La Grecia si trova nella non invidiabile posizione di costituire un caso limite sia nel quadro a monte, cioè della sua identità politica nazionale, sia in quello a valle, cioè di Paese europeo durante la crisi economica.
Infatti, la Grecia presenta i tratti comuni ai Paesi PIGS in maniera più marcata rispetto agli altri (Portogallo, Spagna, Italia): centralismo amministrativo, ruolo statale nell’economia, politicizzazione della burocrazia. L’elefantiasi del settore pubblico greco si sarebbe rivelata insostenibile anche senza la crisi, fondandosi su un colossale trasferimento di denaro pubblico ai cittadini senza un adeguato corrispettivo di produttività: pre-pensionamenti, ereditarietà delle pensioni, bonus salariali di ogni genere, società pubbliche ormai prive di scopo (famigerata quella per la gestione del lago Kopais, prosciugatosi negli anni Trenta).
Tale sistema era amministrato a fini clientelari dai due grandi partiti democratici di Nea Demokratia e Pasok, ma principalmente da quest’ultimo in quanto rappresentante dei ceti deboli, per i quali un’occupazione pubblica ha fornito a tutti gli effetti una rete di protezione sociale.
Il sistema intrecciava così profondamente politica e società, partiti ed economia, forza lavoro e istituzioni, che Nea Demokratia ritenne preferibile truccare i bilanci per anni (mossa che, al netto di giudizi etici, è un eufemismo definire azzardata) piuttosto che impegnarsi in una riforma che pure, per un partito di destra, non sarebbe stata un particolare tabù ideologico.
I conti (economici e politici) con il problema dovette invece farli proprio il Pasok, procedendo a una legislazione di blocco dei trasferimenti pubblici e aumenti di imposte. Questa ha manifestato i propri effetti soprattutto a partire dal secondo anno di rigore (il 2011), sconvolgendo il tradizionale quadro partitico e provocando un rapido avvicendamento nelle fortune delle forze politiche minori.
La turbolenza della situazione emerge in tutta chiarezza da un confronto sull’andamento del PIL a prezzi costanti: fatto 100 il dato del 2002, il valore della produzione salì a 124 nel 2007 per crollare poi fino a 91 nel 2013. Insomma: nel giro di pochi anni un uragano di tagli si è abbattuto su quello che era il più ramificato e tentacolare settore pubblico d’Europa. Gli elettori tradizionali del Pasok hanno, di conseguenza, abbandonato il partito. I primi, quelli più a sinistra, si rivolsero al KKE; ma alla lunga a beneficiarne sono state forze euroscettiche sì, ma moderate, più populiste che settariamente antisistema (dovendo appunto al sistema la sopravvivenza numerose famiglie): Dimar per breve tempo, poi soprattutto Syriza.
Sarebbe un errore leggere la vittoria di Syriza come la vittoria del programma politico del partito: un’Europa solidale e “diversa”, un’Europa che ponga “people before profits”: ciò equivarrebbe all’errore di interpretare i consensi al M5S come consensi ai valori ufficiali del partito (onestà, ambientalismo, partecipazione democratica) e non come mera e cieca ribellione. Proprio come con il M5S, a Syriza gli elettori non chiedono di sostituire la vecchia classe politica perché rivelatasi incapace e corrotta: chiedono l’esatto opposto, cioè la bacchetta magica di far ripartire il meccanismo. La stessa richiesta di rateizzazione del debito non rivela la consapevolezza che sia necessario un piano di rientro equilibrato sia nel dare sia nell’avere, bensì nasconde piuttosto il desiderio di tornare alle vecchie elargizioni statali.
Dal voto greco si possono trarre alcune lezioni generalizzabili per l’intera Unione Europea. Non è il primo caso in cui un partito un tempo ai margini del sistema politico acquisisce la guida del Governo: è già successo in Olanda con i liberali, ad esempio. È però il primo caso in cui detto partito appartiene a un’ala radicale dello schieramento politico.
La crescita delle ali estreme è diffusa in tutta Europa e la cosa ancor più importante è che non è politicamente univoca: Podemos, il Sinn Féin, lo Ukip, il Front National, il M5S, non sono tutti fascisti né tutti di sinistra radicale. Non vi è cioè un orientamento comune se non nel senso della contestazione; per il resto, ogni Paese va alla deriva per proprio conto: ulteriore rischio in un’Europa già disomogenea.
Se questo è il rischio, vi è però l’opportunità. Vari osservatori hanno già visto nella vittoria di Syriza la possibilità che la Germania (e dietro di essa i Paesi nordici) sentano il campanello d’allarme e decidano di allentare la corda del rigore. Ma, al di là del breve periodo e del dato economicistico, si apre uno sguardo sul più generale e duraturo destino politico dell’Europa.
In quale direzione l’Unione sarà trasformata dalla crisi? La destrutturazione delle famiglie politiche tradizionali è già in atto da molti anni: si pensi ai socialdemocratici tedeschi, non più competitivi, o a quelli austriaci, ancora competitivi grazie alla spaccatura in due del voto di destra. Ora tale destrutturazione pare arrivata al vero punto di rottura. C’è da dubitare che le masse votino avendo in mente il destino dell’Europa e la vita dei loro figli e dei loro nipoti o problemi come la pace in Europa e l’estensione delle libertà positive. Tuttavia il loro voto può essere incanalato in questa direzione; le forze interessate a uno spostamento a sinistra del quadro europeo dovranno essere in grado di compiere l’operazione di usare i voti puramente contestativi per realizzare politiche organiche e costruttive di un nuovo sistema.
La sfida interroga il mondo socialdemocratico più degli altri, poiché è esso ad essere minacciato di scomparsa per la sua ormai scarsa capacità di rappresentanza dei lavoratori. Gli elettori dei partiti socialdemocratici-operai dal 2008 sono “impazziti” in tutte le direzioni, alla ricerca di una qualsiasi forma di rappresentanza. L’assenza di un soggetto in grado di organizzare il movimento progressista ha lasciato alla società civile margini di autonomia (e/o di disorganizzazione) tanto ampi da poter produrre risultati molto diversi e sovente instabili: appunto, Podemos come il Front National come il Sinn Féin; ma si pensi anche all’altalena del consenso alla Lega Nord in questi anni.
Ad oggi è stata proposta solo una nuova formula, che peraltro ha dato prova di saper funzionare nei suoi vari compiti: respingere l’avanzare di movimenti fascisti, insistere con determinazione su una politica economica espansionistica pan-europea, fornire stabilità al quadro politico democratico. La formula è quella del partito democratico, rigorosamente minuscolo poiché più che il singolo partito essa identifica le sue coordinate: una forza attorno al cui baricentro possano gravitare ed amalgamarsi esigenze i cui portatori sono oggi confusi perché privi di rappresentanza e disperdono il loro voto in mille modi: confermandolo per i tradizionali membri del Pse, premiando la sinistra radicale, rivolgendosi alla destra estrema e all’antipolitica, cadendo nell’astensionismo, o votando anche i conservatori ritenendoli un baluardo finanziario contro la fine dell’euro e la svalutazione.
È necessario elevare le motivazioni singole di questi voti, spesso egoistiche, al fine storico del maggiore sviluppo dell’uomo: per farlo, è imperativo riunirle e dar loro organicità. Credo che il modello del partito democratico sia l’unico con i requisiti programmatici e culturali per rispondere a questo compito.
Foto liberamente ripresa da www.europarl.europa.eu