Europa tradita: il controverso rapporto con l'europeismo della sinistra in Italia

C’è grande confusione sotto il cielo. Nonostante per il grande Mao ciò coincise con una grande opportunità politica per la sua rivoluzione,  la grande confusione di questi giorni e queste ultime settimane non fa che acutizzare la crisi di una sinistra italiana sempre più sbandata. Senza parlare del Partito Democratico, che l’autore di questo articolo si ostina a collocare nell’orbita (sinceramente più lontana) della sinistra.

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Martedì, 26 Settembre 2017 00:00

Elezioni in Germania: un commento a caldo

Elezioni in Germania: un commento a caldo

Dopo le elezioni britanniche e francesi, è il turno delle elezioni tedesche. Un appuntamento che sicuramente merita attenzione, tra i timori di uno sfondamento dell'ultradestra, i dubbi sulle possibili alleanze di governo e gli inevitabili riflessi europei. Ne ragioniamo qui sul Becco, con il Dieci Mani di questa settimana.


I dati delle elezioni tedesche, per il loro valore, sono ormai di dominio pubblico, ed è inutile ripeterli. Vale la pena passare direttamente al commento.
C'è l'avanzata della destra radicale, declinata localmente sotto la sigla dell'AfD. Un fenomeno che riporta la Germania, fino ad oggi unico Paese (oltre al pur lodevole Portogallo) ad aver resistito alle sirene della demagogia, al triste comun denominatore della politica europea degli ultimi trent'anni. Come sempre le analisi che ricostruiscono un rapporto di causazione tra i risultati della destra e il disagio economico si sono sprecate, e sicuramente sono riuscite a catturare una parte non irrilevante del problema. La Germania, a livello di diseguaglianze, statisticamente si colloca nella media, con un Gini del 30.7 (contro il 26.3 di uno Stato poco diseguale come il Belgio, il 31.6 del Regno Unito ed il 32.4 dell'Italia), ma profonde fratture a livello socioeconomico esistono, e ci sono state ampiamente raccontate dalla stampa di questi giorni.

Il materialismo ingenuotto che vede un rapporto di causa-effetto tra voto di destra e problemi economici soffre però di gravi limiti, che diventano evidenti quando si va ad ampliare la comparazione a livello europeo. In Svezia la destra dei Democratici svedesi viaggia attorno al 20% nei sondaggi, la Danimarca è la patria di uno dei partiti della nuova destra storicamente di maggior successo, il Partito del Popolo Danese, mentre in Norvegia il Partito del Progresso – partito sui generis, più vicino alla destra repubblicana libertarian statunitense che al nazifascismo – è stato confermato dalle recenti elezioni nel suo ruolo di partner junior del governo conservatore. Per non parlare dell'Austria o della Svizzera. Tutti Paesi poco diseguali, in gran parte risparmiati dal peggio della crisi economica e dall'auserity “neoliberista” a cui si vorrebbero addebitare tutti i mali dal diluvio universale in poi. Allo stesso modo risulta difficile ricollegare onestamente le fortune delle forze neofasciste nei Paesi dell'ex patto di Varsavia – Germania Est inclusa – alle (reali) sofferenze economiche patite dai popoli esteuropei all'indomani della crisi definitiva del sedicente socialismo reale o nel contesto della recente crisi. Non si capisce, tra l'altro, perché le masse impoverite si dovrebbero affidare a forze che in molti casi (ed è il caso dell'AfD) portano avanti programmi liberisti da lacrime e sangue. Sarebbe forse il caso di indagare meglio, senza sottovalutare il fattore economico ma anche senza che questo diventi il paraocchi incontestabile, gli scontri culturali che hanno fatto a pezzi il tessuto sociale europeo negli ultimi trent'anni. Immigrazione, Stato-nazione, temi “etici” come l'aborto, diritti civili. Dovunque la destra lavora per rompere schieramenti e costruirne di nuovi, all'insegna della reazione sociale. La discriminate di classe si perde o è travisata dagli intruppamenti delle guerre culturali del tardo capitalismo.

Ma l'ascesa di partiti come l'AfD segna davvero il trionfo dell'estrema destra? Oppure è al contrario il segno della sua definitiva, storica, crisi? In Germania esiste già un partito neonazista, l'NPD, sostanzialmente cancellato dall'avanzata dei cugini “sovranisti” dell'AfD relativamente più presentabili negli ultimi due anni. In Francia il Front National di Marie Le Pen prosegue in una operazione di ripulitura di una facciata politica che già era nata, sotto l'egida di Jean-Marie, col preciso scopo di ripulire rifiuti tossici politici come i reduci dell'Action française e del terrorismo di destra degli anni '60-'70. I Democratici svedesi, per arrivare ai risultati odierni, hanno dovuto espellere un gran numero di vecchi iscritti, giudicati “troppo estremisti” per uno sdoganamento come partito mainstream che ormai sembra a portata di mano.
Il fenomeno resta assolutamente preoccupante, ma la realtà, come sempre, è più complessa dei titoli di giornale. Noi antifascisti dovremmo saperlo.


Alex Marsaglia

Le elezioni in Germania hanno rivelato un esito più scontato di quanto ci si aspettasse. La Cdu di Frau Merkel viene confermata, anche se in forte arretramento, e al secondo posto resta il partito socialista Spd che garantisce il bilanciamento di un sistema sostanzialmente bipolare vocato ai governi di coalizione e quindi ancor più difficilmente scardinabile da qualsivoglia populismo. Certo, il babau del populismo è il preferito per la retorica europeista che si bea di un sostegno praticamente unificato delle varie forze politiche alla ricerca di facili scranni parlamentari. In realtà in Germania il voto del popolo in sofferenza è relativamente ridotto viste le capacità economiche di un paese che ha fatto dell'unione economica il suo punto di forza e oggi vive di rendita.

Insomma, il populismo che sembra comunque in arretramento su tutto il continente, in Germania pare non aver mai sfondato per semplici ragioni economiche. È vero che esiste un ampio settore di mercato del lavoro destabilizzato dai minijobs, ma parliamo del paese che ha risentito meno di tutti nell'area euro delle ricadute economiche della crisi. Afd entra in parlamento, ma se analizziamo con realismo il fenomeno ci accorgiamo di una forza politica che stenta a decollare e che vede restringersi la sua base di consenso potenziale, poiché i flussi in uscita dal partito socialista si dirigono verso forze politiche di sistema e il mondo dei disoccupati e sotto-occupati da cui un partito populista dovrebbe raccogliere i consensi a piene mani sembra più sfiduciato e impegnato in un voto di protesta e nelle classiche forme di militanza leggera che nella costruzione di una reale alternativa all'Unione Europea. Insomma, si tratta della solita raccolta voti dei delusi dalla politica in nome dell'euroscetticismo (di destra in questo caso, viste le praterie lasciate dalla Linke sul tema).

In definitiva si può comunque prendere atto dell'esistenza anche in Germania di un processo di destrutturazione delle vecchie forze politiche, detto questo però non si può andare molto oltre. Infatti questo processo sembra avanzare meno che altrove nel paese egemonico dell'Unione Europea che viaggia verso il quarto mandato consecutivo di colei che rappresenta la vera lady di ferro dell'Unione Europea. Angela Merkel dai primi anni duemila si è dimostrata una guida sicura per una Germania che dal processo di unificazione monetaria ha saputo trarne solo vantaggi, scaricando sugli altri partecipanti all'Unione tutti gli oneri.


Dmitrij Palagi

Nell'analizzare i risultati elettorali bisogna sempre stare attenti a non guardare strumentalmente ai dati, per trovare conferme impossibili da riscontrare, specialmente all'estero. Il fenomeno AFD spaventa in maniera tragicomica la stampa liberale e progressista europea. Nonostante la Germania possa vantare una classe dirigente caparbiamente cinica, capace di piegare l'europeismo agli interessi nazionali, a danno di altre nazioni del vecchio continente, l'elettorato tedesco non si allinea alla narrazione di un'UE in ripresa, dopo la vittoria di Macron.

Gerhard Schröder è ancora oggi intervistato come il coraggioso riformista, sfortunato nel pagare in termini di consenso scelte unanimamente riconosciute come epocali e giuste, da parte dello stesso sistema di informazione disorientato nel vedere la barbarie culturale affermarsi in sempre maggiori paesi.

L'SPD ci dice molto dei nostri "socialisti" (categoria tornata ad essere utilizzata in Movimento Democratici e Progressisti, in particolare da Enrico Rossi). Così come era stato per Zapatero, Hollande ed Obama, anche Schulz è apparso un novello rivoluzionario, al pari di Sanders e Corbyn. Non importano i contenuti, l'importante è una narrazione in cui il rosso "torna di moda", con qualche accento di giustizia sociale e sfumature di redistribuzione delle ricchezze. Al centro del dibattito deve essere posto il lavoro, ma non il modello di produzione ed il tipo di economia.

Anche la Linke parla della sinistra italiana, suo malgrado e indipendentemente dalla sua volontà. La formazione tedesca esprime oggi la presidenza della Sinistra Europea e ricerca in modo significativo (con un forte interesse da parte di Tsipras) accordi con il PSE. L'accusa "da sinistra" mossa all'SPD è di non accettare un'alleanza rossa. Nel frattempo in Spagna qualcosa si muove, mentre in Portogallo prosegue un esperimento ignorato da troppi e per questo sorprendentemente privo di critiche da parte di una sinistra italiana sempre pronta a regalare patenti di tradimento, o assegnare fiaccole della salvezza.

Dalle elezioni tedesche può essere tratta una conferma anche per chi ritiene che oggi balbetti un progetto europeista, interrogandosi su come sopravvivere a contraddizioni che non riesce a sanare (lo scontro tra Draghi e alcuni ministeri di Berlino meriterebbe di essere approfondito), mentre le alternative suono vuote di progettualità, sia a sinistra (in fondo interessata a ricucire con la socialdemocrazia dove si pone il problema del governo) che a destra (i sovranisti sono certi di non avere speranze e in fondo va bene così, fino a un decennio fa non avevano praticamente nemmeno diritto di parola).


Jacopo Vannucchi

Sgombriamo anzitutto il campo da una leggenda metropolitana, ovvero il presunto ingresso della destra radicale nel Parlamento tedesco per la prima volta dopo il 1945. Formazioni di estrema destra e apertamente composte da “post”-nazisti ottennero seggi nel 1949, 1953, 1957. Cosa ancor più importante, laddove si guardi alle politiche e non alle sigle, il democristiano Adenauer condusse una politica revanscista denunziando gli accordi di Potsdam, mentre reduci del Terzo Reich, civili e militari, sedevano nelle istituzioni di Bonn.

Detto questo, il voto pare disegnare ancora una volta due Germanie lungo la ex cortina di ferro, ma la differenza è solo nei toni: l’aumento di Linke e AfD all’Est viene recuperato dagli altri partiti ad Ovest: in entrambe le zone destre e sinistre replicano il loro aggregato nazionale di 56% e 39%. Lo stesso risultato di AfD pare dovuto assai poco a motivi economici – gli elettori avrebbero altrimenti premiato la Linke o lo stesso Schulz che ha impostato la campagna sulla giustizia sociale – e molto al razzismo. I soli collegi in cui AfD è la prima lista sono nell’estremo sud-est della Sassonia, incuneati tra Polonia e Cechia del cui clima xenofobo paiono risentire.

Di certo l’asse politico tedesco si è spostato a destra: a destra hanno perduto consensi la CDU (verso FDP e AfD) e la Linke (verso AfD), mentre i socialdemocratici hanno sofferto verso entrambi i lidi (Linke, Grünen, FDP e AfD in misure simili). A mobilitarsi chiaramente sono stati anche gli ex astenuti: si stima che 1,2 milioni di essi abbiano votato per l’estrema destra, un flusso secondo solo a quello CDU-FDP (1,36 milioni).

La SPD, in coerenza con dieci anni di sbandamento, ha reagito d’impulso dichiarando la morte della Grosse Koalition per “non lasciare l’opposizione alla AfD” (la tesi che fu ed è di Bersani, con più successo per Grillo e Salvini che per lui). E tuttavia l’87,4% dei votanti – sette su otto – ha rifiutato l’estrema destra. Chiamandosi fuori dalla maggioranza i socialdemocratici lasciano la cancelliera sotto il ricatto dei falchi liberali e bavaresi, con ricadute sulla politica monetaria europea non troppo difficili da immaginare. Accettando di sedere al tavolo, invece, potrebbero reclamare un governo di unità nazionale che isoli la AfD e ponga le basi per l’unione della sinistra, magari rilanciando tramite la richiesta di una Assemblea Costituente, attesa dal 1990.
Le larghe intese, lungi dall’essere demonizzate, devono dunque essere estese, perché solo un blocco popolare unitario è in grado di contendere i ceti medi e popolari all’integrazione nell’unica alternativa: il blocco reazionario.


Alessandro Zabban

Alla fine lo stallo che si paventava si è effettivamente prodotto. In una tornata elettorale che ha visto i pronostici della vigilia sostanzialmente rispettati, Angela Merkel rimarrà con ogni probabilità cancelliera ma avrà grosse difficoltà a formare una coalizione di governo. La soluzione più logica sarebbe stata quella di riproporre la grande coalizione con l’SPD di Schulz che però, dopo aver rimediato una batosta terrificante, non è disposto a perdere ulteriori consensi e legittimità per qualche poltrona. L’ipotesi “Giamaica” (CDU+FDP+Verdi) è l’alternativa più tangibile anche se pare già molto forzata. Il problema non è tanto la lontananza che separa i liberali o i verdi dalla Merkel, distanza che non pare incolmabile, ma proprio fra i due possibili alleati minori della Merkel: da una parte l’FDP di Lindner ha un profilo nettamente anti-immigrazione e professa un'Europa dell’austerity e a due velocità, dall’altra i verdi che su questi aspetti hanno posizioni decisamente diverse e quasi opposte. Con Merkel che ha promesso una stretta sull’immigrazione da una parte e una apertura sul versante della fine del regime di austerità in Europa, i margini per un accordo a tre sono veramente risicati.

Sebbene siano state elezioni per certi versi dalla portata storica, quelle tedesche sono l’ennesima dimostrazione della presenza di alcune dinamiche politiche in atto in Europa già da diversi anni. Da una parte la crisi della socialdemocrazia tedesca sembra ormai cronico-degenerativa e segue quella di Grecia, Spagna, Francia. Proprio come in questi paesi, l’SPD non ha saputo presentarsi come credibile proposta politica per risolvere i problemi concreti dei meno abbienti e ha finito per diventare la brutta copia della CDU di Merkel. Dall’altra si assiste alla crescita di forze politiche di estrema destra dal carattere spiccatamente xenofobo. L’AFD ha un carattere peculiare (un confuso programma che unisce il peggio del neoliberismo col peggio del nazionalismo) ma è chiaramente in sintonia con il FN francese e la Lega italiana (per non parlare degli omologhi in Austria, Polonia, ecc…).

La sinistra arranca e non può far altro che rimanere marginale e settaria. Gli appelli all’unità dei “democratici” contro il pericolo dei nuovi fascismi non può essere colta da forze politiche come la Linke: sono le politiche neoliberiste ad aver generato le condizioni per il malcontento che nutre la destra xenofoba, cooperare per attuarle non farebbe altro che alimentare ancora di più i sentimenti fascistoidi che pervadono le nostre società. Per questo fa bene la Linke a tenersi fuori da qualsiasi coalizione di governo che con la scusa di ergersi come baluardo contro il fascismo, lavora ogni giorno per produrre quelle politiche che lo alimentano.

Immagine liberamente tratta www.lettera43.it

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Giovedì, 26 Gennaio 2017 00:00

Il dilemma europeo: intervista a Paolo Ciofi

Intervista tratta dal numero cartaceo Sinistra ed Europa: un rapporto complesso (vedi qui)

Il dilemma europeo: intervista a Paolo Ciofi


Nel marzo del 2015 Futura Umanità, l’associazione per la memoria storica del Pci da lei presieduta, ha promosso un importante convegno sulla figura di Enrico Berlinguer. Le relazioni esposte in occasione di tale iniziativa sono state recentemente raccolte in un volume da lei curato in collaborazione con Gennaro Lopez (Berlinguer e l'Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo, Editori Riuniti, 2016). A suo avviso, chi oggi ha raccolto, nell'Europarlamento, il pensiero di Berlinguer circa l'Europa?

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Mercoledì, 18 Gennaio 2017 00:00

Zero virgola

Zero virgola

Provo qui a commentare la situazione sempre più critica in cui versa l’Unione Europea, in ragione dei suoi elementi obiettivi di grande fragilità politica e istituzionale, del panico che serpeggia, sotto alle prese di posizione superdure, nei suoi effettivi poteri del momento, che sono il governo tedesco, la Commissione Europea e l’Eurogruppo, dell’incapacità di questi poteri, vuoi per ragioni elettorali, vuoi per cultura politica (ultra-liberista, ultra-liberoscambista), vuoi per posizione di classe (ultra-antisociale), di affrontare con qualche ragionamento che stia in piedi il disastro possibile: il collasso dell’UE, divenuta, a seguito della svolta statunitense prossima ventura, il classico vaso di coccio tra vasi di ferro (Stati Uniti, Cina, Russia: tre stati, non tre baracconate). Poiché mi trovo da tempo ai margini della politica, nessun danno verrà a chicchessia se sbaglierò analisi e conclusioni.

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Giovedì, 05 Maggio 2016 00:00

Educazione tra Lisbona ed Europa 2020

Educazione tra Lisbona ed Europa 2020

Intervista di Diletta Gasparo a Chiara Agostini, ricercatrice per il Centro Einaudi pubblicata sul numero cartaceo L'educazione ai tempi dell'Unione Europea di febbraio

Sin dalla definizione della Strategia di Lisbona del 2000, l'Unione Europea ha fatto dell'istruzione e della formazione (ET, Education and Training) uno dei più importanti campi di azione e intervento. Come riassumeresti le indicazioni e gli stimoli elaborati da Bruxelles?

Nel quadro della strategia decennale per la crescita e l’occupazione lanciata nel 2000 (Strategia di Lisbona), l’istruzione e la formazione professionale erano concepite come elementi chiave di un modello di sviluppo basato sull’economia della conoscenza. Fin da quegli anni l’UE ha sostenuto l’idea che investire in istruzione e formazione equivalesse a investire nel capitale umano e quindi a promuovere il progresso economico e il miglioramento della competitività delle economie. Se però inizialmente tutto questo si accompagnava a un’idea forte di crescita inclusiva, con il passare del tempo il focus si è spostato sempre più sull’idea di “crescita” economica e meno sugli aspetti legati all’inclusione.

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Giovedì, 02 Luglio 2015 00:00

Il triangolo non lo avevo considerato

Il triangolo non l'avevo considerato
Tre poli aggreganti per l'insubordinazione: quasi senza citare Tsipras e Podemos...

«Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo [..] Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l'ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti noi. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così una comunità si libera dall'indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche coltivare un'identità comune, una storia che si conserva e si trasmette». 

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Sabato, 30 Maggio 2015 00:00

Incubo europeo

Incubo europeo

Mi sarò svegliato male, ma sono pessimista circa lo sbocco del tormentone che oppone da mesi la Grecia alle istituzioni di governo europee, ai governi degli altri paesi dell’Eurozona e al Fondo Monetario Internazionale.

Opportunamente è diventato ragionamento diffuso persino sui mass-media italiani che lo scontro è pressoché esclusivamente politico. La Grecia, intanto, in qualsiasi modo esso possa chiudersi, non è in grado di uscire dal tunnel nel quale l’hanno infilata i suoi governi precedenti, l’UE nel complesso delle sue articolazioni esecutive e il FMI, senza una ristrutturazione del suo debito pubblico. La ragione è molto semplice: ciò che la Grecia paga di interessi quando vengono a scadenza i suoi titoli sovrani supera ciò che entra nelle sue casse; quindi se essa fosse un’impresa anziché uno stato avrebbe già portato i libri contabili in tribunale e chiesto l’apertura di una procedura fallimentare. Ho un’impresa indebitata poniamo per 100 milioni di euro, per continuare finanziarla, dovendo pagare ratei di macchinari, materie prime, salari, stipendi, energia, tasse, spendo in interessi alle banche per 20 milioni, in cassa vendendo quello che produco me ne entrano 10, ho speso ormai tutti i

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Mercoledì, 28 Gennaio 2015 00:00

A lezione dai greci

Il patto Anti-austerity ad Atene: la “lezione” della sinistra greca

Gli esiti delle elezioni in Grecia sono ormai palesi a tutti: ha vinto Syriza con più del 36 per cento dei voti, 149 seggi in parlamento. Ne servivano 151, per poter arrivare alla maggioranza assoluta e creare un governo monocolore: il giorno successivo alle votazioni Syriza ha bisogno di alleati. Dopo la chiusura del KKE sul piano delle alleanze è necessario cercare sostegno entro le forze politiche anti-austerity, quelle che non sono scese a patti con la Troika e alle quali Syriza ha sempre guardato come possibili interlocutrici (ricordando in ogni momento che alleanze con forze filo-austerity sarebbero state impraticabili). Quelle forze che hanno contrastato le politiche disastrose di Nuova Democrazia e dell’ormai quasi scomparso PASOK. Dopo tantissimi anni il partito di George Papandreou resta fuori dal parlamento: “Chiuso per sempre” si legge sulla porta del comitato elettorale del suo partito, dopo gli esiti delle votazioni nazionali, mentre Atene festeggia(e sullo sfondo di quella notte greca risuonano le note di “Bella Ciao”, mentre Alexis raggiunge i cittadini di Atene per il suo discorso post-elettorale).

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Intervista a Yves Charles Zarka
filosofo e saggista francese e direttore di “Cités”, rivista dedicata alla cultura politica contemporanea
Pubblicato sul cartaceo che potete scaricare qui
Cliccando qui guarda il video dell'intervista

1- Abbiamo avuto modo di partecipare, qualche settimana fa, ad un'iniziativa organizzata dall'Istituto dell'Università Europea a Firenze sulle possibilità di cambiare l'Europa che conosciamo oggi. Tra gli ospiti, Mirelle Bruyére, de L'Economistes Atterés, che ha concluso il suo intervento spiegando come, a grandi linee, ciò di cui abbiamo bisogno è un'Europa basata sul consumo più che sulla proprietà, che tenga meno conto della finanza e più dell'economia reale, disciplina sociale fortemente legata alla politica e all'organizzazione delle istituzioni.
Vede fattibile un cambiamento in tal senso? Se sì, con quali modalità e soprattutto quali tempi.

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Discutere di Europa, oggi, in Italia, non è affatto facile. Da una parte abbiamo gli anti europeisti intransigenti, coloro che vorrebbero rigettare qualunque trattato ed uscire immediatamente dall'Euro (quali potrebbero essere le conseguenze non è un dato preso in considerazione). Dall'altra ci sono quelli si sono arresi all'evidenza dei fatti e sono stati costretti dalla realtà a cominciare ad accennare qualche critica alla costruzione europea così come la conosciamo oggi. Finanziarizzazione selvaggia, rincorsa all'ultima respiro del pareggio di bilancio e del contenimento dell'inflazione ne hanno fatto una gabbia opprimente che, di fatto, affama i grandi numeri e lascia indisturbata le minoranze agiate.

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