Quando è nato il festival e qual è la sua storia?
La prima edizione è stata quella del 2004. Ma l’Indie in embrione era già presente in Cine 222, che era una sala cinematografica in cui si faceva una programmazione regolare e alcuni programmi tematici su autori contemporanei. Si era creato un pubblico che veniva a vedere film che non si trovavano né tramite la distribuzione ufficiale e neanche nella Cinemateca portuguesa. Questo pubblico passò ad essere il pubblico della prima edizione dell’Indie. La prima edizione fu organizzata al cinema São Jorge, che nel 2004 era una sala morta, dove nessuno pensava che potesse succedere niente. Questo oggi sembra strano perché molti festival si svolgono proprio al São Jorge, che ora è uno dei cinema più attivi della città.
Sono passati 10 anni, e quella di quest’anno è stata l’undicesima edizione. Qual è il bilancio che si può fare di questi anni?
L’IndieLisboa a partire dalla prima edizione ha avuto un processo di crescita e di consolidazione, il pubblico è cresciuto sempre fino al 2008 e poi si è stabilizzato. Il festival è nato per coprire delle lacune che erano molto evidenti. Una cosa analoga è avvenuta con il DocLisboa, il festival dei documentari di Lisbona, per esempio, la cui prima edizione è dello stesso anno di quella dell’Indie. Non c’erano documentari né mostre di corti a Lisbona. C’erano autori che non erano mai stati proposti in Portogallo, non era mai stato proiettato un film per esempio di Claire Simon o di Claire Denis, i film asiatici erano sottorappresentati, tutte queste cose ancora dovevano arrivare, e abbiamo voluto mostrarle, per riempire un vuoto che penso che per certi aspetti esiste ancora, anche se la situazione ora è un po’ migliorata. All’epoca per esempio non c’erano dei distributori di cinema d’autore come Alambique Filmes o come Midas Filmes, c’erano le sale commerciali da un lato e il produttore Paulo Branco dall’altro. C’erano degli ottimi festival tematici, come il festival dei corti di Vila do Conde ma non ce n’era uno generalista, come il nostro.
Come è organizzato il vostro lavoro?
L’IndieLisboa è innanzitutto un festival di programmatori, il cui nucleo è formato da tre persone con percorsi diversi ma sono appunto programmatori e non persone legate agli aspetti commerciali del cinema. Ed è un nucleo che lavora tutto l’anno, non è un festival che si monta e smonta in alcuni mesi.
Come si è svolto il processo di selezione dei film presentati nell’ultima edizione?
Oggi a Lisbona c’è un contesto molto competitivo, ci sono diversi festival ed è più difficile, mentre dieci anni fa era diverso, nessuno voleva mostrare i film che mostravamo noi. La sfida pertanto è stata quelle di fare un buon ritratto dell’anno cinematografico ma farlo con film tutti inediti in Portogallo, e non film che hanno già distributori portoghesi.
Noi riceviamo iscrizioni durante tutto l’anno, quest’anno abbiamo visto 4 mila film iscritti e ne abbiamo scelto 230. Questo è il grosso del lavoro, ci sono 7-8 mesi in cui bisogna stare a vedere film tutti i giorni e fare questo processo di selezione, che è composto di varie fasi. C’è un primo filtro e poi si inizia una discussione in cui cerchiamo di capire tendenze, movimenti, idee di cinema, e si cerca di fare in modo che tutti i film abbiano a che vedere l’uno con l’altro. E ogni anno emerge un’idea nuova. Nell’ultima edizione c’è stata la voglia di rompere con alcuni abiti e routine. La difficoltà era quella di non avere film più risonanti, che sono passati in altri posti, ma la sfida era trovare altri film che in qualche modo sono stati contrastati e impediti dalla presenza dei film e degli autori più conosciuti. Abbiamo quindi scommesso su film più imperfetti e più modesti, ma che sono forse più stimolanti, più di ricerca, che ci pongono più domande. Sono stato molto contento della selezione finale, perché siamo usciti un po’ dall’area dove ci sentivamo più a nostro agio, è stata una sfida con noi stessi.
C’è crisi nel cinema oggi in Portogallo? La crisi vi riguarda lo stesso o non vi investe in quanto festival di cinema indipendente?
Sono due anni che non c’è appoggio pubblico al cinema in Portogallo. Dieci anni fa però, quando abbiamo cominciato, non c’era crisi e c’erano molti meno film portoghesi: è un processo contraddittorio perché il cinema in crisi è il cinema che riceve finanziamenti, i quali passano per processi di selezione molto lunghi, che sono a volte poco stimolanti per la creatività degli autori, anzi la soffocano. Molte volte i film che ricevono i finanziamenti sono film già morti. Io preferisco – e il festival va in questa direzione – i film fatti al margine del sistema di finanziamento.
La crisi, in definitiva, è economica e finanziaria ma non è una crisi di talento e di idee. Mancano soldi per finanziare Manuel De Oliveira, Miguel Gomes eccetera, che sono autori che sono su un altro piano e hanno bisogno di finanziamenti maggiori altrimenti non potrebbero fare il tipo di cinema che fanno. Per gli altri, c’è una eccessiva concentrazione dei finanziamenti, che sarebbe meglio fossero divisi per più progetti. Si continua ad appoggiare pochi film con molti soldi e poi ci vogliono 3 o 4 anni per erogare i finanziamenti, e accade che da quando nasce l’idea del film a quando è realizzato e a volte gli autori già non vorrebbero fare più quel film, vorrebbero fare magari già un altro film. Ci sono cineasti che sono sempre con un film di ritardo, non fanno il film che vogliono fare in quel momento ma quello che volevano fare qualche anno prima!
Che cosa può cambiare questo stato di cose? In che modo l’IndieLisboa contribuisce a un possibile cambiamento?
Questo sistema di finanziamento ha creato una forma di riproduzione omogenea e impedito un rinnovamento. È ottimo che in un paese come il Portogallo ci siano Miguel Gomes, Pedro Costa, João Pedro Rodrigues, ma sarebbe bello anche se il Portogallo fosse quello che sono state l’Argentina o la Romania nella decade 2000-2010. Cioè una periferia in cui succedono delle cose, ai margini. Nel 2004 questo non succedeva, allora non c’era questo margine, che è molto importante per il cinema, e penso che l’Indie aiuta un po’ a far sì che questo, ora, cominci a succedere. Gabriel Abrantes ad esempio è un “figlio” dell’IndieLisboa. Fino a un anno fa non aveva mai avuto un finanziamento e questo non gli ha impedito di essere presente in competizioni come Locarno o Venezia. Gabriel Abrantes è un fenomeno che sarebbe stato impossibile 10 anni fa e ora ne stanno comparendo altri, la sezione dei corti dell’Indie è un esempio di questo.
Oggi con una piccola telecamera digitale un ragazzo può filmare e montare e penso che questo fenomeno il potere che è dentro al cinema non lo abbia ancora capito bene. C’è una specie di lotta di classe all’interno del cinema, che in Portogallo è una cosa molto recente.
Quali sono i legami internazionali del festival?
Dei 4 mila film che ci sono pervenuti nell’ultima edizione, la maggior parte proveniva dall’estero. Abbiamo una rete di contatti tutto il mondo, che comprende istituti di cinema e programmatori. Abbiamo poi diversi partenariati, con la sezione Forum del Festival di Berlino ad esempio, e con la Viennale, il festival di Vienna. C’è una specie di fratellanza tra festival. C’è un critico argentino, Quintín, che dice che ci sono dei festival che lavorano come una specie di “good mafia”, perché hanno i loro autori che sono coltivati, protetti e condivisi e questa condivisione non ha a che vedere con valori di natura commerciale o capitalista. C’è una specie di intersindacale dei festival che vuole che i film siano visti e conosciuti. C’è un traffico di influenze, “good mafia” in questo senso: siamo trafficanti di film, tra la Viennale, l’Indie, il BAFICI (il Festival internazionale dei film indipendenti di Buenos Aires) ed altri festival ancora.
Ci sono stati film italiani nell’ultima edizione dell’Indie?
Quest’anno c’è stato solo Bertolucci on Bertolucci, un documentario di Walter Fasano e Luca Guadagnino che fa un ritratto del grande regista italiano raccogliendo diverse sue interviste. Tutti gli anni riceviamo molti corti e 30 o 40 lungometraggi dall’Italia. Però direi che il cinema italiano ha bisogno di un elettroshock, è un cinema, come quello francese, che si basa sulle vecchie glorie e che ha difficoltà a rompere con vecchi modelli e stili. Il documentario italiano è eccellente, è straordinario ma la fiction è un po’ indietro.
Ora che siamo andati su questo argomento, è interessante per noi un punto di vista esterno al nostro paese: che cosa pensa del cinema italiano di oggi?
Vi racconto un episodio che fa capire bene quello che voglio dire: diversi anni fa, nel 1999, Jeanne Marie Straub – il regista francese che ha lavorato molto in Italia, autore del bellissimo film Sicilia!, tratto dal romanzo di Elio Vittorini Conversazione in Sicilia – mostrò alla Cinemateca Portuguesa il suo film Dalla nube alla resistenza. Quando lo presentò, con l’esuberanza da guerrigliero che lo caratterizza, disse che il suo era il miglior film italiano degli ultimi 30 anni. Anche se è ovvio che la sua era un’esagerazione polemica, quello che disse aveva un senso perché nel cinema italiano da un certo punto in poi c’è stata una perdita, un buco nero. Dopo la stagione di Antonioni, Fellini, Visconti, Bertolucci, è successa una cosa strana e difficile da spiegare, anche se non mancano film e registi bravi. Però sono rimasto molto più sorpreso dal cinema che si è fatto in Cile, Argentina, Colombia quest’anno, pur essendo un qualcosa che succede in condizioni molto difficili.
Certo c’è speranza, per esempio un film italiano che ritengo segno di cambiamenti importanti è L’estate di Giacomo, che abbiamo mostrato nell’edizione di 2 anni fa. Poi c’è il Collettivo Flatform in Italia che fa delle cose interessantissime dal punto di vista del documentario.
Quali sono le prospettive per l’IndieLisboa nei prossimi anni?
È un lavoro sempre precario, ogni anno miglioriamo ma le sfide e le difficoltà sono costanti. Il finanziamento pubblico è importante per un festival, ma negli ultimi 3 anni è calato. Ma noi proveremo a mantenere la dimensione che abbiamo raggiunto.