Al di là del fatto che si tratti del primo presidente di sesso femminile nella storia croata, unico dato di rilievo almeno leggendo i commenti sulla vittoria di Kitarovic di molti giornali italiani e non solo, vi sono altri elementi da recuperare.
Da luglio 2013 la Croazia è diventato uno stato membro dell’Unione Europea, pur conservando la sua moneta nazionale. Come molti altre nazioni europee e come i suoi vicini nell’area balcanica, ha sulle spalle cinque anni di recessione e una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa. Il salario mensile medio è di 737 euro, la disoccupazione riguarda il 19,2% della popolazione e sono 317.000 i cittadini croati i cui conti bancari sono stati bloccati dallo scorso luglio, cioè circa il 7,2% della popolazione. Il presidente uscente Ivo Jospovic e il governo di Zoran Milanovic, leader del Partito socialdemocratico croato, non sono riusciti ad arginare la drammatica situazione, pagando con la perdita della massima carica statale e vedendo sfumare l’iniziale vantaggio che sembrava potersi tramutare in una vittoria scontata.
Kolinda Grabar-Kitarovic ha promesso maggior benessere per i cittadini, arrivando a minacciare elezioni anticipate nel caso in cui l’attuale governo di centro-sinistra non fosse in grado di varare le necessarie riforme. Da queste parole è facile capire come le presidenziali siano state anche un banco di prova per le parlamentari, previste per fine 2015.
Analizzare come le preferenze per l’uno o l’altra candidata si siano distribuite geograficamente può spiegare molto del come la retorica dell’HDZ sia riuscita a vincere contro quella del candidato di centro-sinistra. Nei suoi discorsi durante la campagna elettorale Grabar-Kitarovic si è presentata come una donna forte, che si batterà per migliorare la situazione economica dovuta non solo alla crisi europea, ma anche ad una cattiva gestione nazionale.
Le difficoltà economiche del Paese, per quanto importanti, non sono l’unica variabile che ha permesso all’HDZ di conquistare la presidenza. Il target a cui si è rivolta Grabar-Kitarovic è infatti preciso: fasce medio-basse su cui pesa maggiormente la crisi economica, veterani, nostalgici della “Grande Croazia”, nazionalisti ed emigrati. Non a caso sono stati determinanti per la vittoria i voti dei croati in Bosnia Erzegovina. In molti si sono organizzati con gli autobus combattendo contro una totale disorganizzazione, pur di recarsi a votare. A Mostar, il voto e l'affluenza alle urne hanno dato luogo anche a piccoli incidenti, con i votanti costretti a rimanere in fila per ore e i seggi rimasti aperti molto tempo dopo la chiusura ufficiale del voto. Kitarovic si è lasciata andare anche a commenti molto meno concilianti durante la campagna elettorale, auspicando la "revisione di Dayton" e proponendosi anzi come "promotrice di una nuova conferenza internazionale per la Bosnia Erzegovina" nel caso in cui "i tre popoli costitutivi non trovino un compromesso di riforma costituzionale". Soprattutto, Kitarovic nelle sue dichiarazioni rilasciate alla FTV bosniaca (la televisione della Federacija BH) ha criticato la nuova iniziativa anglo-tedesca per rilanciare l'integrazione europea del paese: "Un'idea che ha molti pregi ma che non permette l'uguaglianza dei croati".
Kitarovic non è l'unica ad avere bocciato il piano di Gran Bretagna e Germania: a fine dicembre anche Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, aveva dichiarato solennemente a un portale russo che "la Bosnia Erzegovina non entrerà nella NATO", e che "nemmeno l'UE è una buona opzione per il paese". Situazione che stravolgerebbe quella stabilita a Dayton nel 1995, nell’ambito degli accordi di pace. Per quanto molti concordino sull’opportunità di modificarne alcune parti, un’integrale rinegoziazione degli accordi di Dayton potrebbe generare nuove tensioni.
I rapporti tra Bosnia e Croazia potrebbero peggiorare qualora aumentasse l’ingerenza croata nella politica bosniaca. Grazie alla retorica nazionalista croata, alla riesumazione del mito della Grande Croazia e all’esaltazione della figura patriottica di Tudiman, pur condannato post mortem dal Tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità, Kitarovic è riuscita a mobilitare la popolazione croata.
Si tratta solo di retorica elettorale? Quanto è credibile un nuovo dialogo con la Serbia sul controllo e la spartizione del territorio bosniaco? Molti pensano che in queste condizioni la Croazia non sia in grado di assumere una posizione di forza sulla stabilità in Bosnia Erzegovina. Ma c’è da aspettarsi che il paese, già in miseria, aumenti ora la spesa militare. Il nuovo presidente ha annunciato la proposta d’acquisto di nuovi aerei militari, per un maggiore impegno sul fronte orientale e a protezione dello stato croato dalla minaccia fondamentalista islamica (la Bosnia Erzegovina è tra i paesi europei con il maggior numero di combattenti volontari che si arruolano nelle file dello Stato Islamico). Inoltre durante la campagna elettorale si è dichiarata più volte favorevole alla reintroduzione della leva obbligatoria. C’è da segnalare infine la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia per i crimini di guerra in ex Jugoslavia che ha stabilito la non colpevolezza di Serbia e Croazia di genocidio reciproco durante la guerra, con l’attenuante di non averlo impedito ma senza essere estesa a prova di colpevolezza, che porta a una distensione nei rapporti tra i due paesi sulla memoria della guerra, pur con alcune vicende ancora da chiarire.
Segnali preoccupanti in una penisola balcanica che ancora una volta presentano presagi inquietanti. In questi giorni a Pristina, capitale del Kosovo, si è scatenata una guerriglia urbana durante le manifestazioni per l’indipendenza del paese, con violenti scontri tra serbi e albanesi.
Da mesi la situazione in Bosnia Erzegovina appare sempre più infuocata, con le proteste della popolazione croata e gli scontri (per il momento verbali) tra i rappresentanti della Repubblica serba bosniaca e la Repubblica musulmana bosniaca. Solo le elezioni parlamentari dei prossimi mesi decideranno il nuovo corso definitivo della Croazia.
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