Da alcuni mesi la sua casa è stata demolita e non guadagna abbastanza per pagarsi un affitto, anche il più economico: con il lavoro al supermercato guadagna poco più di cento euro al mese, con la merce che vende talmente poco che non sa nemmeno se vale la pena continuare. Elisabete non rientra nel programma di rialloggio; dopo la demolizione non le sarà data una casa popolare, gli impiegati del comune con cui è riuscita a parlare le hanno detto che il comune è disponibile a pagarle due mesi d’affitto, ma, se non dovesse riuscire a continuare a pagare nei mesi successivi, l’unica soluzione sarà quella di tornare nel suo paese di origine, magari da qualche familiare. Per ora Elisabete vive in uno dei locali sotterranei della chiesa, che il parroco ha messo a disposizione, ma questo alloggio improvvisato non potrà durare a lungo: sono infatti previsti dei lavori di ristrutturazione e lei e le altre persone che sono state accolte temporaneamente, dovranno presto andarsene.
Siamo a Santa Filomena, uno dei tanti quartieri autocostruiti (i cosiddetti Bairros de Baraccas, quartieri di baracche) del comune di Amadora, che fa parte della “Grande Lisboa”, l’area metropolitana della capitale portoghese. Per arrivare qui il treno che parte dal centro sfavillante di Lisbona ci impiega 15 minuti, ma sembra di essere in un’altra città.
Di questo quartiere i giornali hanno parlato solo perché qui è nato e ha dato i primi calci ad un pallone un giocatore famoso, Nani, stella del Manchester United e della nazionale portoghese, quest’anno tornato a giocare in Portogallo, allo Sporting Lisbona. Non ne parlano invece ora che le ruspe, a poco a poco, lo stanno abbattendo, a partire dal dedalo di stradine della parte bassa, quella più intricata e poi procedendo a macchia di leopardo, in uno stillicidio che i media, in cerca di spettacolo e di notizie eclatanti, non accompagnano che sporadicamente. Non si sa quale sarà la prossima casa ad essere demolita, sembra però che il quartiere sarà abbattuto completamente nel giro di 6 mesi; ci sono ancora molte famiglie che vivono qui ma l’entusiasmo che nei primi tempi aveva coinvolto abitanti e gruppi di attivisti nella lotta per il diritto all’abitazione sta calando. Ma la speranza rimane viva, la resistenza si è fatta solo più silenziosa: negli spazi vuoti lasciati dalle case abbattute, una volta che sono state rimosse le macerie, gli abitanti hanno cominciato a seminare mais e a farsi i propri orti.
Tutto il terreno del quartiere è stato acquistato nel 2007 dal fondo di investimento VillaFundo, che appartiene alla Banca Millennium BCP: ciò ha accelerato il processo degli abbattimenti, la sollecitudine del comune di Amadora, piuttosto che essere rivolta ad interessi pubblici, favorisce i profitti di un attore privato che prevede la costruzione, in questo punto non troppo lontano dal centro di Lisbona, di un quartiere residenziale.
Breve storia dei quartieri informali
A partire dagli anni ’50 del Novecento e per le successive due decadi, la nascita di molte industrie richiamò un gran numero di lavoratori dalle campagne. Lisbona e Porto iniziano il loro processo di crescita e trasformazione, divenendo le due aree metropolitane in cui si concentra gran parte della popolazione del paese. Lisbona attrasse forza lavoro in particolar modo dall’Alentejo, la regione che si estende a sud della città, al di là del fiume Tejo, caratterizzata da un’economia agricola basata sul latifondo. Le politiche abitative del regime salazarista non erano adeguate a questo aumento vertiginoso della popolazione urbana ed iniziò, da parte degli stessi migranti, una prassi di autocostruzione di quartieri informali su terreni incolti o abbandonati. Nello stesso periodo la stessa emigrazione portoghese verso l’estero raggiunse numeri altissimi e si crearono quindi le premesse per una sostituzione della forza lavoro portoghese con un “esercito industriale di riserva” proveniente dalle colonie: gli stessi quartieri si riempirono di una popolazione proveniente soprattutto dall’Africa portoghese: Angola, Mozambico, Cabo Verde, Guinea Bissau, São Tomé e Príncipe. In seguito all’Indipendenza delle colonie infine, centinaia di migliaia di portoghesi bianchi fecero ritorno: un lunghissimo ponte aereo li riportò in una patria che molti di loro non conosceva nemmeno (molti erano nati in Africa e non avevano mai messo piede in quello che veniva chiamato “Portogallo continentale” o “Metropoli”). Molti di questi Retornados, come furono definiti, andarono ad ingrossare gli stessi quartieri che circondarono in una cintura suburbana la città di Lisbona.
All’inizio si costruivano semplici baracche in legno ma in seguito molti abitanti, con le competenze tecniche acquisite lavorando come muratori nell’industria edilizia, e avendo anche un accesso più facile ai materiali, costruirono in muratura. Le autorità cercavano di reprimere questa prassi, perciò vi era anche chi costruiva in muratura dentro le case di legno, magari portando a termine il lavoro in una sola notte, con l’aiuto dei vicini.
Questo dell’autocostruzione di interi quartieri è un fenomeno storico e sociale su cui è importante soffermarsi. Giacomo Pozzi, uno studioso italiano, ha compiuto nel quartiere di Santa Filomena una approfondita ricerca sul campo per una tesi di laurea magistrale in Storia e antropologia del mondo contemporaneo (Costruire demolizioni. Pratiche di rialloggiamento forzato nel Bairro di Santa Filomena, Lisbona, scaricabile dal sito www.academia.edu).
Oltre a fornire una precisa ricostruzione della storia di Santa Filomena, delle demolizioni che stanno, dal 2012, cancellando l’intero quartiere, e delle forme di lotta e resistenza che ci sono state e che ci sono ancora, seppur indebolite e smantellate da parte delle istituzioni e dalla repressione poliziale, il lavoro ci suggerisce una importante prospettiva antropologica sull’informalità abitativa di un quartiere come questo. Tra mille problemi, che si sono accentuati con la crisi, con l’aumento vertiginoso della disoccupazione e la ulteriore discesa dei salari nel Portogallo degli ultimi anni, quello di Santa Filomena rappresenta una forma di abitare lo spazio alternativa e trasgressiva rispetto al carattere disciplinare che si percepisce operante nei grandi congiunti edilizi delle periferie urbane contemporanee. Abitare non vuol dire soltanto occupare un alloggio, vuol dire costruire e modificare il proprio mondo, all’interno di un mondo fatto di relazioni, di reti familiari e lavorative, di amicizie, di vicinato. Nel Bairro le strade stette e intricate favoriscono i rapporti tra le persone, ogni cosa, secondo l’uso, è in trasformazione e non fissata dalle regole e dalla geometricità dei palazzi moderni. La prassi dell’autocostruzione è un momento eminentemente comunitario, di aiuto reciproco e solidarietà, che si protrae ben oltre il momento in cui sono erette le mura della casa. Diversi abitanti raccontano infatti il momento della costruzione con una forte emozione, come un momento fondante dell’esistenza propria e di quella della famiglia o come momento di stabilizzazione e consolidazione del proprio progetto migratorio.
Sono le reti sociali e comunitarie, sono i momenti fondanti dell’identità e della storia delle persone ad essere demolite dalle ruspe, insieme alle mura scrostate e ai tetti di amianto o di lamiera.
Il Programma Speciale di Rialloggio e un censimento vecchio di 20 anni
Il problema abitativo è stato affrontato in Portogallo solo secondo una logica emergenziale, attraverso decreti legge, anche dopo la fine della dittatura di Salazar. Non sfugge alla stessa logica Il PER (Programa Especial de Realojamento) del 1993, che prevede il progressivo smantellamento dei quartieri informali, e, su base di un censimento effettuato 22 anni fa, il rialloggio delle famiglie in appartamenti a costo agevolato.
Le famiglie che rientrano nel PER sono quindi solo quelle che nel 1993 erano presenti durante il censimento. Risultano esclusi tutti coloro che sono andati ad abitare successivamente nei quartieri in cui il PER è operante, senza considerare che molti sono stati esclusi in seguito per essersi assentati per qualche motivo dal loro domicilio. Inoltre, le famiglie, in più di vent’anni, hanno subito molte alterazioni: i matrimoni e distacchi dal nucleo familiare, così come le nuove nascite, non sono contemplate, con il risultato che quelle che nel ‘93 erano famiglie ristrette sono costrette a convivere in alcuni appartamenti molto piccoli insieme ai figli con le loro rispettive nuove famiglie, nate nel frattempo. D’altra parte è interessante notare come si preveda un rialloggio in case molto piccole, adatte a gruppi familiari mononucleari, per i componenti di comunità come quelle di origini capoverdiane, caratterizzate da un modello di famiglia di tipo allargato. Il PER mostra qui tutta la sua natura volta alla “rieducazione” delle pratiche dell’abitare. Deve venir distrutto l’abitare trasgressivo che con i processi di autocostruzione ha permesso alle famiglie di immigrati di consolidare il proprio percorso individuale e la costruzione problematica di una comunità. Nuovi palazzi, costruiti secondo le regole della razionalizzazione e del risparmio, vengono imposti a chi si era inventato un abitare più vicino alle proprie esigenze, in una distopia che vede la finanza, la corruzione, le mafie convergere in un unico paradigma abitativo, quello che, per usare due concetti coniati da Michel Foucault, mira insieme al disciplinamento sociale e al moderno intervento biopolitico sulle popolazioni.
Le abitazioni in cui alcune famiglie sono già state rialloggiate, per di più, sono di qualità molto bassa e situate in zone molto più periferiche. È il caso del quartiere di Casal da Boba, dove gli appartamenti, costruiti da pochi anni, presentano infiltrazioni e problemi strutturali evidenti, e un avanzato degrado. Secondo una logica per nulla lungimirante, nelle stesse “case popolari” il comune sta aumentando gli affitti, spingendo diverse famiglie che non possono pagare a lasciarle, per liberare posti nuovi per le persone la cui casa è stata demolita.
Il problema è ancora più grave per chi non rientra nel PER, e stiamo parlando di più di 5 mila di persone. Secondo i dati forniti dallo stesso comune, infatti, il 35% della popolazione dei quartieri interessati dal programma non rientra nel censimento e dunque “non ha diritto” ad essere rialloggiata. È stata peraltro creata così una distinzione e quindi una contrapposizione tra le famiglie che “hanno diritto” e quelle che “non hanno diritto”. Parlando con gli abitanti di Santa Filomena o di altri quartieri interessati dal PER, ci si accorge di quanto questa contrapposizione sia radicata nelle convinzioni delle persone, anche se il “diritto all’abitazione” è un diritto che la costituzione portoghese prevede nell’articolo 34 e 65 e che è da considerare come un diritto umano fondamentale, protetto da convenzioni internazionali e carte dei diritti.