Lunedì, 10 Febbraio 2014 00:00

Europa: questione di forma ma anche di sostanza

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Discutere di Europa, oggi, in Italia, non è affatto facile. Da una parte abbiamo gli anti europeisti intransigenti, coloro che vorrebbero rigettare qualunque trattato ed uscire immediatamente dall'Euro (quali potrebbero essere le conseguenze non è un dato preso in considerazione). Dall'altra ci sono quelli si sono arresi all'evidenza dei fatti e sono stati costretti dalla realtà a cominciare ad accennare qualche critica alla costruzione europea così come la conosciamo oggi. Finanziarizzazione selvaggia, rincorsa all'ultima respiro del pareggio di bilancio e del contenimento dell'inflazione ne hanno fatto una gabbia opprimente che, di fatto, affama i grandi numeri e lascia indisturbata le minoranze agiate.

Partendo da questa constatazione, è evidente che ciò che noi dobbiamo individuare è una terza via (lasciando da una parte le teorizzazione di Tony Blair, che ci ha reso quasi inutilizzabile questa locuzione). Ho letto con molto interesse l'intervento con cui Massimo Vannuccini ha preso parte alla discussione (clicca qui per leggere l'articolo): una ricostruzione parallela di come i rispettivi processi di formazione abbiano di fatto influenzato cosa sono oggi Stati Uniti d'America ed Unione Europea. Da una parte un'unione federale, nata con un processo iniziato a Philadelphia e finalizzato al raggiungimento dell'unità politica, che ha portato alla formazione dello stato più potente ed influente al mondo; dall'altro un processo di integrazione a livello continentale che nel corso di sessant'anni ha avuto molti alti e bassi (più bassi, possiamo dircelo) e che ha finito con concentrarsi moltissimo sul piano economico e molto meno su quello politico ed istituzionale. Non mi interessa in questo momento fare una ricostruzione su chi siano i responsabili della situazione che si è venuta a creare: le dinamiche di potenza e politiche che hanno influenzato e che sono riuscite a rallentare il progetto di chi sin dall'iniziato ha creduto che un'Europa veramente unita fosse la risposta sono qualcosa di molto complesso ed interessante ma che ci porterebbe fuori tema.

Quando quindi ci poniamo la domanda di cosa fare per cambiare questa Europa, a mio parere la risposta data da Massimo non è del tutto esauriente. Non credo cioè che il riuscire a portare a compimento il progetto di federalismo europeo, costituendo gli Stati Uniti d'Europa, possa essere una soluzione alla catastrofe che viviamo oggi. Credo che un nuovo contenitore non possa essere di per sé una soluzione: per migliorare la situazione vanno cambiate le istituzioni ma anche i contenuti. È verissimo, come ci ha fatto notare Massimo nel suo articolo, che se avessimo un unico stato a livello europeo potremmo portare avanti un'unica politica estera (anche per il solo fatto che disporremmo di un esercito da impiegare), potremmo attuare un'unica politica fiscale e magari far ricadere gli effetti distributivi su tutto il territorio. Ma chi ci dice che quella politica estera non sarà così nociva da farci rimpiangere quando i singoli stati avevano ancora la sovranità di scegliere se entrare in guerra o meno? Chi ci dice che il sistema fiscale che verrà elaborato non prenderà solo il peggio da ciascun sistema nazionale, andando a sottolineare le grandi iniquità che falciano il continente? Chi ci dice che le politiche sul lavoro non andranno a favore dei grandi imprenditori, adattando orari e costi del lavoro a quelli dei paesi dell'Est Europa? Io credo, come ho già avuto occasione di accennare, che la prima cosa da fare sia quella di ridefinire la grammatica di questo “conflitto”: non è ponendo la dicotomia federalismo-stati nazionali che faremo passi avanti. Credo che il conflitto sia quello a cui quelli che come me hanno ancora la pretesa di definirsi di comunisti devono fare riferimento sia quello tra capitale e lavoro, quello tra sfruttatori e sfruttati. Un'immediata fusione a freddo che ci porta dritti dritti negli Stati Uniti d'Europa non farebbe che consegnare ai padroni uno strumento da usare per i loro interessi. Ed è evidente che non ci sarebbe opposizione che tenga: il grande capitale è riuscito a vincere fino ad oggi, a discapito di cittadini e lavoratori, perché non dovrebbe continuare ad avere la meglio? Il paragone con gli Stati Uniti casca a pennello: uno stato federale dove pur di garantire l'assenza di ogni interferenza dello Stato nelle dinamiche del mercato si è arrivati alla privatizzazione di ogni sorta di servizio, dove anche la sanità è un lusso per chi se lo può pagare (e, sui grandi numeri, a poco è servita l'Obamacare), dove ancora c'è un grossissimo problema di integrazione dal momento che le statistiche mostrano l'enormità dei gap tra bianchi e neri ed ispanici quando parliamo di salari ed livello di istruzione. L'approdo diretto agli Stati Uniti d'Europa creerebbe una situazione analoga: i diversi italiani che, pur essendo cittadini comunitari, sono stati espulsi dal Belgio perché disoccupati e quindi “poveri” non potrebbero certo essere espulsi ma resterebbero comunque poveri.

Credo che la vera sfida consista nel riuscire ad immaginare un'Europa diversa, che ricordi le sue tradizioni e peculiarità e che grazie a queste riesca a diventare un esempio positivo. Ma per riuscire nel nostro intento dobbiamo smettere di pensare che si possa partire da una semplice modifica dello status quo. Credo che l'Unione Europea di oggi sia descritta magistralmente dalle parole di Franco Berardi Bifo: “Governance è la parola chiave della costruzione europea: pura funzionalità senza intenzione. Automazione del pensiero e della volontà. Incorporazione di astratte connessioni nella relazione fra organismi viventi. [...] Europa è la perfetta costruzione postmoderna in cui il potere è incarnato da strumenti tecnico-linguistici di interconnessione e interoperatività”.
Dobbiamo quindi capire come modificare l'Europa che conosciamo per farne un qualcosa che abbia effettivamente una carica propulsiva per l'emancipazione delle popolazioni, per il miglioramento della vita dei cittadini e di chi lavora, per la difesa dell'ambiente e dei diritti. In primo luogo, cominciare davvero a preoccuparsi del benessere dei più ed abbandonare la tutela degli interessi dei grandi proprietari. Abbandoniamo i grandi profitti finanziari, scarsamente regolati e portatori di crisi come quella del 2008 e torniamo ad un'economia reale, fatta di lavoro, investimenti e consumi che però si ponga la sfida della compatibilità ambientale e del rispetto dei diritti e del benessere delle persone.
Se poi questo porrà le condizioni per una maggiore integrazione a livello europeo lo vedremo col tempo: assicuriamoci prima che il contenuto sia quello che vogliamo noi prima di preoccuparci del contenitore.

Ultima modifica il Lunedì, 10 Febbraio 2014 09:06
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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