Dopo un primo quadro in cui viene dipinta la quotidianità della filosofa, nella sua casa a New York circondata dall’affetto degli amici – Mary, Charlotte, Hans Jonas, l’amico ebreo Kurt.. – dell’adorabile e devoto marito Heinrich, premuroso e ironico, della fedele e sempre presente domestica Lotte, il film si sposta a Gerusalemme, dove Hannah si reca per assistere al processo del nazista Adolf Eichmann, di cui dovrà redigere un articolo per il giornale “New Yorker”.
Adolf Eichmann, catturato in un sobborgo di Buenos Aires nel 1960 e trasportato a Gerusalemme nove giorni dopo, condotto di fronte al Tribunale distrettuale (di Gerusalemme) un anno dopo per rispondere di quindici imputazioni, “avendo commesso, in concorso con altri crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare sotto la seconda guerra mondiale” (H. Arendt, La banalità del male).
Qui la regista virtuositicamente alterna scene di finzione con quelle reali del processo, nelle quali si vede questo piccolo e insignificante ometto “di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie […]” che dentro la sua “gabbia di vetro” se ne starà “con lo scarno collo incurvato sul banco e disperatamente cercherà di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che di certo lo affligge da molto tempo” (“La banalità del male”).
Il ritratto che ne emerge è proprio quello di un “signor nessuno”, come dirà più volte Hannah parlando di lui, che ha commesso quei crimini, non perché mosso da “passioni umane” o da un feroce antisemitismo, ma perché “semplicemente” ubbidiva a degli ordini. Era un burocrate, scriverà la Arendt nel suo “reportage”. Non perché spinto dall’odio quell’uomo caricava gli ebrei sui treni per condurli verso i campi di concentramento, ma perché “così gli era stato detto di fare”, perché doveva prestar fede al giuramento verso Hitler e la patria tedesca.
È questo a sconvolgere la filosofa, attenta non tanto all’efferatezza delle sua orrende azioni, quanto alle radici misteriosi e incomprensibili che si annidano dentro quel male così assoluto. Un male assoluto, mai visto prima, non è stato commesso da un essere demoniaco, da un genio della perfidia e della malvagità, ma da un uomo qualunque, maledettamente normale, come se ne vedono tanti, così assurdamente banale. Il crimine più grande dei nostri tempi, che in una logica comune avrebbe forse dovuto incarnarsi negli individui più abominevoli e spinti dalle motivazioni più atroci si incarnava invece nella “scioccante mediocrità” di uomini-nessuno, di uomini “normali”, che avevano agito per seguire degli ordini.
I crimini contro l’umanità – perché, dichiara Hannah nel film, rispondendo a una studentessa “gli ebrei sono esseri umani, un crimine contro di loro è di fatto e per definizione un crimine contro l’umanità” – erano stati perpetrati da uomini che hanno annullato la peculiarità del loro essere umani, ovvero la capacità di pensare.
In questa lucida analisi non c’è traccia di semplificazione né volontà di sminuire le azioni compiute, ma di ragionare, sul male e sull’essere umano che le ha compiute. Eichmann aveva compiuto ciò che aveva compiuto perché “he’s was inable to thinking”, ripete più volte la Arendt nel film. Ha sacrificato il suo pensiero – se mai, aggiungo io, poteva averne uno – al giuramento solenne fatto alla “causa” del nazismo, ha distrutto la radice del suo essere uomo, caratterizzata in prima istanza dalla facoltà del pensiero. Ha smesso di pensare, ha abortito la sua coscienza e il suo essere uomo e quindi di conseguenza la possibilità di discernere il giusto dallo sbagliato, il male dal bene. L’abolizione di sé stesso in quanto “essere pensante” ha abolito anche la sua coscienza morale, si è disumanizzato. Si è votato al non-senso di una coscienza svuotata, se mai ne ha avuta una.
Su questo verterà la sottile analisi del male nelle pagine che la Arendt scrive per il “New Yorker”, una volta tornata in America – e che confluiranno poi nel noto La banalità del male. È qui che presto la donna si troverà travolta, dopo la pubblicazione dei primi 5 articoli, da un vortice di critiche e calunnie, da accuse feroci e violente, da parte della comunità ebraica.
La filosofa si ritroverà completamente sola – se escludiamo l’amato marito e le fedeli Lotte e Mary – in mezzo a un bombardamento di parole acuminate come lame di coltelli. L’accusa è di aver tradito il popolo ebraico, proprio lei, ebrea che rischiava di morire in un campo di concentramento se non fosse riuscita a scappare, di aver giustificato o quasi perdonato implicitamente un brutale assassino, un criminale di guerra e oltretutto di aver scaricato la colpa sugli ebrei, per aver scritto che molti capi del popolo ebraico si erano resi conniventi con i nazisti. Eppure la donna ribadisce che non c’è giudizio in questa affermazione, venuta più volte fuori durante il processo, ma che è semplicemente un dato di fatto. Né tantomeno c’è volontà di perdono o di giustificazione del male commesso da Eichmann e da quelli come lui, ma cruda e nuda volontà di capire. Perché pensare significa questo. Troppo facile commiserarsi o crogiolarsi dentro il dolore, la cosa difficile è invece guardare in faccia quel male che lei, che una parte del genere umano – Ebrei, Rom, prigionieri politici, omosessuali, Sinti, handicappati.. – ha subito. Guardarlo in faccia e cercare di sviscerarlo, non comprenderlo, non perdonarlo, ma capire cosa può aver spinto l’essere umano a commettere gli orrori più grandi contro altri esseri umani.
“Quando sono uscito dai campi di concentramento, ho provato la vergogna di essere uomo”, aveva detto Primo Levi. E questa vergogna ci riguarda tutti, perché è la vergogna della nostra mediocrità, della rinuncia a ciò che ci rende umani, la rinuncia al pensiero. La Arendt non fa altro che rendere merito a quella sua straordinaria intelligenza, all’esercizio del suo pensiero, a quel suo dono di analizzare e cercare di vedere cosa si nasconda dentro e dietro al male, male che può essere solo estremo, “non profondo e radicale. Radicale e profondo è solo l’amore”, dice Hannah in una scena del film.
In questa “battaglia” silenziosa però è sola, e lei stessa se la vive in un muto dolore mai espresso, mai gridato, mai esplicitato in pianti o sfoghi. L’imperturbabile e apparente freddezza della filosofa – resa benissimo dallo sguardo algido ma malinconico della Sukova – nasconde sentimenti umanamente fragili, per quanto accuratamente rimossi, ostentatamente nascosti che forse lasciano intuire il conflitto tra la filosofa “tutta intelligenza e niente emozioni” determinata e risoluta nella sua consapevolezza di aver ragione contro il mondo che la assale e la donna, preda di sofferenza e passioni, che nella propria solitudine si lascia andare ai ricordi di gioventù, all’amore tra lei e il “maestro” Heidegger, uomo tanto ammirato e amato fino alle dichiarazioni antisemite da lui espresse. Anche quest’amore, però sembra non volersi concedere, l’inafferrabile Hannah, l’impenetrabile Hannah: “non si può amare un singolo uomo”, dice all’amica Mary quando questa le chiede se Heidegger fosse l’amore della sua vita; affermazione che forse un po’stride con quella fatta a Kurt quando questi, in punto di morte le chiede come mai non ami gli ebrei, il suo popolo: “io amo i miei amici”, risponde Hannah, “è l’unico tipo di amore di cui sono capace”. Sembra una frase molto banale, ma forse fa capire quanto la Arendt fosse libera da etichette, pregiudizi, “universali” e concetti troppo generali.
“Qui si devono giudicare la sue [di Eichmann] azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità e neppure l’anisemitismo e il razzismo”, si legge nel primo capitolo de La banalità del male. Il male fatto da un uomo può far capire quello che si cela nel male commesso da un intero popolo, e spesso è il male, forse ancora più spaventoso perché imprevedibile e imprevisto, commesso da persone comuni, squallidamente mediocri e non di diavoli che ce l’hanno scritto in faccia di essere tali.
Le reazioni violente che piovono sulla donna – anche da parte di Hans Jonas – lasciano intravedere una totale cecità, che non coglie l’intento della filosofa, la sua volontà di dare una spiegazione di un male così immenso, che si limitano ad accusare, senza capire. E sono le stesse reazioni che spesso ancora oggi ricevono coloro che non fanno in tempo a denunciare la crudeltà e l’ingiustizia di Israele nei confronti del popolo palestinese che subito vengono accusati di antisemitismo.
Probabilmente se si può cogliere un messaggio dal film è proprio quello di imparare o esercitarsi a usare la propria testa, la propria facoltà di pensiero. Messaggio ancora estremamente attuale, che mi riporta ai casi così frequenti di forze dell’ordine che massacrano gratuitamente altri esseri umani semplicemente perché stanno obbedendo a degli ordini, perché stanno “facendo il loro dovere”. Eichmann, altri come lui, pure stavano facendo il loro dovere. Ma il dovere di un essere umano è pensare con la propria testa, non diventare una macchina da guerra. Hannah Arendt ha pensato con la propria testa ed è solo grazie a questo coraggioso “atto umano” che ha potuto smascherare, dietro il male più atroce e assoluto, la sua miserabile “banalità”.