qualcosa di realmente effettivo e concreto o si tratta di un'ingenua utopia?
Beck risponde premettendo che c'è una forte distinzione tra cosmopolitismo e universalismo – molto più collegabile ai nazionalismi di vario tipo. Un esempio di universalismo potrebbe essere l'attuale politica di austerità: i tedeschi pensano questo tipo di politica economica come una soluzione universale che tutti i paesi dovrebbero applicare; secondo il sociologo tale prospettiva universalizzante da parte del popolo tedesco proviene dalla sua tradizione, dallo spirito del protestantesimo – e dalla riflessione in proposito attuata da Max Weber. Quando però si tende a universalizzare un'esperienza storica ben precisa non si produce un fruttuoso cosmopolitismo, ma comporta che ogni paese si veda con gli occhi di un un altro, che in qualche modo ha “imposto” la propria visione, ha prestato le sue lenti a tutti gli altri, ed è attraverso di queste che essi guardano al mondo e ai suoi problemi. In un certo senso la metafora di Klein dell'Europa-fortezza è vera, ma non c'è solo questo. Bisogna distinguere tra istituzioni europee – l'Europa di Bruxelles, tanto per intenderci – e l'Europa che sperimentiamo realmente nei nostri vissuti: cambiamo nazionalità, ci trasferiamo in altri paesi, gli studenti vanno a studiare all'estero grazie a programmi Erasmus e simili, fanno là esperienze lavorative, o vi si stabiliscono, attraversiamo le frontiere, ci confrontiamo con diverse culture, ci incontriamo con l'alterità dell'altro, ospitiamo (per modo di dire in molti casi) cittadini da altri paesi che arricchiscono il nostro territorio con la loro cultura, le loro esperienze e il loro lavoro.. insomma viviamo anche un aspetto multiculturale e in un certo cosmopolita dell'idea di Europa. Al centro di questo tipo di vissuti c'è un'idea di essa che non è quella dello Stato – Nazione, ma un'idea più libera, aperta, interculturale, “internazionale”. Si aprono brecce e finestre anche in questa grande fortezza murata. Ed è questa l'esperienza positiva dell'Europa, è così che possiamo viverla, benché nello stesso tempo molti di noi (soprattutto oggi) la concepiscano come un mostro maligno e pericoloso, ma questo perché ci concentriamo, forse, su una critica ad essa dal solo punto di vista nazionale, che però non ci porta da nessuna parte.

Stagliano subentra nella discussione riportando la provocazione dell'economista Geroge Soros, il quale incita la Germania a liberarsi del fardello dello schuld – che in tedesco veste la doppia accezione di debito ma anche di colpa – e accettare gli eurobond, o che altrimenti se ne esca lei dall'Eurozona (“I tedeschi non comprendono che accettare gli eurobond sarebbe molto meno rischioso e costoso che continuare a fare solo il minimo indispensabile per preservare l'euro.
La Germania ha diritto di rifiutare gli eurobond, ma non di impedire che i Paesi altamente indebitati sfuggano alla loro disgrazia aggregandosi ed emettendo eurobond. Se la Germania si oppone, dovrebbe valutare l'idea di lasciare l'euro” ). Apprezzando sorridente questa provocatoria – ma, dice, abbiamo bisogno di provocazioni e anche di idee che appiano assurde! – proposta, ribadisce poi che l'Europa deve prendere una decisione storica. Una di queste può esser rappresentata dalle prossime elezioni di settembre in Germania, l'altra dalle elezioni europee del maggio prossimo. Riguardo la posizione che dovrebbe assumere la nazione tedesca, il sociologo prende a prestito le parole del grande scrittore Thomas Mann, il quale tornando dall'America nella sua terra patria disse che "non avevamo bisogno di un'Europa tedesca, un'Europa resa fascista dalla Germania, bensì l'esatto contrario, una Germania che diventasse Europea". Nelle elezioni di settembre questo sarà un punto decisivo: vogliamo davvero un'Europa più tedesca – come la Merkel pare desiderare fortemente – o una Germania più europea? Dobbiamo capire che il vero nemico delle nazioni europee è il vecchio nazionalismo, perché nessuno ormai può pensare di poter avanti da solo. Una Germania europea comporterebbe da una parte, un reale cosmopolitismo, dall'altra un pensare al bene comune dell'Europa che aumenterebbe le possibilità di risolvere le sfide internazionali, in direzione di una combinazione di Europa e interessi dei singoli stati nazionali.

Avviandosi verso la conclusione, Goldkorn riferisce l'idea di Giorgio Agamben – ripresa da un filosofo francese-russo – di un possibile “impero Ladino” (che comprenda perciò Italia, Francia, Spagna, e anche la Grecia), idea che a Beck appare pazza. Non si può pensare un regno di questo genere, è un modo per impiantare il passato nel futuro, costruire quest'ultimo partendo da un passato di gran lunga superato. Inoltre l'insieme di catastrofi cui assistiamo ha fatto sì che gli interessi di ciascun paese diventino interessi comuni, al di là di ogni frontiera, si pensi solo all'interesse della mera sopravvivenza! E queste catastrofi o questi rischi globali (che di esse sono le anticipazioni) si possono superare soltanto attraverso una logica di cooperazione e non attraverso una logica di paura e chiusura. L'imperativo della collaborazione deve diventare il principio di una “legislazione universale”, la kantiana massima del nostro agire, pena il fallimento di tutti, prima o poi. Il concetto di rischio è un concetto diverso da quello di guerra o crisi. Riguarda l'emergere di nuovi bisogni, lo sviluppo di una nuova logica politico-sociale. Un esempio che può andare verso un tentativo di cosmopolitismo è il manifesto di un “servizio civile europeo” che Beck ed altri pensatori hanno proposto, pubblicato su Repubblica qualche giorno fa. Un anno di volontariato in un qualsiasi paese europeo potrebbe essere un modo per fare davvero l'Europa e non solo di parlarne. Potrebbe creare identificazione e partecipazione dal basso. L'individuo potrebbe sentirsi parte di un'Europa che non sarebbe solo quella che è decisa dall'alto, dalle élites governative, economiche e finanziare, ma un Europa democratica nel senso etimologico del demos , del popolo, da vivere e toccare con mano.

L'ultima questione su cui Goldkorn invita il sociologo a riflettere è quella del progresso: secondo molti pensatori, da Benjamin, alla Arendt, fino ad arrivare al contemporaneo Zygmut Bauman, di fronte al turbinio impazzito di catastrofi – di ogni tipo, planetarie, atmosferiche, finanziarie, di guerra.. - il progresso non esiste o anzi, ha soltanto nuociuto all'umanità. Essi rigettano il mito del progresso. A parere di Beck invece esso rimane una categoria ancora valida e ammette di conservare ancora una certa fiducia nell'umanità. Per quanto adori e sia amico di Bauman, il sociologo tedesco, individua due errori nel suo pensiero: il primo è quello di fare dei due termini catastrofe e rischio due sinonimi. Il rischio non è la catastrofe, ma la sua anticipazione, che permette di provare ad agire e non solo a re-agire (tra l'altro, il più delle volte solo passivamente) quando è troppo tardi, consente di aprire le nostre menti e trovare alternative a una modernità che non ci va così bene, a una modernità che non sappiamo controllare e che ci sta travolgendo annullando, conformizzando, annichilendo, schiacciando. Il rischio globale è la forza più importante di mobilitazione del XXI secolo, è un'apertura alle alternative. Nelle condizioni di anticipazione delle catastrofi si generano nuove possibilità, di opportunità che rientrino in quella che oggi potremmo chiamare l' “etica del mai più”: non possiamo cancellare il passato ma possiamo far sì che il passato non si ripeta e non ritorni con la sua ondata di sangue e violenza, è un'etica che proviene dall'esperienza degli stermini, dei genocidi, delle stragi, dei cataclismi, dei disastri ambientali ecc... L'altro errore che Bauman commette, a detta di Beck è la sua convinta previsione del futuro, ovviamente nerissima. Anche il sociologo tedesco non brilla di ottimismo ma si lascia il beneficio del dubbio: noi il futuro non lo conosciamo, non posiamo conoscerlo, a maggior ragione in quest'epoca di totale incertezza, che non è detto non possa però produrre anche qualche novità positiva. Però il futuro possiamo crearlo, agire su di esso, cominciando a prendere coscienza che siamo in una “società del rischio” e che per salvarci dobbiamo cominciare a prevenire e anticipare le catastrofi prima che queste continuino ad accadere lasciandoci impreparati, e in molti dei casi colpevoli, per non aver fatto niente per aver cercato di impedirle.

Immagine tratta da: www.acc.english.ucsb.edu

Ultima modifica il Domenica, 09 Giugno 2013 23:45
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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