Gli ultimi test missilistici effettuati dal governo di Pyongyang hanno alzato la tensione nell’area, con gli Stati Uniti che premono per nuove sanzioni che fanno parte di una precisa strategia. Ci sono stati i richiami alla stabilità anche da parte della Russia, ma che per il momento è impegnata in esercitazioni militari ai confini europei della zona Nato e troppo presa dalla destabilizzazione dell’area caucasica per intervenire direttamente. L’altro vero attore in questo teatrino allestito di tensione è la Cina, che con le sue dichiarazioni si è dimostrata infastidita, con le parole del Ministro degli Esteri Wang Yi, dalle prove di forza del governo nordcoreano. Ma le inquietudini statunitensi e cinesi sulle attività militari di Pyongyang hanno ragioni diverse.
La Corea del Nord di Kim Jong-un sta attraversando da anni uno dei momenti più difficili della sua storia. Le ragioni sono legate a una situazione economica in grave crisi, dovuta anche alla carestia degli anni Novanta che ha messo in ginocchio i contadini. L’agricoltura è suddivisa tra grandi aziende controllate dallo stato e cooperative agricole, da cui il governo nordcoreano compra (leggere trattiene) il 40% del raccolto e lasciando il resto alla sussistenza dei contadini (il resto in più può essere venduto). In questi ultimi anni però i raccolti sono stati pessimi, a causa di una arretratezza tecnologica e di una produzione sotto la media regionale, mediamente circa quattro tonnellate per ettaro, quando la media in questa regione dell’Asia è sei tonnellate. A Kaesong nella zona più vicina al confine militarizzato si trova il più grande polo industriale del paese, che fino al febbraio del 2016 era cogestito con il governo di Seoul, che ha abbandonato il progetto a causa dei test nucleari dello scorso anno. Inoltre anche la Cina ha stritolato l’economia nordcoreana con delle recenti sanzioni sul commercio del carbone.
Solamente la propaganda del governo di Kim Jong-un, la dottrina “Juche” legata anche al culto oramai dinastico del padre e del nonno dell’attuale maresciallo, tiene in piedi il paese che è a tutti gli effetti uno stato militarizzato e con la propaganda statale materia scolastica. Non si tratta di un giudizio etico morale, quanto di una constatazione. Queste dimostrazioni di forza di Kim Jong-un (che non a caso lo zio ucciso considerava la mela marcia della famiglia) servono per scongiurare una possibile riunificazione forzata della Corea a causa delle gravi condizioni economiche e di arretratezza del paese. Una possibilità che vuole escludere a tutti costi la Cina: una Corea riunificata sarebbe tutto a vantaggio della Corea del Sud, in questo momento assieme al Giappone avversario principale del colosso cinese nell’area asiatica. La Cina punta al mantenimento dello status quo in Corea, come dimostrano i moniti rivolti al maresciallo nordcoreano e la possibilità che il governo di Pechino possa favorire un clamoroso colpo di mano al governo di Pyongyang.
Diversa la posizione degli Stati Uniti: come si è visto dall’incontro avvenuto alla Casa Bianca il 10 febbraio scorso tra il presidente del Giappone Shinzo Abe e il presidente statunitense Donald Trump, assieme alle esercitazioni congiunte con Seoul lungo le coste sudcoreane. L’occasione di queste provocazioni da parte del governo nordcoreano che utilizza l’unica carta forte che ha, l’arsenale militare, può essere la scusa per un colpo geopolitico importante ai danni della Cina. Nonostante la drammaticità delle sirene antiatomiche che sono tornate a suonare in Giappone durante il lancio dei missili dalla Corea del Nord, il governo del paese ha una chiara impronta nazionalista e assieme alla Corea del Sud è il principale argine all’espansionismo cinese nell’area asiatica. Va ricordata anche la crisi politica a avvenuta a marzo nella Corea del Sud, con le dimissioni della Presidente Park Geun-hye, coinvolta da mesi in un scandalo di corruzione e clientelismo, comportando una forte instabilità politica nel paese.
La crisi coreana di questi giorni quindi non è altro che un altro segnale di una destabilizzazione dell’area asiatica più grande. La Cina ha aumentato del quasi 10 % in questi anni le proprie spese militari e ha provveduto alla militarizzazione di alcune isole e atolli fino a pianificarvi l’installazione di rampe di lancio per missili terra-aria, giustificando queste attività come l’intento di proteggere la sua sovranità oltre che salvaguardare la libertà di navigazione nella zona, indifferente alle proteste di altri paesi della zona. In realtà Pechino ha spostato l’attenzione della capacità militare dal contenimento interno all’espansionismo. La Cina è passata da una forza di difesa del proprio territorio ad una capacità di proiezione all’esterno ed è questo l’obiettivo che sta perseguendo. Il terreno di contesta è il Mar Cinese Meridionale, sul quale si affacciano altri paesi come Taiwan, Filippine, Vietnam, Malaysia, Brunei ecc. Il governo cinese rivendica queste come acque territoriali proprie, avendo aperta una contesa internazionale con la Corte dell’Aja. L’acquisizione del controllo del Mar Cinese comporterebbe conseguenze dirette sulla concezione di libertà di navigazione che sono le linee fondamentali su cui si basa l’economia globale. Su questo principio è basata la protesta americana, il vero principale contendente della Cina nel controllo geopolitico dell’area e anche dell’influenza globale. Visti anche i grandi investimenti che il governo cinese ha attuato nella politica estera rivolta in Africa e i contenziosi con l’Unione Europea recentemente aperti con il commercio dell’acciaio.
Dall’altra parte, la Cina vede con diffidenza le recenti azioni di terrorismo islamico che si sono svolte in Indonesia, Filippine e altri paesi dell’area Sud-est asiatica come favorite dai servizi americani in quanto elementi di destabilizzazione. Da alcuni decenni l’Asia sud-orientale è obiettivo di numerosi attacchi jihadisti dovuti a questioni etniche e nazionali. Alcuni paesi dell’area, infatti, in particolare le Filippine e la Thailandia, affrontano insorgenze islamiche etno-nazionaliste locali, che affondano le proprie radici nelle politiche coloniali, diretti ad ottenere la separazione o la totale autonomia. In Malesia e in Indonesia, invece le insurrezioni che hanno conseguenze regionali sono da sostegno alla causa islamista di traghettare il paese verso l’islamizzazione dello Stato. I cinesi vi leggono le stesse dinamiche di destabilizzazione favorite dalla politica estera americana per infiammare in questo ultimo decennio il Medio Oriente. La crisi in Corea del Nord è solamente uno specchietto per le allodole di una quasi conclamata crisi internazionale in atto tra l’espansionismo della Cina e la nuova politica estera degli Stati Uniti.
Se Donald Trump poteva far presagire una sorta di nuovo isolazionismo a stelle e strisce, i fatti di questi suoi primi mesi di presidenza hanno dato una direzione totalmente diversa. Un potenziale conflitto economico e geopolitico che coinvolgerà molti paesi dell’area asiatica, che solo un raffreddamento della crisi coreana può al momento frenare. Una riunificazione della Corea, da una parte o dall’altra, potrebbe scatenare un effetto domino. Ma proprio le esercitazioni militari di questi giorni e le dimostrazioni di forza susseguitosi fanno pensare che per il momento ci sia una fase di stallo. Solamente un intervento diretto di Pechino può stabilizzare le azioni del governo nordcoreano, ma come dichiarato dal ministro degli Esteri cinesi soltanto garanzie della fine delle manovre militari congiunte tra USA e Corea del Sud può riaprire una fase di negoziati più attiva. Una Corea del Sud che in questi anni ha portato avanti una politica strisciante di influenza economica alla sua “gemella”, con fondi umanitari e appunto la gestione congiunta dell’area industriale di Kaesong. Politica di apertura mai approvata dalla precedente amministrazione Obama e segnale di una volontà di emancipazione da parte di Seul dalla protezione americana. Interessi diversi ma obiettivo comune di stabilizzazione impediscono in questo momento alla Cina e agli Stati Uniti di trovare una soluzione comune alla recente crisi. I dirigenti di Pechino non provano né simpatia per Kim Jong-un né tanto meno una qualche solidarietà ideologica.
Anche se tra i veterani del partito comunista cinese esiste ancora una fraternità d’armi con la Corea del Nord a causa dell’impegno di un milione di “volontari cinesi” durante la guerra di Corea (1950-1953), la generazione di Xi Jinping non sembra avere alcun interesse a parte quello strategico. Ci sono tutti i segnali quindi di un conflitto geopolitico in atto tra i maggiori contendenti dell’influenza nell’area e gli attori sono molteplici. I segnali oramai conclamati di un inasprimento dei rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti, assieme ai suoi grandi alleati dell’area rappresentati dalla Corea del Sud e dal Giappone. E la partita si gioca come accade da decenni lungo il 38° parallelo.