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Sabato, 01 Ottobre 2016 00:00

Riformare la politica, non l'opposizione

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Se il buongiorno si vede dal mattino, lo spettacolo offerto da Matteo Renzi durante il suo primo giorno ufficiale di campagna elettorale referendaria è alquanto desolante. Si tratta infatti di una vera e propria conferma della tesi, ormai parecchio diffusa, che vede l’attuale premier come un vero e proprio “Renzusconi”, cioè l’ultima offerta politica del “serpentone metamorfico” (mi si passi il termine previano) nella fase di completa decadenza della democrazia. Chi voglia vedere uno spettacolo appena un po’ più desolante può sollazzarsi con la delirante campagna elettorale americana, dove i due rappresentanti della belva imperialista con la bava alla bocca si contendono il consenso di un pubblico completamente mitridatizzato, che segue lo show nonostante fuori vi siano piazze in rivolta e omicidi delle forze dell’ordine quotidiani.

La necessità di un ulteriore dibattito per la riforma costituzionale ed una discussione sulla legge della Casa Imperiale a fronte delle intenzioni di Akihito ad abdicare: queste le indicazioni date dal premier Abe in un discorso dello scorso lunedì precedente l'apertura della sessione plenaria della Dieta (che chiuderà i propri lavori a fine novembre).
Un'accelerazione ad una riforma, cuore delle intenzioni politiche della parte più conservatrice del Partito Liberal-Democratico, la cui discussione si trascina dal ritorno di Abe alla guida del Kantei.
Spazio, nel discorso di Abe c'è stato anche la riforma del diritto del lavoro. In tale ambito il 27 settembre ha avviato i propri lavori il Consiglio per la Realizzazione della Riforma del Lavoro, tavolo consultivo del governo che nelle intenzioni del premier dovrebbe migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori precari o a tempo parziale (in particolare per la politica “stesso lavoro stessa paga”), un miglioramento dei salari e della produttività, un freno all'eccessivo ricorso da parte delle aziende agli straordinari, uno stimolo all'occupazione femminile e a quella degli anziani, interventi per favorire il lavoro degli stranieri.
In buona sostanza le aspirazioni dell'organismo consultivo ricalcano le indicazioni fornite nelle scorse settimane dal Fondo Monetario Internazionale durante le consultazioni bilaterali con i rappresentanti del Sol Levante.

Sempre sul fronte economico notizie poco incoraggianti per i liberisti nipponici arrivano dal World Economic Forum di Davos. Nel rapporto sulla competitività, reso noto a Ginevra lo scorso 28 settembre, il Sol Levante è sceso dal sesto all'ottavo posto (prima la Svizzera seguita da Singapore, Stati Uniti, Paesi Bassi e Germania). Secondo il rapporto a far scendere il Giappone nel classifica maggiormente venerata dai liberisti vi sarebbero le difficoltà incontrate dalle aziende nel licenziare (115° posto tra le 138 nazioni analizzate), la bassa percentuale di occupazione femminile (qui il Giappone si trova al 77° posto) e la scarsa capacità di attirare su suolo nipponico lavoratori qualificati (anche qui al 77° posto). Migliori giudizi sono arrivati dal livello infrastrutturale (qui il Sol Levante sarebbe quinto) e sugli investimenti privati in ricerca e sviluppo (quarta posizione).

In tema di servitù militari permane incolmabile la distanza tra il Governatore della Prefettura di Okinawa, l'antimilitarista Takeshi Onaga, ed il governo centrale circa la ricollocazione della base di Ginowan a Nago. Onaga e la neoministra della Difesa, Tomomi Inada, lo scorso 24 settembre, hanno avuto un incontro - a Naha, capoluogo della Prefettura - nel quale entrambe le parti hanno ribadito le proprie posizioni. Nel commentare la sentenza che ha dato ragione al governo (che aveva fatto ricorso contro la revoca, da parte della Prefettura, di alcune autorizzazioni, rilasciate dal predecessore di Onaga, Nakaima, necessarie a dei lavori preparatori per la base militare) Onaga ha affermato che essa “è inaccettabile e calpesta i sentimenti degli abitanti di Okinawa”. Contro la sentenza il governo della Prefettura si è appellato, lo scorso 23 settembre, alla Corte Suprema.
Contrarietà è stata espressa da Onaga anche l'aviotrasporto, da parte delle Forze di Autodifesa, di materiali utili al completamento dei sei eliporti in fase di realizzazione a Takae e destinati alle forze statunitensi. Contro la costruzione degli eliporti, lo scorso 21 settembre, è stato presentato un ricorso presso la Corte di Naha da 33 cittadini residenti nell'area mentre lo stesso giorno si presentava, con una conferenza stampa presso la Camera dei Consiglieri, un nuovo gruppo civico contrario all'ennesima servitù militare.

Intanto, il 26 settembre, è stato siglato un nuovo accordo per il supporto logistico tra le Forze di Autodifesa e le forze armate statunitensi. La nuova intesa (Acquisition and Cross-Servicing Agreement in inglese) è conseguenza dei disegni di legge, approvati nel settembre 2015, che consentono, in violazione della Costituzione, l'intervento all'estero delle FA. “È un importante accordo che consente una migliore cooperazione che è stata espansa dalla legislazione sulla sicurezza nazionale” ha affermato il ministro degli Esteri, Fumio Kishida, che lo ha siglato con l'ambasciatrice di Washington a Tokyo, Caroline Kennedy.

ENI ci ripensa. L’ Off-shore Ibleo "non s’ha da fare”

La notizia uscita pochi giorni fa rappresenta una “novità” inaspettata sul fronte delle estrazioni petrolifere. Il referendum di Aprile, quello famoso sulle trivelle (in mare), d’altronde poteva rappresentare un trampolino di lancio per le ambizioni economiche delle compagnie petrolifere stazionanti nel Belpaese. Si apprende direttamente dall’azienda del cane a sei zampe che l’intenzione di realizzare il nuovo impianto “Prezioso K” anche se permane, secondo una nota dell’azienda, il progetto Argo Cluster. Il colosso petrolifero fa sapere che dietro alla scelta si inseriscono motivazioni relative alla sostenibilità del progetto stesso, anche se tutto ciò a parere dei vertici di Eni non rappresenta un disinvestimento nell’area.

Novità poco piacevoli per il Sol Levante giungono dagli ultimi dati demografici resi noti dal Ministero degli Interni lo scorso 15 settembre. La percentuale di ultrasessantacinquenni ha raggiunto infatti la cifra record del 27,3% sul totale della popolazione (ed il 30,01% - ed è la prima volta - tra le donne). La popolazione anziana è cresciuta, in termini assoluti, di 730.000 unità (per un totale di 34,61 milioni di ultrasessantacinquenni).
Andando maggiormente in dettaglio si ha un numero di ultrasettantacinquenni cresciuto, nell'ultimo anno, di 590.000 unità (per un totale di 16,97 milioni di persone pari al 13,4% della popolazione); gli ultraottantenni sono aumentati di 430.000 unità (per un totale di 10,45 milioni di persone pari all'8,2%).
Numeri record anche per gli ultrasentacinquenni che ancora lavorano: al 2015 essi erano 7,3 milioni (in crescita di 490.000 unità rispetto all'anno precedente).

Nel suo ultimo lavoro Domenico Moro prosegue la sua analisi iniziata in Globalizzazione e decadenza industriale indagando le ricadute della disgregazione sociale e produttiva sui vari territori dominati dall'imperialismo. Questo concetto, tanto fondamentale quanto dimenticato (proprio nel centenario dalla pubblicazione del celebre L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo di Lenin!), viene posto al centro del saggio. La scelta dell'autore di portare nel dibattito sulla Terza guerra mondiale il tema dell'imperialismo è fondamentale, poiché senza partire da un'analisi dell'accumulazione su scala globale e della sua crisi non si possono affatto capire le dinamiche che agiscono alla base dei nuovi conflitti e ancor meno inserirli in una coerente concezione dei rapporti di forza tra Stati.

Così, partendo da una ricognizione sul ruolo dell'imperialismo che vede nei Paesi centrali una «concentrazione del potere economico nelle mani di élite molto internazionalizzate nei loro legami e rapporti economici, cui corrisponde una concentrazione del potere politico mediante una trasformazione oligarchica delle istituzioni statali», si giunge, tramite «la stagnazione cronica del modo di produzione capitalistico nei suoi punti più alti di sviluppo, dove si produce una tendenza permanente al calo del saggio di profitto» alla «tendenza all'espansionismo verso l'esterno»1. Dunque, in una condizione di stagnazione dei mercati interni, il surplus produttivo e i capitali vengono esportati allo scopo di trovare maggiore redditività in mercati in cui il margine di profitto è più elevato. Tuttavia, ciò che è fondamentale capire secondo Moro è che «l'aumento della concorrenza tra imprese e tra aree economiche sovranazionali» è tale per cui la «concorrenza non si combatte soltanto attraverso i meccanismi impersonali del mercato mondiale autoregolato», bensì ci «si avvale anche della forza degli Stati»2 i quali continuano dunque a esercitare un ruolo imprescindibile. Quindi la capacità di «proiezione di forza» diventa un elemento fondamentale nella geopolitica attuale.

Il discorso sviluppato dall'autore diventa ancor più interessante quando viene affrontato di petto il ruolo della religione in quanto “oppio dei popoli”, nella quale si rispecchiano le sofferenze di un'umanità afflitta dall'oppressione del capitale, per cui «la religione retroagisce sulla stessa struttura economico-sociale e sugli assetti di potere politico contribuendo a modificarli»3. Dunque, la religione esercita una funzione ben più materiale di quanto si possa immaginare, in quanto «più che rispondere alla paura della morte, cioè ai problemi dell'aldilà, risponde alla paura, alle sofferenze della vita, cioè ai problemi dell'aldiquà»4. Il problema che sorge nella postmodernità è quindi dettato dalla perdita di senso del futuro e della vita stessa, in particolare nelle classi proletarie e sottoproletarie vittime della globalizzazione. A questo problema ha saputo rispondere con abilità la religione e in particolare il fondamentalismo islamico sembra aver interpretato al meglio la desecolarizzazione affermatasi con la globalizzazione e il venir meno dell'alternativa rappresentata dai movimenti di liberazione nazionale. In questo senso Moro, riportando l'esempio dei Fratelli musulmani, ne parla esplicitamente come «“terza via” tra subalternità all'Occidente e movimenti di liberazione nazionale»5.

L'analisi del rapporto tra imperialismo e religione islamica è però attenta ad evitare una semplificazione comune nel mainstream che tende a ridurre l'islam ad un blocco omogeneo con tendenze autoritarie. Infatti, se si riconosce che il radicalismo islamico iniziò ad affermarsi a partire dalla rivoluzione iraniana del 19796, si distingue l'eterogeneità del fenomeno in relazione ai contesti, per cui divengono chiaramente distinguibili i due modelli dell'Arabia Saudita e dell'Iran. Nel primo caso la forte saldatura tra fondamentalismo religioso e radicalismo politico islamico avviene all'interno di uno sviluppo dipendente, in cui «il rapporto con i Paesi del centro economico mondiale impone a questi Paesi di rimanere nella condizione prevalente di fornitori di materie prime e di manodopera a basso prezzo», cioè vi è una economia prevalentemente extravertita per dirla con Samir Amin, in cui le imprese producono «non per il mercato locale, che rimane depresso, ma per i mercati europei»7. In questo tipo di economie gli interessi feudali, nel caso dell'Arabia Saudita prevalentemente legati alla rendita petrolifera, tornano prepotentemente al centro della scena, determinando una regressione all'economia parassitaria e all'islam primitivo. I legami di tali economie con il centro dell'imperialismo, tramite l'inserimento di questi nuovi rentier all'interno della classe capitalistica transnazionale, non fanno che rendere più pericoloso l'imperialismo creando legami sempre più solidi tra il centro e le visioni arcaiche e tradizionaliste dell'islam. L'Iran islamico, pur caratterizzandosi per «la violenta e sanguinosa eliminazione delle formazioni laiche e di sinistra e in particolare del partito comunista, tutt'ora illegale»8, con la rivoluzione islamica del 1979 seppe mobilitare la «base di classe tra le masse povere», compiendo quella che «è stata forse l'ultima rivoluzione antimperialista di successo del ciclo storico della decolonizzazione»9. Certamente l'egemonia del clero sciita iraniano seppe leggere in anticipo i tempi nell'area mediorientale e ciò gli consentì di sostituire abilmente lo strumento ideologico in grado di saldare le masse facendo venir meno l'elemento laico e socialista. Altrettanto certamente la rivoluzione del 1979 ha creato una rottura di faglia nell'area mediorientale le cui conseguenze si riverberano ancora profondamente nel presente e il saggio di Moro sembra coglierle appieno quando descrive le forme complesse di un conflitto che si trascina da ormai oltre un trentennio nella «lotta per l'egemonia locale»10.

Parallelamente, la centralità economica dell'area mediorientale ha inevitabilmente condotto ad una fase di sempre più aperta conflittualità nelle aree periferiche dove allo schieramento americano si è opposto con sempre maggiore fermezza quello russo-cinese. L'innalzamento del livello dello scontro viene descritto tramite le “proxy war” che hanno ormai preso piede in tutta l'area periferica (si pensi all'Africa dove all'avanzata cinese si oppone il neocolonialismo francese) e che sono giunte ormai fino all'interno dell'Europa (si pensi alla situazione in Ucraina). Insomma, tramite l'attenta ricostruzione della saldatura avvenuta tra imperialismo e religione e l'utilizzo di nuovi concetti, come per l'appunto quello di “proxy war”, l'autore ci spiega come oggi l'obiettivo non sia più necessariamente quello di «esercitare un controllo su una certa area per sfruttarne le risorse», bensì sia quello di «sottrarre un'area al controllo dei concorrenti o impedire che questi ne usino liberamente le risorse»11. In questo senso il caos diventa una vera e propria arma al servizio dell'imperialismo. E sempre in quest'ottica il fondamentalismo religioso diventa il vero e proprio braccio armato dell'imperialismo in grado di destabilizzare aree di interesse vitale, nonché di deviare l'attenzione nel centro stesso dell'imperialismo, consentendo di instaurare Stati di diritto eccezionale (perpetui?) e mantenere in piedi complessi militar-industriali sempre più mastodontici e comunque utili come sostegno al capitale in crisi. Dopo gli attacchi a “Charlie Hebdo” (nel gennaio 2015), di Parigi e Bruxelles (nel marzo 2016) diventa indispensabile guardare con attenzione al Medio Oriente e leggere con scrupolo l'attuale fase imperialista in cui il radicalismo islamico certamente diventa il protagonista, ma in un contesto di competizione globale che trascende il Medio Oriente stesso e il saggio di Moro ci aiuta proprio in questa necessaria opera di chiarificazione.

1 D. Moro, La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, pp. 110 – 111.
2 Ivi, p. 111.
3 Ivi, p. 40.
4 Ivi, p. 51.
5 Ivi, p. 69.
6 Ivi, p. 79.
7 Ivi, p. 82.
8 Ivi, p. 100.
9 Ivi, p. 96.
10 Ivi, p. 100.
11 Ivi, p. 108.

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