Luigi Vinci

Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

Perché Trump.

Anche negli Stati Uniti, non solo in Europa, si allarga la reazione di popolo guidata da destra contro la mondializzazione economica neoliberista

Antefatti

La scossa tellurica in atto non è solo statunitense ma mondiale. I suoi effetti risulteranno enormi e altamente contraddittori. Nel mirino delle popolazioni occidentali sono sempre più le politiche di libero scambio, di storica matrice liberale, che hanno portato al dominio incontrollato (una sostanziale dittatura) del mercato sulle economie e al dominio incontrollato e rapace della grande finanza speculativa e di un pugno di multinazionali sul mercato, unificando organicamente in un unico processo mondiale neoliberista l’accumulazione capitalistica.

Mercoledì, 06 Luglio 2016 00:00

Erdoĝan annaspa

L’attentato all’aeroporto di Istanbul, stando alla stampa italiana, sarebbe senz’altro attribuibile a Daesh. Le caratteristiche anche tecniche di quest’attentato richiamano effettivamente quelle degli attentati di Daesh in territorio siriano, iracheno, europeo, asiatico. Tuttavia Daesh ha sempre rivendicato i suoi attentati, e nessuno di quelli sofferti dalla Turchia sono stati rivendicati da Daesh. O meglio esso ha rivendicato in passato alcune operazioni effettuate in Turchia contro singole persone, come curdi legati alla militanza PYD del Rojava e operanti a ridosso del confine siriano. Inoltre sono senz’altro imputabili a Daesh (in collaborazione con i servizi di intelligence del MİT, la polizia e il governo AKP del pazzo criminale Erdoĝan) le stragi di Diyarbakır e Suruç del luglio del 2015, che colpirono rispettivamente un comizio elettorale del partito curdo legale HDP e una manifestazione di solidarietà di organizzazioni giovanili di sinistra con i combattenti curdi di Kobanê (Suruç è sul confine siriano), e la strage ad Ankara dell’ottobre successivo, che colpì un comizio elettorale sempre dell’HDP (ricordo che nel 2015 ci furono due momenti elettorali in Turchia).

A rendere dubbia, inoltre, tutta quanta la ricostruzione da parte turca dell’attentato all’aeroporto di Istanbul c’è che a una decina di giorni prima il MİT (o meglio un suo pezzo) aveva dichiarato al governo di ritenere prossimo un attentato in questa città, che il medesimo preavviso era stato dato dai servizi statunitensi, e che l’aeroporto di Istanbul era stato segnalato come uno dei possibili bersagli. Ancora, a rendere più che dubbia la ricostruzione del governo ci sta il fatto che la sorveglianza di polizia e militare dell’aeroporto non era stata rafforzata. Alimentare la “strategia della tensione” a suon di bombardamenti e massacri è stato da due anni a questa parte uno strumento fondamentale della politica interna di Erdoĝan, sia per conto della tenuta del consenso di cui dispone nella popolazione turca che a giustificazione, in una situazione di crescente isolamento internazionale, della sua guerra alla popolazione curda del sud-est.

Non si può tuttavia escludere in radice l’ipotesi che l’attentato all’aeroporto di Istanbul sia stato davvero effettuato da Daesh, sulla scia del deterioramento in corso dei rapporti Erdoĝan-Daesh. Adottiamo per un momento quest’ipotesi. Come i summenzionati attentati a Diyarbakır, Suruç e Ankara era inopportuno che fossero rivendicati da Daesh, perché avrebbero messo in chiaro il legame cooperativo Erdoĝan-Daesh e avrebbero danneggiato le campagne elettorali del partito di governo AKP, così una mancata rivendicazione da parte di Daesh dell’attentato all’aeroporto di Istanbul potrebbe significare che esso non dia per scontata una rottura politica definitiva con la Turchia, e che sarebbe appunto per impedirla che abbia realizzato quest’attentato. Esso cioè rappresenterebbe questo messaggio al potere turco: “o continui ad appoggiarci o noi continueremo a colpirti con stragi disastrose”.

Il deterioramento dei rapporti Erdoĝan-Daesh è in ogni caso reale. Questi rapporti erano parte, dal lato di Erdoĝan, di più ragionamenti. Il primo, la fungibilità di Daesh, e delle altre organizzazioni armate sunnite, all’obiettivo, attraverso la devastazione della Siria, di portarla o di portarne una parte sotto controllo politico turco, nel quadro dell’obiettivo megalomane della ricostituzione del califfato ottomano. Il secondo, il fatto che Daesh appariva un partner importante, come altre organizzazioni armate sunnite, prima di tutte al-Qaeda, dello schieramento di stati (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, appunto Turchia) che tira alla guerra generale (già cominciata in Yemen) contro gli stati sciiti, cioè contro l’Iran e lo stesso Iraq attuale (tra gli obiettivi turchi c’è anche il controllo del Curdistan iracheno e possibilmente dell’area di Mosul). Non solo. Daesh vendeva alla Turchia (o meglio al clan familiare di Erdoĝan e ai suoi sodali stretti dentro all’AKP) il petrolio estratto nei territori siriani sotto suo controllo, ricevendone in cambio la piena libertà di movimento e di transito, la protezione, la cura ospedaliera dei feriti, il rifornimento di armi, informazioni militari ecc. in territorio turco per i suoi assassini, grazie al fatto che Daesh controllava un tratto del confine turco-siriano. Infine Daesh risultava essere un prezioso alleato nella guerra di Erdoĝan ai curdi siriani, partecipi di un movimento politico vicino al PKK curdo-turco. Ma poi le cose sono cambiate, e abbastanza velocemente.

Daesh è precipitato in grandi difficoltà militari: la Russia è intervenuta in termini efficaci a sostegno del regime di Assad, ciò ha obbligato gli Stati Uniti a incrementare il loro intervento, ad armare i curdi siriani, a smetterla, retorica politica a parte, con la tesi sballata della doppia guerra a Daesh e a questo regime, ecc. In Iraq le cose si sono mosse nel medesimo senso. I curdi siriani sono diventati i migliori alleati degli Stati Uniti, per la loro capacità militare. Sempre sotto traccia gli Stati Uniti hanno smesso di considerare alleati effettivi Arabia Saudita, Israele, altre petromonarchie sunnite, e hanno deciso di considerare come loro vero alleato fedele nella regione l’Iran. Il tratto di confine tra Siria e Turchia non ancora sotto controllo curdo, infine, è stato chiuso: i bombardamenti russi vi hanno demolito ogni realtà armata ostile al potere siriano, poi è stato largamente occupato da truppe non solo siriane ma anche russe, sicché la Turchia non può intervenire militarmente a riaprirlo. In breve, tutte le condizioni del progetto di Erdoĝan sono venute meno. L’isolamento internazionale non era più, perciò, il prezzo che valeva la pena di pagare, ma era diventato un danno grave all’economia e alle condizioni popolari di vita in Turchia.

Per quanto profondamente malata di sciovinismo e di razzismo, la popolazione turca aveva votato per Erdoĝan non tanto perché facesse la guerra ai curdi ma perché migliorasse le condizioni popolari di vita e portasse tranquillità al paese. Di qui allora due atti, repentini, di svolta da parte di Erdoĝan. Il primo, l’abbandono di Daesh al suo destino, considerandone scontata la sconfitta militare e considerando ormai impossibile la realizzazione di un’egemonia turca sulla Siria, in quanto protetta dalla Russia e, sul versante curdo e su quello sunnita, dagli Stati Uniti. Residua una possibilità di egemonia sulla parte settentrionale dell’Iraq, usando l’alleato Barzani cioè il presidente corrotto del Curdistan iracheno: ma per tentarla occorre che Erdoĝan recuperi il rapporto con qualcuno di significativo in più oltre all’Arabia Saudita. In attesa di provarci con la Clinton o con Trump (con Obama la partita è chiusa), Erdoĝan è quindi andato a Canossa, cioè ha concordato con Israele l’indennizzo alle famiglie dei pacifisti turchi uccisi mentre tentavano di portare cibo a Gaza assediata da quest’altro assassino, e ha chiesto scusa a Putin per l’abbattimento dell’aereo militare russo sul confine turco-siriano. Tra parentesi, anche Israele ha in questo momento il problema del proprio isolamento internazionale. Attraverso il recupero di rapporti con Israele Erdoĝan si è dunque assicurato importanti rifornimenti energetici e aiuti tecnologici. Attraverso quello con la Russia, rifornimenti energetici non a rischio, la fine di sanzioni russe economicamente molto pesanti (blocco del turismo russo, blocco dell’importazione di frutta e verdura dalla Turchia, ecc.). Anche i rapporti della Turchia con l’Egitto sono destinati a migliorare (erano diventati pessimi a seguito della condanna da parte turca del golpe militare egiziano, che aveva colpito un presidente membro dei Fratelli Mussulmani, la medesima confraternita politico-religiosa cui appartiene Erdoĝan).

Tutto questo gioca evidentemente a favore dell’ipotesi di un’effettiva rottura tra Erdoĝan e Daesh. In ogni caso non occorrerà molto tempo per capire meglio le cose.
Ma se esse stanno così saranno guai grossissimi per la Turchia; la sua popolazione e la sua economia pagheranno un prezzo drammatico alla follia di Erdoĝan. La Turchia è stata in questi anni la retrovia fondamentale di Daesh, e con ciò il luogo nel quale le simpatie per Daesh hanno coinvolto migliaia di persone, solo parte ridotta delle quali è andata a combattere in Siria o in Iraq. Il telaio di supporto in Turchia a Daesh era grosso e articolato, e tale continua a essere. Ci sono quindi in Turchia migliaia di militanti di Daesh, turchi o provenienti dalla Russia e dall’Asia centrale, ben organizzati e in grado di mettere bombe e di sparare sulla gente. Inoltre Daesh ha legami stretti con pezzi di polizia e del MİT. Non va trascurato che sotto il vestito dello stato parlamentare, di diritto, caratterizzato dalla divisione dei poteri, dall’autonomia della magistratura, dalla fedeltà delle forze armate allo stato ecc. con il quale la Turchia di Erdoĝan si camuffa c’è una realtà, tutta rovesciata, che fa di ogni struttura e di ogni apparato dello stato e di ogni potere turchi, compreso quello militare, un coacervo di gruppi e di cosche che operano secondo la loro logica, le loro convenienze e i loro traffici, in genere illegali, hanno intrecci orizzontali tra loro, hanno rapporti con potenze straniere, tra le quali le petromonarchie arabe, grandi finanziatrici del terrorismo sunnita in tutte le sue varianti.

L’Occidente in balia di un criminale impazzito? Già accadde

La versione turca degli avvenimenti che hanno portato all’abbattimento dell’aereo militare russo fa acqua. Gli Stati Uniti hanno dichiarato, sulla base delle riprese dei loro satelliti, che l’aereo russo ha sorvolato per 17 secondi una lingua di territorio turco che si insinua in territorio siriano. Questo vuol dire che i 5 minuti nel corso dei quali messaggi turchi avrebbero imposto per 10 volte all’aereo russo di abbandonare lo spazio aereo turco o sono stati effettuati tutti a un aereo russo fuori da tale spazio, oppure che solo un messaggio lo ha raggiunto mentre si trovava in esso.

Giovedì, 26 Novembre 2015 00:00

Tocchiamo ferro

Tocchiamo ferro

E’ di qualche ora fa la notizia dell’abbattimento di un aereo militare russo, tramite missile aria-aria, da parte di un aereo militare turco sul lato più occidentale del confine tra Turchia e Siria. Da parte turca è stato affermato che l’aereo russo aveva sconfinato e che era stato invitato più volte a uscire dallo spazio aereo turco, e che solo a seguito della continuazione dello sconfinamento e dell’avvicinamento di un altro aereo russo sarebbe avvenuto l’abbattimento. I due piloti russi sarebbero riusciti a paracadutarsi. Il territorio sul quale l’aereo russo si è schiantato e i due suoi piloti sono scesi è siriano. E’ un territorio montagnoso controllato da un gruppo ostile al governo siriano composto da miliziani siriani di etnia turcomanna, probabilmente legata allo Stato Islamico e che aveva recentemente subìto bombardamenti da parte dell’aviazione russa. Questo gruppo ha dichiarato che uno dei due piloti era gravemente ferito e che è deceduto. L’altro parrebbe essere prigioniero. Veniamo alle dichiarazioni russe. L’abbattimento dell’aereo sarebbe avvenuto sulla Siria alla distanza di quattro chilometri circa dal confine con la Turchia, hanno affermato fonti militari. Da parte di Putin c’è stata una dichiarazione molto dura: la Russia è stata “colpita alle spalle” dai sostenitori dello Stato Islamico, ci saranno conseguenze. Una seconda dichiarazione ha affermato che l’aereo abbattuto stava sorvolando il passaggio di una colonna di autobotti che trasportava in Turchia petrolio dal territorio siriano controllato dallo Stato Islamico. Va da sé, credo, che anche se fosse accaduto uno sconfinamento russo l’abbattimento dell’aereo sarebbe totalmente ingiustificato e irresponsabile.

La catastrofe è in corso, ma è arrestabile. A determinate condizioni prima di tutto politiche.

L’intervento russo nella tragedia siriano-irachena e la terribile strage del 13 scorso a Parigi a opera dei killer fanatici dello Stato Islamico pare stiano cambiando parte delle coordinate insensate, politiche e militari, con le quali Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Unione Europea hanno affrontato da cinque anni a questa parte questa tragedia. Sarà sufficiente quel che si comincia a vedere? Non è detto; non è detto, prima di tutto, che il comportamento occidentale riuscirà a essere coerente. Anzi si può già constatare come non abbia l’intenzione di essere tale.

Mercoledì, 14 Ottobre 2015 00:00

Il caporione stragista è Erdoğan

Il caporione stragista è Erdoğan

Non è vero che della strage di ieri 10 ottobre mattina ad Ankara che ha colpito soprattutto la parte di una manifestazione dove erano concentrati curdi legati al partito HDP e che ha fatto 128 morti e oltre 500 feriti, molti dei quali gravissimi, la responsabilità sia stata solo dell’ISIS, cioè dei suoi due killer suicidi carichi di esplosivo. Intanto testimonianze raccolte da partecipanti alla manifestazione indicano fatti che rendono più complicata la responsabilità. Intanto le esplosioni sono state precedute e accompagnate da attacchi con armi da fuoco da parte di altri individui. Poi, mentre le ambulanze stavano tentando di aprirsi la strada, la polizia ha brutalmente attaccato i manifestanti sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo, e creando ulteriori feriti. Rappresentanti dei sindacati e delle ONG che avevano concorso all’organizzazione della manifestazione hanno quindi dichiarato che l’attacco è venuto da forze “fasciste” e che esso era stato anticipato dal ministro degli interni Altınok (questi alcuni giorni prima aveva affermato “le teste di coloro che resistono allo stato saranno sfracellate”). Le manifestazioni nelle città della Turchia avvenute in serata e stamani gridavano dunque a ragion veduta “stato assassino”. Lo stesso hanno dichiarato il presidente del partito kemalista CHP Kılıçdaroğlu e il copresidente dell’HDO Demirtaş.

Lunedì, 12 Ottobre 2015 00:00

La tragedia del Medio Oriente a una svolta?

La tragedia del Medio Oriente a una svolta?

L’editoriale di martedì 6 ottobre sul Corriere della Sera a firma di Paolo Mieli svolge un ragionamento condivisibile salvo però tacere su un punto fondamentale. È inoltre un ragionamento simile, a volte in modo determinato a volte on cautela, a quello di una buona parte delle forze di governo e dei mass-media occidentali (altrimenti Mieli se ne starebbe stato tranquillo a scrivere d’altro). Si tratta di una critica molto netta alle posizioni di Obama verso la crisi mediorientale e in particolare verso il versante siriano di questa crisi. Se l’ISIS (Daesh, l’ISIL, lo Stato Islamico) merita, per ciò che è, ciò che fa e ciò che vuole realizzare, di essere paragonato al nazismo, allora, argomenta Mieli, gli Stati Uniti dovrebbero orientarsi a praticare la medesima linea che praticarono facendo guerra al nazismo: l’alleanza con la totalità delle forze antinaziste.

Sono recentemente usciti due libri sulla lotta dei curdi di Kobanê contro lo Stato Islamico, che decisamente meritano di essere letti e fatti leggere.

Il primo, edito da Edizioni Alegre, titola Kobane, diario di una resistenza, ed è stato realizzato da “staffette di solidarietà”, composte da giovani legati alla rete Rojava calling di associazioni, collettivi, centri sociali e singoli individui, che si sono recate dall’ottobre del 2014 al marzo scorso in questa città. Il secondo libro, edito da Agenziax, titola Kobane dentro, è stato scritto dal giornalista freelance Ivan Grozny Compasso, che si è recato a Kobanê nel dicembre successivo. Ambedue i libri sono reperibili od ordinabili presso le sedi delle edizioni Feltrinelli.

Venerdì, 21 Agosto 2015 00:00

Erdoĝan massacra i kurdi

Erdoĝan passa all’incendio dei villaggi curdi di montagna e al massacro della loro popolazione

Come già segnalato da Uikionlus tramite il suo mezzo informatico Sole Parev e ripreso dal Manifesto, l’aviazione e le forze speciali turche stanno procedendo a bombardamenti e rastrellamenti su vasta scala nel Curdistan turco, colpendo i villaggi di montagna, abitati da contadini e pastori, massacrando quanti, uomini donne e bambini, non riescono a fuggire, incendiando abitazioni, distruggendo bestiame e pozzi. Contemporaneamente le forze di polizia stanno arrestando su vasta scala sindaci, quadri e militanti delle organizzazioni curde legali. Niente di nuovo. Lo stato turco, cioè l’assassino Erdoĝan, addebita al PKK le 40 mila e oltre vittime della lunga guerra degli anni ottanta e novanta: ma si tratta nella quasi totalità di vittime curde delle forze armate e di polizia turche, alle quali vanno aggiunti 4 mila villaggi distrutti e 3 milioni di profughi cacciati dalle loro terre verso le grandi città turche. Una militante del PKK, si è appena appreso, uccisa in uno scontro con le forze speciali nella città di Garto è stata spogliata e fotografata, e la fotografia è stata diffusa.

La politica estera come terreno esplosivo pericolosissimo delle difficoltà di riadattamento alla realtà mondiale da parte USA
Riflessione generale pessimista ormai obbligata

Il titolo e l’inizio di quest’articolo si limitano a segnalare un problema non di oggi ma ormai acuto della gestione politica degli Stati Uniti, non solo di quella estera ma anche di quella interna. La parte di superpotenza politica mondiale basata sulla superpotenza economica e militare e, conseguentemente, con licenza di uccidere sta volgendo da tempo al declino. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti realizzavano il 40% del PIL mondiale, oggi sono sì e no al 20. Il crollo dell’Unione Sovietica e il collasso della Russia fecero sperare agli Stati Uniti che la prospettiva fosse un mondo unipolare, ma ciò fu presto contraddetto dall’emergenza cinese e, a ruota, di altre grandi realtà della ex periferia capitalistica, tra le quali la stessa Russia. Né l’Europa occidentale, paralizzata economicamente e politicamente da un tentativo egemonico tedesco incapace di egemonia e privo di forza militare, è palesemente in grado di integrare la forza degli Stati Uniti (come mostrano chiaramente le mezze guerre a Libia e Siria, cioè due impressionanti autoreti, e l’incapacità di esistere nella crisi medio-orientale e dinanzi al conflitto Russia-Ucraina, e come Obama appare ormai obbligato a registrare).

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