Politica

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Il 12 agosto, dopo il via libera dell'Agenzia Regolatrice per il Nucleare, è ripartita, con la riattivazione del reattore numero 3, la centrale nucleare di Ikata (Prefettura di Ehime), di proprietà della Shikoku Electric Power. L'impianto è, attualmente, l'unico ad utilizzare un combustibile misto uranio-plutonio (il cosiddetto MOX).
Numerosi sono stati i ricorsi presentati in tribunale da cittadini residenti nei pressi della struttura. A preoccupare in particolare i residenti è il rischio, per quanti abitano nella stretta penisola di Sadamisaki, di rimanere isolati in caso di evacuazione effettuabile unicamente via mare, procedura impossibile da attuare in caso di tsunami.

Un via libera per la ripresa delle operazioni dovrebbe presto arrivare anche per il reattore numero 3 della centrale di Mihama (Prefettura di Fukui) della Kansai Electric Power. L'Agenzia Regolatrice ha, infatti, confermato, lo scorso mercoledì, che l'impianto risponde ai nuovi criteri di sicurezza introdotti dopo la catastrofe del 2011.

Argentina: non solo la macelleria sociale, ora anche le persecuzioni politiche

Se in un Brasile alle prese con l'impeachment di Dilma Rousseff e l'inizio dei Giochi Olimpici la tensione è alle stelle, in Argentina sembra che la luna di miele con il neoliberismo del magnate Macri stia già finendo.

Eletto lo scorso novembre con un programma pro-business fortemente in contrapposizione con le politiche assistenzialiste di Cristina Kirchner e del suo delfino Daniel Scioli, Maurico Macri, imprenditore edile di successo e Presidente della celebre squadra di calcio del Boca Juniors, ha subito iniziato una politica economica all'insegna dei tagli allo stato sociale e incentrata su un piano di privatizzazioni senza precedenti.

La Prefettura Metropolitana di Tokyo ha, per la prima volta, una governatrice. Le elezioni del 31 luglio hanno infatti assegnato la vittoria all'ex ministra dell'Ambiente (e poi di Okinawa e Territori del Nord) con Koizumi e, per un breve periodo, della Difesa con Shinzo Abe, Yuriko Koike.
Koike si era candidata come indipendente andando contro l'indicazione del proprio partito che le aveva preferito Hiroya Masuda, già ministro agli Interni con Fukuda e per molti anni governatore della Prefettura di Iwate.
L'ex deputata ha ottenuto 2.912.000 voti (poco più del 44%) mentre sono stati 1.793.000 (27%) i consensi portati a casa da Masuda (appoggiato, oltre che dal PLD anche da Nuovo Komeito e dall'ultradestra di Kokoro). Pesante sconfitta per l'opposizione, che - nonostante la non scontata convergenza di democratici, comunisti, socialdemocratici e Partito della Vita del Popolo su un unico candidato, il giornalista settantaseienne Shuntaro Torigoe - si piazza al terzo posto con 1.346.000 preferenze (20,5%). In netto aumento, al 59,73%, l'affluenza (era stata del 46,14% nel 2014).
Per la dissidente liberal-democratica si preannuncia un cammino in salita dato che in Assemblea Metropolitana (che viene eletta separatamente, l'ultima volta nel 2013) potrà contare unicamente su due dei 60 consiglieri del PLD.
Prendendo atto del risultato elettorale si è dimesso il Presidente della federazione edochiana dei liberal-democratici Nobuteru Ishihara. Anche in casa democratica si agitano le acque: in polemica con la propensione unitaria di Okada, potrebbe candidarsi alla guida del PDG (che rinnoverà le cariche in settembre) Akihisa Nagashima.

I quattro segretari dell'opposizione, in una riunione avvenuta il 26 luglio, hanno, comunque, confermato la volontà dei rispettivi partiti di proseguire la collaborazione anche in vista delle prossime elezioni politiche del 2018. “Credo che la vittoria in 11 seggi uninominali rappresenti un importante risultato” e che il PDG “proseguirà per quanto possibile la collaborazione con gli altri partiti anche alle politiche”, ha affermato il Segretario democratico, Yukio Edano. “Dobbiamo continuare a lavorare insieme per le elezioni suppletive della Camera dei Rappresentanti di ottobre così come alle prossime politiche” ha dichiarato il Capo della Segreteria comunista Akira Koike.

A livello nazionale, come era nell'aria da tempo, Abe ha effettuato, lo scorso 3 agosto, l'ennesimo rimpasto di governo. A fare maggiormente discutere è la sostituzione di Gen Nakatani, dal ministero della Difesa, con Tomomi Inada, già Presidentessa della Commissione Nazionale di Pubblica Sicurezza (l'organismo politico-amministrativo responsabile della polizia) ed ex ministro per le Riforme Amministrative.
Inada è nota per le proprie posizioni di ultradestra e negazioniste rispetto ai crimini del colonialismo nipponico (nega, ad esempio, il massacro di Nanchino) nonché per un incontro, con tanto di foto, con il leader del partito nazista nipponico, Kazunari Yamada.
Rimpiazzati anche i due ministri che non avevano ottenuto la riconferma nelle elezioni per il rinnovo parziale della Camera dei Consiglieri: il deputato Katsutoshi Kaneda prende il posto di Iwaki alla Giustizia mentre il senatore Yosuke Tsuruho sostituisce Aiko Shimajiri al Ministero per Okinawa e i Territori del Nord.
Rimangono al loro posto i ministri chiave - e strettissimi alleati di Abe - delle Finanze, Taro Aso, degli Esteri, Fumio Kishida e degli Interni, Sanae Takaichi (anche lei fotografata insieme a Yamada) nonchè il Segretario Generale del Gabinetto, Yoshihide Suga.
Riconfermato alle Infrastrutture e Trasporti anche il rappresentante nel governo del Nuovo Komeito, Keiichi Ishii. Nuova delega - che si aggiunge a quelle per le Misure sul Declino Demografico, Pari Opportunità e Coinvolgimento Dinamico di Tutti i Cittadini - alle Riforme del Lavoro, per Katsunobu Kato, il quale dovrà occuparsi di trasformare in fatti l'affermazione “stesso lavoro, stessa paga” e di affrontare il tema dell'eccessivo ricorso agli straordinari da parte di molte aziende.
Yuji Yamamoto, già alle Politiche Fiscali in un precedente governo Abe, va all'Agricoltura (posto rifiutato da Shigeru Ishiba che punta alla leadership del partito e del governo e che viene sostituito al dicastero per la Rivitalizzazione Economica dall'ex viceministro Kozo Yamamoto) mentre Jun Matsumoto passa dagli incarichi di partito alla presidenza della Commissione Nazionale di Pubblica Sicurezza.
Masahiro Imamura, ex titolare dell'Agricoltura assumerà l'incarico di ministro per la Ricostruzione mentre Koichi Yamamoto, in passato al Ministero degli Interni, sostituisce Tamoyo Marukawa all'Ambiente (per quest'ultima si sono aperte le porte del dicastero per l'organizzazione dei giochi olimpici del 2020).
Cambio di rilievo ha interessato il dicastero di Economia, Industria e Commercio, con Hiroshige Seko, già vicesegretario del Gabinetto ed ex responsabile della comunicazione del gigante telefonico NTT, che prende il posto di Motoo Hayashi.
Il rimpasto nel governo ha riguardato anche il partito, con Toshihiro Nikai (parlamentare da undici legislature e già ministro ad ogni cosa) che prende il posto, nella segreteria, di Sadakazu Tanigaki, recentemente dimessosi dopo un grave incidente in bicicletta che gli ha lesionato il midollo spinale.

Come annunciato la scorsa settimana, il governo ha, intanto, varato il piano di stimoli, in larga parte fiscali, per rilanciare la stagnante economia nipponica. Il mega-piano (tredicimilacinquecento miliardi di yen, pari a 132 miliardi di dollari), approvato dal governo martedì scorso, e che sarà spalmato su più anni, segue temporalmente le ultime politiche di allentamento monetario (alle quali è politicamente legato) decise la scorsa settimana dalla Banca del Giappone e si baserà, in grandissima parte, su nuovo debito finanziato dalla BOJ. Il piano prevede, per i prossimi anni, nuove spese per settemilacinquecento miliardi di yen (in parte tramite trasferimenti agli enti locali). Tremilacinquecento miliardi saranno destinati a misure per il contrasto del calo demografico (obiettivo per raggiungere il quale Abe ha istituito un apposito ministero), in particolare per misure volte al miglioramento delle condizioni dei lavoratori addetti ai servizi alla persona. Il pacchetto di stimoli sarà integrato da partnership pubblico-private per altri 14.600 miliardi.

Il Sol Levante rimane, intanto, osservato speciale del Fondo Monetario Internazionale, il quale, in un proprio report del 2 agosto, rileva che “i consumi privati e gli investimenti sono anemici”. Per l'organismo guidato da Christine Lagarde, che stima la crescita nipponica dello 0,3 nel 2016 e dello 0,1 nel 2017, “il Giappone ha un limitato spazio per uno stimolo monetario e fiscale dato l'alto debito pubblico”.
L'IMF ha suggerito al governo di Tokyo - anche durante le recenti consultazioni tra il Sol Levante ed il Consiglio Direttivo dell'ente internazionale - di lavorare sugli incentivi fiscali indirizzati alle aziende che aumentano i salari (“o, come ultima spiaggia, introducendo sanzioni”); una riforma del lavoro che, sempre tramite la leva fiscale, incoraggi le aziende ad assumere lavoratori a tempo pieno accelerando allo stesso tempo sul programma “stesso lavoro, stessa paga”; una maggiore apertura del mercato del lavoro ai lavoratori stranieri; una politica di graduale aumento della tassa sui consumi (l'aumento di tre punti deciso dal governo è stato rimandato al 2019) “almeno fino al 15%, con incrementi dallo 0,5 all'1% ad intervalli regolari” e di contenimento della spesa pensionistica (i pensionati di ogni latitudine rimangono il nemico numero uno per Lagarde).

Proprio sulle pensioni, il 29 luglio, sono finalmente usciti i dati del bilancio del fondo pensionistico pubblico del Sol Levante (Government Pension Investment Fund). Il fondo, presente in borsa ed azionista di numerosissime aziende in patria ed all'estero, ha perso, nel 2015, circa cinquemilatrecento miliardi di yen. Nel 2014 il governo aveva deciso di aumentare, dal 24 al 50 per cento, il patrimonio investito nel mercato azionario. “I cambiamenti nel portafoglio titoli hanno, ovviamente, prodotto, perdite aggiuntive” ha affermato il Segretario dei comunisti, Koike, “il governo ha la grave responsabilità di aver causato una così pesante perdita sul patrimonio previdenziale della gente” ha aggiunto il parlamentare.

Il tema del salario minimo, evidenziato dal FMI, è stato al centro anche del 28° congresso del sindacato Zenroren, svoltosi dal 28 al 30 luglio a Tokyo. La confederazione ha adottato un programma biennale di azioni per raggiungere gli obiettivi di un aumento generalizzato del salario minimo orario, del blocco della riforma della Costituzione e del portare il numero dei propri iscritti ad un milione e mezzo (attualmente sono circa 1.200.00, numero che fa di Zenroren la seconda confederazione del Paese dopo Rengo).
Il 28 luglio, l'organizzazione sindacale era, intanto, intervenuta per denunciare la condizione di molti apprendisti stranieri impiegati sotto l'ombrello di un programma internazionale di formazione e lavoro cui aderisce il Giappone. Il segretario della federazione di Aichi, parlando in conferenza stampa, aveva reso nota la situazione dei circa 3.000 apprendisti stranieri assunti nel settore tessile nella propria Prefettura. Il salario medio orario di questi lavoratori si aggirerebbe intorno ai 500 yen: 254 yen in meno del salario minimo vigente nella Prefettura.

In ambito agricolo, dati ministeriali resi noti martedì scorso, mostrano come il Sol Levante abbia, nuovamente, fallito gli obiettivi governativi per un tasso di autosufficienza alimentare del 45%. Nell'anno 2015, il tasso di autosufficienza alimentare si è, infatti, fermato al 39%. Sempre secondo il Ministero, il calo del volume del pescato (-3%) e del consumo di riso (-2%) è stato parzialmente coperto da un aumento della produzione della barbabietola da zucchero e del grano. Tra le maggiori economie, il Sol Levante ha il più basso tasso di autosufficienza alimentare, scendendo dal 79% di calorie “nazionali” pro capite del 1960 al 37% del 1993 per poi attestarsi intorno al 20% negli ultimi venti anni.

In politica internazionale, i reiterati lanci - gli ultimi due lo scorso 2 agosto - da parte nordcoreana, di missili balistici verso il Mar del Giappone (uno dei due razzi è caduto in Zona Economica Esclusiva di Tokyo) non aiutano ad attenuare la tensione nell'Asia del Nord-Est. Consueta la risposta del Ministero della Difesa (“stiamo raccogliendo ed analizzando dati ed informazioni”) mentre il titolare degli Esteri Kishida ha provato, senza successo a causa del veto cinese, a porre la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti sono sempre più determinati a rafforzare il loro sistema di difesa antimissilistico in una escalation che potrebbe avere nefaste conseguenze.

Ad Okinawa, intanto, un gruppo di consiglieri della Prefettura ha consegnato, lo scorso 26 luglio, al locale ufficio della Difesa la risoluzione, recentemente approvata, che chiede al governo di non proseguire nella realizzazione degli eliporti destinati alle truppe USA a Takae. Il giorno prima il ministro Nakatani, in uno dei suoi ultimi atti alla guida della Difesa, aveva confermato, incontrando il Comandante delle truppe statunitensi nel Pacifico, Harry Harris, la volontà del governo di “lavorare duramente” per la realizzazione della nuova base di Henoko e dei nuovi eliporti.
Nel contempo, il neoministro per Okinawa e i Territori del Nord, Tsuruho, ha voluto subito mettere in chiaro quale sarà il suo atteggiamento rispetto alle servitù militari presenti nella Prefettura, affermando che i ritardi nella costruzione delle facilities avranno ripercussioni sui trasferimenti del governo nazionale: “le misure per lo sviluppo e la questione delle basi sono, senza dubbio, tra loro legate”. “E' naturale che i trasferimenti saranno ridotti se non vi saranno progressi nei lavori”, gli ha fatto eco il Segretario Generale del Gabinetto, Suga.

(con informazioni di Japan Press Weekly 27 lug. - 2 ago. 2016; mod.go.jp; imf.org; the-japan-news.com; asahi.com; japantimes.co.jp)

Non sono passate che poche settimane dalla pubblicazione dei dati che certificano l'incremento in Italia della povertà assoluta (leggi qui) e il governo, senza pensarci su troppo, riesce a imbarcare il Paese in una nuova guerra, nonostante a marzo le piazze italiane abbiano chiaramente espresso la contrarietà a qualsiasi coinvolgimento militare dell'Italia.

Venerdì, 05 Agosto 2016 00:00

L'islam e le cose che andrebbero dette

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Il discorso pubblico - da bar piuttosto che da università - intorno all'Islam occupa oggi uno spazio quotidiano nelle nostre vite. I presupposti di partenza sono per ognuno di noi, ovviamente, differenti. Se appare chiaro quanto viene propagandato, riscuotendo indiscutibile consenso, da una certa destra (più muri, più chiusura, richiamo al concetto “un popolo, una fede”) più complesso, e spesso manchevole, è il “nostro” discorso. Vi è, infatti, a sinistra ma anche tra i semplici liberali, un “detto” e un “non detto” insopportabile.
Premesso, con ogni evidenza, che non si può - e non si deve! - utilizzare l'armamentario ideologico della destra, occorrerebbe tenere a mente che, come diceva Lenin: “i fatti hanno la testa dura”.
Un confuso senso del multiculturalismo impedisce spesso di denunciare la natura oppressiva che la religione islamica (in sé, per ciò che viene mostrato e dunque è, al di là di un'improvvisata difesa della purezza teologica che, quando fatta da atei, appare anche ridicola) esercita su milioni di uomini e, soprattutto, di donne.


Tutte le religioni, in particolare quelle monoteistiche esercitano forme di oppressione su minoranze sessuali, sul genere femminile etc. Tutte le religioni, in particolare quelle monoteiste, prese dalla loro smania di convertire il mondo, portano con sé un sottofondo di violenza.
Lo fa, lo ha fatto, anche il cristianesimo. Alla religione di San Paolo e di Costantino è stato però imposto un limite alla sua, istintiva, sete di predominio e di organizzazione della società. I ferventi cattolici individuano questo limite nel messaggio di umiltà e di non violenza propagandato dal Vangelo. Toccando soltanto ai margini la teologia (che è materia seria, anche se “cerca in una stanza buia un gatto nero che non c'è”) ed addentrandosi nella storia, vi è una risposta più plausibile alla limitazione che è stata imposta (non autoimposta, ma imposta dall'esterno) al cristianesimo nelle società europee.
Da un lato la scissione protestante ha svolto, per il suo stesso esistere, un ruolo indiscutibilmente liberatorio (potremmo dire progressista in senso lato). La presenza di più “cristianità”, di fedeli aderenti a varie chiese ma tutti cittadini (anche di appartenenti a classi agiate e persino dei principi) ha fatto sì che gli Stati (ancora oggi i più laici del Continente) nei quali la Riforma ha più preso piede si ponessero come arbitri. Ciò ha generato una separazione tra lo Stato (ed i suoi valori) e le Chiese capace di far sorgere uno “spazio pubblico” più libero del precedente.
Il secondo aspetto storico è l'immensa fiaccola civilizzatrice che a partire da Parigi ha illuminato il mondo intero. La Rivoluzione Francese è il fondamento valoriale di tutte le grandi dottrine che governano o hanno governato le nostre società (tanto quelle liberaldemocratiche quanto quelle socialiste). Il principio dell'uguaglianza formale, il diritto alla scalata sociale, la netta separazione tra gli spazi privati (nei quali è stata confinata la religione) e quelli pubblici, sono stati il basamento sul quale si sono poi edificati nuovi diritti (civili o sociali).
I Paesi nei quali l'islam è nato, e nei quali è stato a lungo confinato, prima dei processi migratori verso l'Europa, non hanno vissuto quel processo rivoluzionario passando spesso direttamente dal feudalesimo (anche religioso) ad una modernità vissuta spesso come imposizione del colonialismo (cosa che è in parte anche stata) occidentale e dunque come un male da respingere.

Ma vi è di più. La mancata separazione tra il livello politico (la gestione e l'organizzazione della società) e quello religioso affonda, nell'islam, le proprie radici nella stessa dottrina di quella fede. Se si guarda, infatti, alla sua nascita, non si può non vedere la totale identificazione tra il livello politico (rappresentato dal capotribù Maometto, fondatore di una comunità basata non su vincoli di sangue ma sulla comune appartenenza di fede) e quello religioso (rappresentato dalla stessa persona fisica). Una identificazione che è stata pressoché inscindibile per alcuni secoli (almeno fino all'ultimo dei “Califfi ben guidati”).
Si dirà che da quella unione totale sono passati alcuni secoli ma non si può allo stesso modo sostenere che la volontà di corrispondenza assoluta tra il potere politico e l'autorità religiosa non abbia nell'islam un suo fondamento dottrinale. E' stato, quello, un lascito talmente profondo che molti degli ordinamenti, anche di Paesi laici ma a maggioranza mussulmana, sono stati influenzati dalla sharia; un lascito talmente intenso che i diritti (in gran parte simbolici) di guida religiosa dell'ultimo sultano della Sublime Porta, sono stati aboliti soltanto negli anni '20 dello scorso secolo.

Chi si fa dunque portatore di questa interpretazione rigida (non deviata, si badi bene, semplicemente rigida e non disposta a patti con la modernità) dell'islam non può essere definito unicamente un matto, anche se vi è indiscutibilmente la presenza di disturbati psichici nelle fila dei terroristi. Non sono quindi - soltanto - matti e non possiamo noi - atei - dire cos'è il vero islam. Questi terroristi sono islamici in quanto si definiscono tali ed interpretano alla lettera (sono quasi “più mussulmani”) il corano facendosi portatori di concetti appartenenti pienamente alla dottrina islamica. Chi viene affascinato da queste interpretazioni rappresenta sicuramente una minoranza del mondo sunnita (anche se i simpatizzanti di tali teorie sono sicuramente milioni) ed i massimi esponenti teologici dell'islam (in primo luogo l'Università al-Azhar) hanno espresso una chiara condanna, non da oggi, di tali interpretazioni definendole non autentiche. Ciò nondimeno queste teorie non sono esterne all'islam, ne fanno parte a pieno titolo ed i suoi sostenitori, se fanno professione di fede e se rispettano i cinque Arkan al-Islam (unici criteri - in mancanza di un'autorità teologica unica in grado di "scomunicare" i fedeli che si allontano dai propri insegnamenti - per definirsi fedeli islamici), non possono vedersi sottratta la patente di islamici in nome del politically correct.

Vi è però - dato che la maggioranza degli islamici che abitano le nostre società sono poveri o comunque lavoratori dipendenti (e dunque potenzialmente rappresentabili da chi si schiera a sinistra) - un giustificazionismo, anche teologico, una difesa pro domo altrui che non tiene conto della massima “occorre elevare la coscienza delle masse, non adeguarsi ad essa”.
Si ci scaglia con una forza incredibile (e pienamente giustificata) se un Bagnasco qualsiasi dice qualcosa contro gli omosessuali ma, spesso, si tace se posizioni simili vengono espresse da un rappresentante della comunità islamica. Si fanno parallelismi acrobatici tra le affermazioni di qualche odioso esponente politico e chi, oltre ad affermare, uccide (vi sarà pure, per onestà intellettuale, una differenza tra querelare un vignettista e sgozzarlo?).

Altra affermazione che tenta di allontanare i propugnatori di tale dottrine dal “vero islam” è quella secondo la quale la maggioranza delle vittime di quella cieca violenza siano mussulmane. Ciò è assolutamente vero, ma non toglie nulla alle motivazioni che spingono quegli uomini ad agire e che dunque attribuiscono la qualificazione ideologica di quella violenza.
Per dirla meglio: la maggioranza delle vittime della mafia sono siciliane. Si può, senza incorrere nel ridicolo, sulla base di questo assunto, affermare che la mafia sia un qualcosa di esterno alla Sicilia?
La maggioranza di quelle vittime, per altro, sono sì mussulmane ma “mussulmane sbagliate”: appartengono cioè allo sciismo duodecimano (o alle sue innumerevoli filiazioni) e sono dunque dei “kafir”, che vanno colpiti come e quanto i cristiani.

Un'altra delle tesi giustificazioniste tenta di attribuire, in toto, la nascita e la crescita di questi movimenti all'imperialismo. Occorre qui far chiarezza: l'imperialismo ha storicamente un ruolo, ed una colpa incancellabile, nell'aver coccolato questi gruppi (ora contro i sovietici, ora contro i russi od i cinesi) ma non ha fatto nascere questi movimenti.
L'Arabia Saudita, grande madre ideologica di costoro, è sorta anche grazie al contributo dell'imperialismo britannico che, in funzione anti-ottomana, ha appoggiato il wahabismo ma il wahabismo non è stato creato dai britannici a Londra: esisteva già.

Non si tratta dunque di singoli matti o di marginali sociali (ci sono anche quelli): si tratta di un fenomeno pienamente religioso e pienamente islamico. Per convincersene ancora meglio un altro elemento di riflessione è dato dalla presenza di tali gruppi unicamente nell'islam sunnita. Perché essi esistono tra i sunniti e non tra gli sciiti? Perché nello sciismo è l'ultimo imam (in quello maggioritario il dodicesimo) a poter invocare il jiahad. Dato che da un migliaio di anni, l'ultimo imam si è “occultato” (si, secondo la dottrina non è morto) e solo alla fine dei tempi compirà la parusia possiamo star tranquilli sul fatto che gli sciiti non provocheranno guerre sante. Al contrario, nel sunnismo, la umma (tutta la umma, prescindendo dagli Stati nazionali) può essere guidata da chi ne abbia le capacità ed abbia seguito e costui può anche invitare alla conquista.

In conclusione quella che è in corso non è una guerra di religione (il miliardo di mussulmani del mondo ha ben altri problemi a cui pensare) ma è sicuramente una guerra religiosa e la si combatte anche lottando per una riduzione del potere delle religioni (tutte, anche quella islamica) sulla società, sulla politica, sul nostro vivere quotidiano: senza ambiguità, ipocrisie o giustificazionismi.

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