Martedì, 15 Marzo 2016 00:00

Sanders e Trump: due outsider agli antipodi

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Sanders e Trump: due outsider agli antipodi

Da un punto di vista meramente politologico (e quindi musica per le orecchie del dibattito mainstream americano) Sanders e Trump potrebbero sembrare declinazioni, in partiti diversi, di un medesimo fenomeno. Entrambi sono degli outsider: Sanders non era mai stato affiliato al Partito democratico, Trump viceversa lo era fino a pochi anni fa. Entrambi conducono una campagna “populista”, contrapponendo cioè le élites portatrici di negatività al popolo incarnazione dei valori positivi.

Le analogie, però, si concludono qui. Il contenuto di classe è infatti molto diverso, sia nel messaggio sia nei sostenitori.
Per Sanders, infatti, le élites che soffocano il libero sviluppo popolare sono le oligarchie finanziarie di Wall Street, produttrici di enormi masse di ricchezza che solo in minima parte viene resa disponibile per fini sociali, grazie ad un trattamento fiscale più che compiacente. Per Trump, invece, il nemico è il ceto politico, parassitario poiché tenuto al guinzaglio dalle lobby e quindi in ultima analisi improduttivo. Una visione interessante in quanto demolisce l’architettura montesquieuiana della Costituzione statunitense, secondo cui proprio la rappresentanza dei diversi interessi rende possibile la repubblica democratica nell’era moderna. Si nota, comunque, come Sanders e Trump incarnino l’uno il nemico additato dall’altro (Sanders ha fatto politica per tutta la vita ed è al Congresso da un quarto di secolo).

Per quanto riguarda la base, vi è solo un punto in comune: entrambi sono candidati “bianchi”. I due gruppi di elettori sono però molto diversi: pur essendovi bianchi che votano Sanders non per intima adesione al suo programma (ne parleremo), quelli che lo votano per convinzione sono i bianchi istruiti cosmopoliti, i giovani universitari, i professionisti, gli intellettuali; i bianchi che votano Trump sono invece i poco istruiti, gli isolazionisti, gli emarginati dalla globalizzazione, gli stessi cioè che votano Front National in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, le destre e i fascisti in Polonia, ecc.

Lo status del trumpismo è quello della variante statunitense di tali nuovi fascismi sorti di recente in Europa. Nelle primarie non vince tra i conservatives: questi votano Cruz, senatore in rotta da destra con il partito e appoggiato dal network evangelico. Vince invece con i voti dei moderates, ma questi sono, piuttosto, i non-ideologici, i qualunquisti: centristi non perché moderati, ma perché egualmente lontani da tutte le posizioni politiche. Vince, soprattutto, tra i bianchi razzisti. È sugli stati ex segregazionisti del Sud, dove pure è concentrata la popolazione evangelica amica di Cruz, che Trump ha costruito il suo attuale vantaggio nei delegati per la convention repubblicana. I suoi più forti sostenitori sono, nelle parole del New York Times, “un certo tipo di democratici”: quelli cioè che, pur restando ufficialmente affiliati all’asinello, votano ormai da molti anni repubblicano in tutte le maggiori consultazioni. Possono essere divisi in tre segmenti: gli operai sbandati dal declino della cintura industriale, ora “cintura della ruggine” (Rust Belt), negli stati del Nord; i minatori di carbone del bacino degli Appalachi; i bianchi conservatori del Sud. In tutti questi gruppi motivi storici (la schiavitù e la segregazione) o economici (la concorrenza lavorativa in un contesto di generale declino) hanno causato un aspro razzismo. Per l’unione di populismo e razzismo Trump sembra dunque la replica della candidatura indipendente nel 1968 di George Wallace, l’ex governatore dell’Alabama che ebbe delle buone punte di consenso anche tra gli operai bianchi del Nord.

Trump sembra, però, una tigre di carta. I grandi colossi capitalisti si sono mossi contro di lui, ritenendolo l’assassino del partito del business (quello Repubblicano). Ma hanno torto: egli ne è solo il becchino, evocato da quelle forze antisistema che il Partito repubblicano ha nutrito fin dal 2009 e che ora si scopre non più in grado di controllare. Siamo dunque alla crisi del GOP? Probabilmente sì. (Ci torniamo.)
Per quanto riguarda la candidatura di Sanders, il suo consenso come socialista non va oltre il 10% (la quota assegnatagli dai sondaggi prima che iniziasse la stagione delle primarie). Il restante 35% si compone di due fattori: 1) coloro che pensano che il socialismo consista nella pacchia; 2) i nemici di Hillary Clinton.
Il primo fenomeno è, come i nuovi fascismi, comune all’Europa e appare diffuso soprattutto tra i giovani. Esso tende a premiare una spesa pubblica disinvolta, e all’occasione improduttiva; è una ribellione non contro l’ineguaglianza economica bensì contro il non poter fare, in questa ineguaglianza, la parte del leone. Nel movimento-radice di questo fenomeno – gli indignados – Ingrao colse giustamente un movente individualista, esposto in modo preoccupante al «vento anonimo del mercato». Il caso principe resta Podemos, ma l’eco si avverte, oltre che in alcuni segmenti della “sinistra” dei movimenti fascisti, anche in aree a ispirazione socialista (Syriza, il Labour Party, e appunto il movimento che sostiene Sanders). Come mostrano alcuni sondaggi statunitensi, infatti, i giovani sono l’unica fascia di età dell’elettorato a dichiarare una preferenza per il socialismo rispetto al capitalismo; tuttavia lo collegano non alla redistribuzione del reddito bensì al libertarismo.

Per ciò che riguarda l’opposizione a Hillary Clinton, questa ha ereditato in parte la base elettorale di Obama (neri e ispanici) aggiungendovi parte della classe operaia bianca ma perdendo, rispetto all’attuale Presidente, i giovani (i nati negli anni Novanta, però, non erano nella base di Obama perché nel 2008 non votavano). Oltre che dai giovani, che possono identificarsi all’ingrosso con i credenti nell’equazione tra socialismo e pacchia, Sanders si trova ad essere sostenuto, suo malgrado, dai settori di destra che sotto Obama si sono sentiti emarginati: gli old democrats delle campagne, i conservatori, gli antiabortisti e gli amanti delle armi. Più che eloquenti, in questo senso, le sue nette vittorie nelle campagne dell’Oklahoma e del Michigan, stati molto diversi (l’uno incuneato tra Grandi Praterie e Texas, l’altro proteso verso il Canada nei Grandi Laghi) ma accomunati da un potente conservatorismo sociale (erano tra gli stati che prevedevano il reato di sodomia fin quando la Corte Suprema non lo dichiarò incostituzionale nel 2003). È divenuto insomma l’alfiere di una reazione maschilista (netta la spaccatura di genere tra i suoi elettori e i clintoniani); del resto, tra i suoi punti deboli agli occhi dei liberals vi è l’aver più volte votato contro la regolamentazione delle armi (proviene non per caso da uno stato rurale con il 95% di popolazione bianca, record tra i 50 dell’Unione).

La grande battaglia, interna ed esterna ai democratici, sulla candidatura Clinton deve in larga parte al fatto che una sua Presidenza sarebbe vista come il “terzo mandato di Obama”, secondo una dicitura più volte richiamata dagli opinionisti. Questo ci riporta all’unico Presidente eletto ad un terzo mandato: Franklin D. Roosevelt nel 1940. Le sue vittorie nel 1932 e ’36 segnarono la fine del sistema partitico a egemonia repubblicana che, a partire da fine Ottocento, aveva costruito la moderna industria protezionistica. Si avviò una nuova fase, a egemonia democratica, fondata sull’intervento pubblico in economia e sulla costruzione del welfare state. Ad essa ne sono seguite altre due: una nuova egemonia repubblicana (la reazione della “maggioranza silenziosa” a partire dal 1968) e – è convinzione di chi scrive – una nuova egemonia democratica suggellata dalle vittorie di Obama nel 2008 e 2012. Il 2016 ci riporta per alcuni versi quindi alle presidenziali del ’40: all’epoca il Partito repubblicano, incerto, spiazzato e diviso, scelse a sorpresa come candidato l’outsider milionario newyorkese ex-democratico (ricorda qualcuno?) Wendell Willkie. La grande differenza con Trump è che quegli fu scelto dalla convention del partito, questi ottiene i voti della base contro lo stesso partito.

Incidentalmente, nel 1940, dopo i plebisciti del ’32 e ’36, iniziò anche ad affiorare una stanchezza dell’elettorato nei confronti di FDR. Tornarono a votare repubblicano (parte del) New England, (parte del) Midwest e le Grandi Praterie. Gli stessi stati, cioè, che oggi premiano Sanders nelle primarie democratiche.
Siamo, quindi, a un punto di rottura del Partito repubblicano? Non è improbabile. Esso è ormai una rissosa coalizione di due partiti: il partito storico e le nuove leve post-Tea Party. Questa frattura si è manifestata con evidenza lo scorso ottobre nelle dimissioni dello Speaker della Camera John Boehner, violentemente osteggiato dalla destra interna per i compromessi con la Casa Bianca sul bilancio federale. Inoltre da anni i sondaggi rilevano un dato degno di nota: pur avendo i repubblicani controllato la Camera dal 2010 e il Senato dal 2014, i loro elettori sono inferociti contro il Congresso molto molto di più rispetto a quelli democratici. Il GOP appare quindi una coalizione tra la destra e l’antisistema (in venatura fascista), esattamente come i democratici sono (stati?) una coalizione tra il centro e la sinistra. Indiscrezioni di stampa hanno ventilato come i rappresentanti del partito storico (in testa il capogruppo di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, eletto nel 1984) siano pronti a fare campagna contro Trump se questi dovesse ottenere la nomination. Il movimento “Never Trump” ha già conquistato la pubblica adesione di alcuni parlamentari repubblicani: un sostegno a The Donald potrebbe infatti significare legarsi una palla di piombo al piede e venire trascinati a fondo in tutte le contestuali elezioni e in particolare quelle per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato.

Ultima modifica il Lunedì, 14 Marzo 2016 14:37
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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