A oltre cinquanta giorni dalle dimissioni di Gentiloni la matassa non è stata ancora sbrogliata e, in mancanza di novità entro pochi giorni, Mattarella sembra intenzionato a procedere autonomamente. I partiti potrebbero avere altro tempo per cercare la quadra, all’ombra però del «governo neutrale».
Ci sarà poco da crucciarsi se le promesse pentastellate e leghiste cadranno nel nulla, dato il carattere regressivo della stragrande maggioranza delle proposte presentate in campagna elettorale dai sue partiti. Così, citando solo le due maggiori (anche per effetti distruttivi), il maxi sussidio di disoccupazione grillino, il sedicente "reddito di cittadinanza", con ogni probabilità si tradurrà nel topolino di un risibile aumento dei sussidi esistenti, mentre la demenziale "flat tax" leghista si trasformerà alla prova dei fatti in una defiscalizzazione infinitamente minore, magari una riduzione dell'IRES.
Ammesso che le trattative vadano in porto ci aspettano un paio di anni di scarico di responsabilità tra i due partner di coalizione, poi dritti senza passare dal via ad elezioni che scommetterei si giocheranno tutte sull'appiopparsi vicendevolmente accuse di "tradimento".
Preoccupa molto di più pensare a coloro che diventaranno i capri espiatori contro cui far vedere "che il governo fa qualcosa", le fasce più deboli della società, i migranti, le minoranze, in generale tutto ciò che è "altro" dal leghista medio. Fa paura pensare al livello atroce che raggiungerà il dispositivo retorico populista, la violenza verbale in nome di un presunto antielitismo contro chiunque sia tacciato di essere "intellettuale" separato dal "popolo", "buonista" o "radical chic", magari coronata, come ai tempi di Berlusconi e Gelmini, da una crociata contro l'università e la ricerca. Soprattutto, deprime pensare allo stato di quell'area che dovrebbe attrezzarsi per fare da subito opposizione a questa barbarie.
Piergiorgio Desantis
Il governo che verrà (se e quando non si sa) tra Lega e 5 stelle, non scriverà di certo la storia ma rappresenterà comunque una “svolta”: esso si fonderà sul consenso della maggioranza degli italiani e come tale sarà lo specchio più fedele degli stessi elettori. Pare scontato, ma non lo è affatto, poiché basta ricordare che la precedente compagine di governo si fondava su un partito che rappresentava appena il 25% degli elettori più alleati minori ed era stato eletto sulla base di una legge elettorale dichiarata incostituzionale.
È emblematico e, forse, propagandistico che sia stato utilizzato il termine “contratto” dalle due forze di governo per designare quella che un tempo si chiamava alleanza tra partiti. È bene ricordare che il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale, come recita il nostro articolo 1321 del codice civile. Queste formazioni politiche pensano, dunque, che il governo è una relazione di natura esclusivamente economica.
Non ci può essere spazio o accenno ai valori fondativi e condivisi che dovrebbero segnare un’esperienza di governo. Poiché assenti o vaghi, hanno voluto utilizzare tale terminologia per indicare che ci dovrebbero essere delle regole chiare scritte alla base. Quindi, con un facile luogo comune, si pensa che la politica non è più il posto dove si trova una sintesi tra posizioni che possono essere anche distanti, ma solo un elenco di cose da fare, una specie di lista della spesa di provvedimenti che potrebbero anche essere anche in contrasto tra di loro.
In ciò si manifesta tutta la povertà di queste (in)culture politiche attuali e la desertificazione (culturale, economica, sociale) di cui la Sinistra si è resa corresponsabile dagli anni ’80 in poi e, per la quale, è andata incontro a una sconfitta, questa sì, storica.
Dopo oltre un trentennio di privatizzazioni di aziende di stato e non solo, si è passati direttamente alla privatizzazione dei termini da utilizzare in politica.
Dopo una dormita generale delle forze politiche uscite vincitrici dalle elezioni del 4 marzo, le quali hanno passato 60 giorni a lanciarsi reciproci veti, ci è voluto l'ultimatum del Presidente della Repubblica Mattarella per sbloccare la situazione di stallo. Il leader di Forza Italia Berlusconi ha accettato di lasciar andare la Lega con il M5S pur di evitare l'ennesimo governo tecnico. D'altra parte Berlusconi ha i suoi motivi per odiare i governi tecnici e se può dare una spallata all'europeismo più cieco e stolto non si tira mai indietro.
Sembra quindi a un punto dal dover nascere il primo governo interamente populista in Europa. Berlusconi sembra volersi limitare a difendere i propri avamposti lasciando fare i gialloverdi che a loro volta sembrano già essersi accordati su un programma e aver in mente degli ottimi nomi per rilanciare questo Paese. Molto dipenderà da quanto le forze moderate di centrodestra lasceranno fare la Lega che sta dando sfogo al proprio populismo d'intesa con il M5S.
Quello che dovrebbe spaventarci è il ritorno al vecchio della politica di centrodestra, rappresentato da Forza Italia e Fratelli d'Italia. Il populismo tenterà nuove strade da cui non ci resta che imparare per immaginare, almeno, un'alternativa di Sinistra. Nel frattempo gli operai veneti che hanno votato Lega per avere una quota 100 e per sentirsi tutelati anche solo semplicemente come cittadini crepano in fonderia, senza pensione, senza sicurezza, sotto ricatto e senza un futuro per i propri figli. Chi li libererà?
Se alla fine dovesse insediarsi il «governo neutrale» del Presidente della Repubblica l’esito più probabile sarebbe il ritorno alle urne entro breve. Il solo incarico di un tale governo, infatti, costituirebbe l’alibi perfetto per M5s e Lega per disimpegnarsi dalle trattative. E naturalmente l’esecutivo non otterrebbe la fiducia, nonostante la buona intenzione di Mattarella fosse proprio di fornire tempo ulteriore per la ricerca di intese tra i partiti.
Se M5s e Lega sono così simili – e lo sono –, cosa li trattiene dal concludere in breve tempo un accordo? Soltanto il nome, che non c’è, del Presidente del Consiglio? Su questo punto pesa certamente l’ipoteca del Capo dello Stato, intenzionato a incaricare solo una persona di alto profilo e in grado di “rassicurare” i partner internazionali. Questo identikit taglia fuori due papabili che hanno affinità con entrambi i partiti come il senatore Paragone (eletto nel M5s, ma con trascorsi leghisti) e il senatore prof. Bagnai (eletto nella Lega, ma tra gli economisti di riferimento anche del M5s).
Non è comunque solo il nome del capo del governo a ritardare il coagulo di un’intesa. Anzitutto vi è la disparità di peso, con il M5s che conta quasi il doppio dei parlamentari della Lega. Poi vi è un’ambiguità tuttora non sciolta: Salvini continua a dichiarare di rappresentare non la Lega, ma tutto il centrodestra, sebbene:
a) Noi con l’Italia sia sparita già dalle prime consultazioni di Mattarella un mese e mezzo fa;
b) Fratelli d’Italia abbia dichiarato che starebbe all’opposizione del venturo governo (nell’evidente tentativo di fare le scarpe a un Salvini che nel Sud ha largamente prevalso tra gli ex elettori di Alleanza Nazionale);
c) Forza Italia intenda collocarsi, sostanzialmente, all’opposizione pur non avendo ancora chiarito se in posizione di contrarietà o di non-sfiducia.
Anzitutto, nessuno dei partiti vuole rompere la propria coalizione. La Lega non vuole tagliare i ponti con Forza Italia, perché se lo facesse non avrebbe la garanzia di assorbirne i voti già alle prossime elezioni: a maggior ragione con il ritorno di Berlusconi alla candidabilità. Sebbene motivi anagrafici e di smalto facciano ritenere l’ex cavaliere ormai finito, il sussulto derivante dalla ripulitura della sua immagine non è da sottovalutare. Ma neppure il M5s vuole rompere la peculiare coalizione che esso stesso incarna: quella tra un’ala di destra del tutto affine alla Lega e una di sinistra che, sebbene forse ancora più arretrata sul piano politico-culturale, si ritiene confusamente la sezione italiana di Podemos.
Tra i due chi ha più voglia di andare al governo è chiaramente il M5s: lo si è visto dalle più recenti dichiarazioni così come dal fatto che, a differenza di Salvini, nel corso della crisi ha aperto anche al Pd. Casaleggio ha espressamente dichiarato che il M5s non potrebbe resistere a due legislature all’opposizione: in tal modo i suoi elettori perderebbero fiducia nella reale possibilità di andare al governo e quindi si orienterebbero su altri partiti.
Un’ultima questione, tutt’altro che da sottovalutare, per interpretare le diverse mosse dei due partiti è il diverso schieramento internazionale: sostanzialmente atlantico quello qualunquista, apertamente filo-russo quello leghista. Non è detto che in questa fase l’orientamento di Salvini sia necessariamente quello di andare al governo, potendo semmai accontentarsi di una robusta opposizione come il Fronte nazionale in Francia.
Dopo una lunghissima agonia, sembra dunque che in extremis l'Italia avrà un governo. Senza troppe sorprese dato che l'ipotesi di un accordo Lega - 5 Cinque Stelle era già considerato il più praticabile il giorno dopo le elezioni.
Settimane di melina inutile, insomma per arrivare al punto di partenza. Mentre scrivo, la nuova alleanza giallo-verde non ha ancora presentato un nome comune per la premiership. C'è però una bozza di programma: il "contratto per il governo del cambiamento" che si presenta come un guazzabuglio di idee poco coerenti e senza sistematicità.
Si vorrebbe fare tanto: oltre a una stretta sull'immigrazione, sul tavolo ci sono il reddito di cittadinanza e il ritocco della legge Fornero che per essere finanziate necessiterebbero o di sforare il tetto sul deficit oppure di introdurre una tassazione che colpisca i redditi e i patrimoni alti e che ridistribuisca meglio la ricchezza.
Non solo Lega e 5 Stelle non sono intenzionati ad andare contro le direttive di Bruxelles sul debito pubblico (nonostante i loro slogan elettorali anti-UE), ma non sono neppure disposti a una tassazione più equa ed efficiente. È anzi vero il contrario: l'idea è quella di varare la flat tax che va ad abbassare le tasse solo ai ricchi, in totale contrasto con i dettami di equità e giustizia sociale, teoricamente garantiti dalla Carta Costituzionale. Una follia che rischia di trasformarsi in un massacro non solo per il bilancio statale dunque, ma soprattutto per le fasce più deboli della popolazione dato che, con la forte diminuzione del gettito fiscale, lo stato sarebbe costretto a tagliare ancora di più il già moribondo welfare.
Se anche la flat tax funzionasse, ovvero gli introiti dello stato restassero stabili, sarebbe solo perché l'Italia sarebbe riuscita ad attirare capitali e ricconi stranieri allettati dalla bassa tassazione: insomma far diventare l'Italia uno pseudo paradiso fiscale come qualche Repubblica ex-Sovietica (in molte delle quali peraltro questa misura sta fallendo o aprendo voragini nei conti pubblici) dovrebbe essere inaccettabile, finanche dal punto di vista etico, a prescindere. Di questi tempi invece, una proposta del genere non fa scandalo. E chissà se per fare questa riforma verranno sacrificati reddito di cittadinanza e pensioni. Del resto, si va a tagliare la tassazione che ha da decenni strozzato gli italiani per bene, no? Gli italiani potranno comunque brindare a un vero governo del cambiamento.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.iltempo.it